Sono solita pensare che ogni concerto, esattamente come un pregevole manufatto artigianale, sia un “pezzo unico” e irripetibile e, pertanto, faccio sempre il possibile per non perdere i “pezzi” che maggiormente mi attraggono. Il concerto che ascolto questa sera lo sarà – unico e irripetibile – in modo particolare, in quanto si tratta di un progetto basato sull’improvvisazione che, pur partendo da elementi e temi collaudati, riecheggianti nell’ottimo A Dreamy Journey uscito lo scorso anno, si sviluppa ogni volta in un modo diverso a seconda degli umori degli esecutori, del luogo, dell’interazione fra loro ed il pubblico presente e di ogni variabile che ne tocchi la sensibilità. È gremita di persone la bellissima e riccamente affrescata Sala Apollo del Palazzo d’Adda di Settimo Milanese (MI) dove si svolge la seconda serata del Farina Jazz Festival organizzato dalla Pro Loco Settimo Milanese, dopo il felice esordio della scorsa settimana, in attesa del trio Eyes and Madness di Alberto Dipace (pianoforte) con Danilo Gallo (contrabbasso) e Ferdinando Faraò (batteria).
Compiendo un percorso di progressivo alleggerimento, il ventisettenne chitarrista pugliese Enrico Le Noci s’allontana dalla dimensione corposa del quintetto che l’aveva visto esordiente nel 2019 con Social Music, il riuscitissimo album d’esordio per A.Ma Recods. Come se avesse avvertito la necessità di restringere il campo d’indagine all’essenziale, Le Noci si è concentrato sulla forma triadica, rinunciando non solo alla componente fiatistica ma anche ad un vero e proprio bassista, affidandosi in sua vece alla sapienza tecnica del tastierista, l’olandese Matthijs Geerts e al supporto ritmico di Egidio Gentile. Non sceglie certo una via facile, il giovane artista di Martina Franca, lavorando in sottrazione sulle ultime composizioni, sue e altrui, di questo nuovo album Electric Nuts. Infatti, applicandosi a un numero più ridotto di strumenti, si è obbligati a cercare vie sintetiche il più efficaci possibili ed occorre quindi che i musicisti si dimostrino costantemente ancor più all’altezza delle loro pianificazioni. Le Noci è disposto a correre il rischio e a evidenziare, chitarra alla mano, la sua completa capacità gestionale di questa nuova situazione. Come giustamente riportano le note stampa che accompagnano questo album, la scelta di una struttura portante come tastiera-batteria-chitarra non è certo cosa nuova nella storia del jazz. Ci aveva provato il chitarrista Grant Green, ad esempio in Blues for Lou inciso nel ’63 e pubblicato postumo parecchi anni dopo, con John Patton all’organo, oppure ancora in Talkin’ About del ’64 con Larry Young alla tastiera. Anche il grande organista Jimmy Smith ebbe Quentin Warren alla chitarra con un trio in Jimmy Smith Plays Fats Waller del ’62 e anche in Straight Life (1961), sempre associato a Warren. Proprio da queste combinazioni testate negli anni ’60 si svilupperà il termine groove a indicare il ripetersi di una serie ritmica di battute a carattere ciclico. Insomma un ritmo coinvolgente, trascinante e sempre più fisico. Citerei, comunque, tra le influenze di Le Noci, non solo il grande libro del Blues – cercate il suono della sua chitarra con il sassofonista Elias Lapia nel suo recente Though Future – ma anche la varietà di umori legati all’acid jazz e a qualche suggestione che viene sia da George Benson che anche da Pat Metheny, soprattutto nell’utilizzo equilibrato delle note più sostenute.
È uscito lo scorso 28 aprile il singolo Pensieri a Vapore degli Ave Quasàr per Ohimeme. AQ è il loro album di debutto pubblicato nel 2022. Abbiamo il piacere di ospitare in anteprima il video del brano del duo di Alessandria formato da Luca Grossi e Fausto Franchini, che fonde cantautorato ed elettronica. Per l’occasione Luca ha risposto a qualche domanda.
Credo il vostro nome rispecchi molto bene la musica che proponete, una forma di elettronica e cantato che evoca effettivamente una sorgente celeste, stellare. Pare che il vostro ascolto passi dalle orecchie ma arrivi dritto al cuore… Grazie, sono felice che si percepisca un legame tra il nome del nostro progetto e la nostra musica. È veramente un gran complimento. Abbiamo la propensione a connetterci con la musica per mezzo della parte più intima e introspettiva di noi stessi. È un modo di affrontare la scrittura che ci rende felici. C’è sempre qualcosa di salvifico nella realizzazione di una canzone.
È una notte non ancora buia ma decisamente tempestosa… e penso: “non saranno quattro(mila) gocce a fermarmi!” Ho un appuntamento al Caffè Teatro Comedy Club di Samarate (VA) per ascoltare il quintetto di due autentiche leggende del Jazz italiano. In realtà la loro fama varca i confini nazionali ed io li ho già ascoltati più volte, come pure altri due musicisti della formazione, ma mai insieme. Paolo Tomelleri, vicentino, classe 1938 e una vita dedicata alla musica in varie declinazioni, compreso oltre trent’anni a fianco di Enzo Jannacci, è sempre un pacato ma avvincente intrattenitore che arricchisce le esecuzioni al clarinetto con cenni storici e curiosità sui brani proposti. Emilio Soana, mantovano, classe 1943 e prima tromba dell’Orchestra Rai di Milano per molti anni, non è sicuramente da meno ed è attualmente attivissimo nell’organico di varie big band.
Andrea Poggio, insieme a Lucio Corsi, era il disco che più attendevo quest’anno. Intelligente e ricercata, la musica di Andrea Poggio, unita a una scrittura vivace ed evocativa, è uno dei migliori esempi di cantautorato italiano. Il futuro è il suo terzo disco, uscito a inizio maggio per La Tempesta. Iniziamo a spezzare lo stereotipo del cantautore con chitarra che canta di politica o di amore, come la grande tradizione italiana ci insegna. Andrea Poggio guarda a Paolo Conte e a Battiato, ma lo fa a modo suo, circodandosi, come sempre, dei migliori musicisti del momento: insieme ad alcuni membri degli Esecutori di Metallo su Carta (che lo avevano già accompagnato in tour), troviamo nel disco Adele Altro, Francesco Bianconi, Federico Altamura, Luca Galizia (Generic Animal) e Caterina Sforza, oltre alla partecipazione e produzione di Ali Chant, che tra gli altri ha collaborato con PJ Harvey, Perfume Genius e Yard Act (questi ultimi due, tra le migliori proposte contemporanee).
“Il Ciclo di Bethe, banda novecentesca di musica amabilmente rumorosa”. È così che si autodefinisce il neonato collettivo, in gran parte, romano nel presentarci il suo lavoro d’esordio: Novecento. Il nome del progetto artistico trae ispirazione dal fisico e astronomo tedesco Hans Albrecht Bethe e dalla sua teoria nota come Il Ciclo di Bethe (o ciclo del carbonio, azoto, ossigeno) che, come cita la Treccani, fa riferimento “all’origine dell’energia stellare basata su un ciclo di reazioni termonucleari che avvengono all’interno delle stelle.” Con questo nome i nostri “Cavalieri del cielo” ci svelano il loro grido, il loro lamento e le loro perplessità in Novecento. Novecento come il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, periodo colmo di svolte, innovazioni ma anche di distruzioni, perdite non solo materiali ma soprattutto interiori, a livello di consapevolezza del singolo e di coscienza collettiva. Uno sguardo al passato con il senno di oggi che non lascia spazio a sentimentalismi poetici, ma si propone di risvegliare negli animi dormienti lo spirito critico e costruttivo. Una rivoluzione creativa come quella che avviene in cielo con il ciclo carbonio, azoto, ossigeno. Dovremo pur imparare dagli errori del passato?
Mi piacerebbe poter convincere anche i più scettici che gli Ethnic Heritage Ensemble di Kahil El’Zabar sono qualcosa di più di un gruppo che sembra dilettarsi in una sorta di bricolage esoterico. L’idea di essere guaritori dell’anima, sia che provenga dalla permeabile città di Chicago – come in questo caso – che direttamente dall’Africa come accade per Nduduzo Makhathini – vedi recensioni quie qui – è un concetto affascinante di per sé, anche se mi rendo perfettamente conto che possa innescare inevitabili scetticismi. L’aspetto primitivo di questa musica, contenuta in Spirit Gatherer • Tribute to Don Cherry, la sua forma così insolita, piena di incavi misteriosi, profilata con elementi di tribalismo, alle volte sgraziata ed oscura, trova tuttavia la sua ragion d’essere nel radicarsi in profondità nell’humus del jazz. Naturalmente riconoscendo a questo termine la sua essenza primordiale nera, prima di diventare sinonimo più universalizzato di una certa parte della musica contemporanea. Non ci sono frivolezze tra queste note né tanto meno una ricerca estetica conformista. Con un potere di seduzione commerciale vicino allo zero, un minutaggio complessivo di poco sotto il limite delle possibilità contenitive di un Cd, quello che luccica nel cavernoso spleen di El’Zabar, è una potenza arcana, capace di minacciose esuberanze e di occulti sortilegi, affascinanti come la danza di una fiamma notturna. Il titolo dell’album fa riferimento ad una sorta di connessione tra spiriti ancestrali in grado di trasmettere influssi benefici ad altre entità, anch’esse spirituali, che siano in grado di raccoglierli. Le architravi ritmiche, lente ed ipnotiche, disvelano non solo l’originale vena compositiva dell’Autore ma anche la volontà di rivisitare i fiori selvatici di Don Cherry – a cui questo album è dedicato – di Ornette Coleman, di Thelonious Monk, di John Coltrane e Pharoah Sanders, non per caso degli autentici numi tutelari del jazz più autenticamente black.
Il chitarrista peruviano David Beltran Soto Chero, il giovane contrabbassista Alberto Zuanon e la cantante Laura Vigilante condividono la passione per la musica latino-americana partendo dalle tradizioni del passato fino al presente. Nasce così il trio Remedio: il fisarmonicista Sergio Marchesini, che per questa occasione era ospite speciale, si è appassionato al progetto, entrando poi stabilmente nel gruppo. Il disco, promosso da Caligola Records, è la registrazione di uno spettacolo live che il quartetto ha tenuto al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova il 22 gennaio 2022: un’attenta selezione di dodici brani che percorrono le vie della musica sudamericana fra tradizione e contemporaneità. Il gruppo padroneggia in maniera magistrale le variazioni di accenti restituendo pienamente il clima di allegra malinconia che solo la musica latino-americana riesce a mescolare. La voce di Laura Vigilante si destreggia con le sonorità proposte dal terzetto di musicisti in un mix veramente azzeccato, anche grazie all’ottima registrazione.
Il concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo, dovessi e sapessi raccontarlo in pochissime parole, lo racconterei con la strofa di Letter to you: «Le cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e i buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue. Ho scavato nel profondo della mia anima e ho firmato col mio nome vero e le ho inviate nella mia lettera a te».
Una sensazione, che accompagna da tempo le sue novità discografiche, è che sia il momento dei bilanci, dei rendiconti e, con calma e senza fretta, ma con la consapevolezza che siano inevitabili, degli arrivederci.
Non sarà un addio, perché, sempre citando un pezzo dal penultimo album, «Quando tutte le nostre estati saranno finite ti rivedrò nei miei sogni; ci incontreremo, vivremo e rideremo di nuovo», ma è innegabile che la Grande Storia Americana che Bruce più di ogni altro ha contribuito a cantare e raccontare stia arrivando alle pagine conclusive ed è giusto che nel farlo non si perda nemmeno una briciola di tutto il bello che c’è stato, nei precedenti capitoli.