Cari boomers e nostalgici, ecco il disco che fa per noi! Pur non essendo proprio una novità, è uscito infatti nel marzo 2022 per Hummus Records, mi è capitato sotto tiro solo qualche giorno fa, mentre cazzeggiavo su Instagram in una breve pausa dal lavoro: inutile dire che sono rimasta folgorata al primo ascolto. Copertina già di per sé magnetica, con quei due occhi di un celeste indecifrabile da cui non riesci a staccarti, il titolo dell’album poi è tutto un programma: DSM in medicina è il manuale dei disturbi mentali, quindi non potevo andare oltre senza approfondire…
Quello che ad una prima occhiata potrebbe sembrare un tranquillo nonnetto di provincia è in realtà uno dei maggiori rappresentanti del metal teutonico: all’anagrafe Udo da Wuppertal conta ben settanta candeline e non ha nessuna intenzione di appendere il microfono al chiodo; cofondatore nel 1968 del gruppo The Accept, anche dopo il primo scioglimento della band, si è sempre lanciato a capofitto nei progetti paralleli come gli U.D.O. e i Dirkschneider. Fulminato all’età di dodici anni da un album dei Beatles, abbandonati poi per i rivali Rolling Stones, più vicini per temperamento alle sue inclinazioni, da allora non ha mai lasciato il mondo della musica. Voce particolarissima la sua, come ce ne sono poche nel panorama heavy metal e hard rock (forse la più somigliante è quella di Brian Johnson), gracchiante, ma al tempo stesso potente, tanto da essere insignito da Metal Hammer Germania del prestigioso premio Maximum Metal nel 2016, per aver contribuito alla diffusione del genere musicale, niente male per uno come lui che, agli inizi di carriera veniva sbeffeggiato per una pronuncia non proprio impeccabile. Se il suo fisico ha subito i fisiologici cambiamenti legati al trascorrere del tempo, la voce è rimasta invece quella di sempre e l’ultima uscita discografica, My Way, per l’etichetta Atomic Fire (la stessa di Helloween, Opeth, Meshuggah, ecc…) ne è una prova lampante.
Noi italiani siamo un popolo che si divide su tutto e non è una novità, la storia ce lo insegna, quasi fosse insito nel nostro DNA sindacare e litigare: i social non hanno fatto altro che amplificare il fenomeno e portare al “tutti contro tutti”, dando voce a schiere di frustrati, invidiosi e odiatori seriali che, di volta in volta, spostano le loro attenzioni su questo o quell’altro. Una settimana si vomita sui poteri forti o su Big Pharma, la successiva tocca al personale sanitario o agli artisti di Sanremo. Quest’anno è stato il turno di Achille Lauro e, appunto, dei Måneskin: confesso che ho sorriso anch’io nel vedere il loro post su Instagram in cui dichiaravano di “andare a fare la storia”, ma dal sorridere al riempirli di insulti ce ne corre, apriti cielo quando poi hanno trionfato con Zitti e Buoni, gente che urlava addirittura allo scandalo, io stessa mi sono dovuta ricredere, tifavo per l’accoppiata Dimartino-Colapesce, per il fatto che il loro brano mi sembrava più in linea con la tradizione, ma quando l’indomani ho appreso della loro vittoria, mi sono detta che qualcosa di storico era successo per davvero, un brano rock al posto delle solite litanie neomelodiche. L’uscita di Teatro d’Ira – Vol.I il 19 marzo ha scatenato poi una mezza sommossa popolare: “che cazzo c’entrano con il rock?/sono delle fighette parioline/stanno al rock come la fica sta a Malgioglio”, questo il tono dei commenti letti su internet, anche da parte di addetti del settore che dovrebbero mantenere, a mio parere, un certo contegno, insomma, chiunque si è sentito in diritto di inveire contro questi ragazzi, assurgendo al ruolo di critico musicale o esperto di rock.
Le polemiche successive alla vittoria dei Måneskin a Sanremo 2021 mi hanno fatto capire che, in Italia, i consumatori di musica si dividono in tre fazioni: quelli che seguono le mode del momento, nello specifico la trap, per lo più ragazzi sotto i 25 anni, quelli nostalgici, che vivono nel ricordo dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath, snobbando qualsiasi tentativo di emulazione, come appunto i Måneskin o i Greta Van Fleet, e, infine, quelli che pur rimpiangendo i tempi che furono, apprezzano lo sforzo di alcuni nuovi gruppi di portare avanti un genere musicale, il rock, dato ormai per morto e sepolto, nel tentativo di arginare l’invasione di autotune e basi campionate. Io appartengo a quest’ultima schiera, consapevole che il meglio è già passato, ma nello stesso tempo fiduciosa nel futuro perché, classifiche a parte, l’underground, sia italiano che estero, qualche bella sorpresa ancora la riserva ogni tanto: è vero che bisogna fare un lavoro di ricerca certosino, non limitarsi ad ascoltare le playlist di Spotify e delle altre piattaforme di streaming, scorrere le mille proposte che il web ti propina ed ecco che, a volte, ti arriva l’onda giusta.
Qualche giorno fa mi sono imbattuta su Instagram nella pagina di un gruppo a me sconosciuto, The Moon City Masters, presentavano il loro ultimo singolo, Takin’ It Back, uscito lo scorso 15 gennaio: mi hanno colpito subito sia per i colori che per il groove del brano, un rock’n’roll allegro che strizza gli occhi alla musica anni ’70, così mi sono messa a cercare nel labirinto di internet…
Nell’ultimo mese i Greta Van Fleet sembrano essere diventati il pomo della discordia tra i puristi, che li accusano di essere troppo simili ai Led Zeppelin, e coloro che, invece, si sentono orfani del rock.
Confesso che la prima volta che li ho sentiti per caso alla radio sono quasi caduta dal divano, pensando ad una miracolosa reunion dei Led Zeppelin, e già pregustavo l’ennesimo tour d’addio, invece, dopo qualche minuto di disorientamento, ho scoperto che, non solo non erano Robert Plant e soci, ma addirittura un gruppo di sbarbatelli americani con alle spalle meno della metà degli anni dei nostri idoli: Jake Kiszka alla chitarra, Sam Kiszka, basso e tastiere, Josh Kiszka alla voce e Danny Wagner alla batteria.