R E C E N S I O N E


Articolo di Stefania D’Egidio

Le polemiche successive alla vittoria dei Måneskin a Sanremo 2021 mi hanno fatto capire che, in Italia, i consumatori di musica si dividono in tre fazioni: quelli che seguono le mode del momento, nello specifico la trap, per lo più ragazzi sotto i 25 anni, quelli nostalgici, che vivono nel ricordo dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath, snobbando qualsiasi tentativo di emulazione, come appunto i Måneskin o i Greta Van Fleet, e, infine, quelli che pur rimpiangendo i tempi che furono, apprezzano lo sforzo di alcuni nuovi gruppi di portare avanti un genere musicale, il rock, dato ormai per morto e sepolto, nel tentativo di arginare l’invasione di autotune e basi campionate. Io appartengo a quest’ultima schiera, consapevole che il meglio è già passato, ma nello stesso tempo fiduciosa nel futuro perché, classifiche a parte, l’underground, sia italiano che estero, qualche bella sorpresa ancora la riserva ogni tanto: è vero che bisogna fare un lavoro di ricerca certosino, non limitarsi ad ascoltare le playlist di Spotify e delle altre piattaforme di streaming, scorrere le mille proposte che il web ti propina ed ecco che, a volte, ti arriva l’onda giusta.

Colpevolmente avevo tralasciato di leggere un comunicato stampa di qualche mese fa, in cui si annunciava l’uscita, il 11 dicembre 2020, dell’album di esordio dei Re del Kent, band alternative rock milanese, nata nel 2019 dall’incontro di Dario (voce e chitarra) e Omar (basso) a cui si erano poi uniti Massimiliano (batteria) e Daniele (seconda chitarra); giusto il tempo di qualche singolo e di un live al Rock’n’Roll di Milano che scoppia la pandemia. Il loro stile rimanda alla musica italiana di fine millennio/anni duemila (Zen Circus, Teatro degli Orrori, Ministri, FASK, Verdena, Afterhours) anche se a me, già dal primo ascolto, hanno fatto venire in mente Piero e Ghigo, sarà perché ormai ho qualche primavera alle spalle, sarà per il sound o per i testi, che trattano, oltre a temi autobiografici, anche tematiche sociali. Non è un caso forse che per l’album di esordio abbiano scelto il titolo Sottocultura, forse proprio a voler porre una distanza con tutto ciò che al momento è mainstream, per non dire frivolo, superfluo.
Un lavoro neanche tanto lungo, otto tracce in totale, di cui un Intro di appena un minuto e un altro pezzo, Vivi, entrambi strumentali: ne rimangono quindi sei di pezzi, con dei testi affilati come lame di spada che ti entrano nella carne: basta ascoltare Campi di Odio, dove i campi “sono pieni di fiori spinati e non troveremo germogli, ma schiavi sottopagati” (alzi la mano chi non ha pensato ai tristi fatti di Rosarno). Un filo conduttore, quello delle ingiustizie e delle disuguaglianze, che torna anche in Bianco e Nero (“ma la vita cos’è? un senso ce l’ha? nasciamo già morti, vivendo per gli altri, c’avete donato una triste realtà, ma se non ci muoviamo che fine farà?”) e in Ribelle, la mia traccia preferita. Brano a tinte scure con un intro molto dark di basso, che tuttavia lascia spazio a un barlume di speranza (“siamo carne da macello, sotto un cielo così grigio, che ha nascosto anche le stelle, ho trovato la risposta, sono un’anima ribelle”).

Parole pesanti come macigni ci accompagnano fino alle fine, riflettendo tutta l’incertezza dei nostri tempi, tra mancanza di libertà e voglia di tornare a vivere, come in Cunicoli, la fine dei grandi ideali con il passar degli anni, in Avvocato del Diavolo, storia di chi si vende l’anima per il denaro, o la fine delle illusioni adolescenziali, che lasciano il campo alle paure, in Quindici Anni (“ma la vita è una puttana, vuole soldi e non fa sconti e corpi pieni di tagli e cicatrici“). Con Sottocultura i Re del Kent hanno superato alla grande lo scoglio dell’esordio: un lavoro convincente sotto tutti i punti di vista, fatto di un rock sporco e cattivo, ma autentico, con piacevoli incursioni nella new wave e nel dark, una sezione ritmica che lascia il segno e assoli di chitarra molto incisivi.
Che siano loro gli eredi naturali dei Litfiba? Probabilmente non raggiungeranno mai il successo dei Maneskine perché privi di quel trampolino di lancio che oggi è rappresentato dai talent show televisivi, ma sicuramente non faranno fatica a entrare nel cuore dei tanti appassionati che sanno andare oltre le copertine patinate.

Voto: 10/10

Tracklist:
01. Intro
02. Campi di Odio
03. Bianco e Nero
04. Ribelle
05. Vivi
06. Cunicoli
07. Avvocato del Diavolo
08. Quindici Anni