Il settimo lavoro su disco di Raffaele Casarano, ispirato musicista e compositore pugliese, si intitola Anì ed è uscito, per l’etichetta Tùk Music, nello scorso mese di dicembre. Ho conosciuto Casarano al magnifico concerto in solo che tenne, nell’ambito di NovaraJazz Festival 2018, nella Basilica di San Gaudenzio, sotto la maestosa Cupola di Alessandro Antonelli. In quel luogo mistico adattissimo alla musica, Casarano mi sembrò un asceta, anzi forse un peripatetico armato di sax che, anziché filosofare, spargeva suoni solenni, solitari, strabilianti nella navata della grande basilica. Ma se in quell’occasione, anche per la tipologia dell’esibizione in solo, Casarano ha sfoggiato una teoria di suoni “nordici” e solitari, in Anì la musica, ovviamente cambia, anche se, pur prendendo spunto dagli emozionali e caldi ritmi della sua terra natale e spaziando poi verso le coste settentrionali del Mediterraneo (sempre più musicisti fanno ormai riferimento a quell’area), riesce a mantenere vivi anche gli echi della musica nordica che lo ha sempre affascinato, in particolare quella norvegese.
Non si può resistere a certe emozioni. Hai voglia a far finta di niente, ma quando suona Dino Rubino è così. Un pianismo armonico che va giù liscio come l’olio, senza arrovelli. Se poi con Rubino ci sono Piero Delle Monache al sax, Marco Bardoscia al contrabbasso e l’evocativo bandoneon di Daniele di Bonaventura, allora il sortilegio si compie interamente. Rubino & C. conoscono la segreta attrazione che opera la musica, l’orfica fascinazione incantatoria di una bella melodia e prima che ci si renda conto ne veniamo catturati, imprigionati in una sentimentale rete di indecifrabili nostalgie. Il grande musicista russo Scriabin aveva paragonato il rapimento della musica con quello operato dai profumi e questo album Gesuè, dedicato al padre di Rubino, è un bouquet di fragranze primaverili uscito a metà marzo, quindi al momento opportuno. Abbiamo imparato a conoscere questo pianista poco più che quarantenne, originario della provincia di Catania, attraverso una precedente serie di sei dischi usciti sia a suo nome che in trio e in più una sequenza di fattive collaborazioni, ad esempio con Paolo Fresu e con Francesco Cafiso, Rino Cirinnà, Nello Toscano, Giuseppe Mirabella, Giovanni Mazzarino…ma quanti musicisti bravi e famosi produce mai la Sicilia?? Gesuè è un terreno minato da insidiose note che sanno di estati sbiadite nella memoria, omaggi latineggianti e desideri ancora ardenti sotto la cenere. Immergersi in una musica come questa è un po’come riscoprire un continente scomparso, un’Atlantide ricca di esperienze melodiche che credevamo dimenticate e che invece ritroviamo in trasparenza. Bastava solo guardarsi meglio dentro. Certo, questo jazz non ha posto per gli sperimentalismi. Ci si muove in un ambito tutto sommato prevedibile, rigorosamente tonale, dove valgono ancora pienamente le regole dell’Armonia e dove le dissonanze si riducono al minimo indispensabile. Qualcosa che potrebbe essere letto come un foglio staccatosi da un album, avulso da un contesto contemporaneo, che non tende quindi a concentrarsi sulle tensioni esistenziali, sulle rimuginazioni intellettuali, su quegli strappi creativi che forzano la mano, a volte, di molti compositori moderni. Siamo nell’interiora terrae, a tu per tu con la sorgente delle emozioni. Qui si ascoltano suoni pacificanti ed echi di frammenti musicali popolari, lontani nel tempo, che fanno però parte della nostra storia personale attraverso dieci brani originali di Rubino e la riproposizione di una vecchia, bellissima ed intramontabile canzone di Luigi Tenco.
È il silenzio la condizione necessaria, ma non sufficiente perché la musica prenda vita. Mi hanno sempre affascinato i musicisti che sanno “far suonare il silenzio”, ovvero le cui pause silenziose o cui intervalli temporali, riempiti di silenzio, sono parte integrante del brano, della sinfonia, della sonata. È un esercizio estremamente difficoltoso, i cui risultati sono percepiti solo dalle orecchie e dalle menti degli spettatori più attenti. Come è noto, anche John Cage teorizzò molto sul silenzio, tanto da considerarlo il brodo di coltura del suono liberato dalla sua storia, dallo stile, persino dal gusto. Insomma il silenzio è molto fecondo per la musica, direi che musica e silenzio sono lo Yin e lo Yang dell’universo della sensibilità sonora.
La rassegna JazzMi da anni regala agli appassionati di musica grandi emozioni e l’edizione 2021 non poteva essere da meno, con grandissimi interpreti sui palchi meneghini e domenica 24 il programma offriva, al conservatorio Verdi, il concerto di Paolo Fresu, con Around Tuk. Tuk Music è l’etichetta discografica, fondata dieci anni fa dal musicista sardo, con l’idea di produrre nuovi talenti del panorama jazz italiano e internazionale: cinque di questi talenti accompagnavano il trombettista nella serata milanese, Raffaele Casarano al sax, Sade Mangiaracina al piano elettrico, Dino Rubino al pianoforte, Marco Bardoscia al basso ed Enrico Morello alle percussioni.
Ci sono tromboni che sembrano essere in pace con il mondo: ne seguono il ritmo, ne assecondano la rotazione, senza omologarsi al suo ritmo. Quello di Gianluca Petrella è uno di questi. Se poi, a sottolineare e a ribadire ciò “che dice” il trombone, ci sono i tocchi di un vibrafono – quello di Pasquale Mirra – che sembra avere ciò che il fumettista americano Will Eisner chiamava “la forza della vita”, il gioco è fatto e non si smetterebbe mai di ascoltare questi due amici musicisti e musicisti amici; anzi due astro-musicisti che insieme fanno molto di più della somma di uno più uno. Bisogna ricordare che ascoltare questo magnifico lavoro che si intitola Correspondence edito dalla etichetta Tük Air ed uscito l’undici giugno scorso, è come ascoltare un’orchestra intera anche per un “quid” di altre sonorità strumentali non proprio trascurabili. In particolare Giulietta Passera alla voce e autrice del testo di Night Shift, Kalifa Kone al talking drums, n’goni e calabash, Blake Franchetto al basso elettrico, Danilo Mineo alle congas, bongos, krakabs ed effetti, Simone Padovani alle percussioni e Primo Zanasi al drum beat. Queste le informazioni, veniamo ora all’ascolto e ai sentimenti.
Mi trovo spesso, in questi ultimi anni, a considerare la presenza di giovani musicisti sempre più preparati e creativi, soprattutto di casa nostra. Molti di loro in prima linea sul fronte dell’avanguardia, altri più vicini ad una certa forma armonica più classica e tradizionale. Tra questi ultimi anche Sade Mangiaracina, pianista trentacinquenne originaria di Castelvetrano. Vantando una solida preparazione tecnica sia classica che jazzistica la pianista siciliana si presenta con il suo secondo disco per l’etichetta Tǔk Music, casa di produzione musicale creata dal trombettista Paolo Fresu e attiva ormai da una decina d’anni. Mangiaracina, vuoi per il suo curriculum ricco di numerosi concerti in giro per il mondo e vuoi per gli svariati intrecci collaborativi, si gioca la carta di una musica fluida nei suoi fraseggi e aperta a disparate influenze. Si notano, nel suo sviluppo sonoro, abbondanti reminiscenze classiche, soprattutto in certi passaggi pianistici di impronta quasi romantica, mescolati con influenze jazzistiche a testimoniarne l’eclettismo compositivo.
Sarà perché le creazioni eccentriche mi attirano sempre (il primo brano si intitola Coda), ma non vedevo l’ora di ascoltare con attenzione l’ultimo lavoro di Stefano Tamborrino. E infatti, il mio istinto non mi inganna mai, sono bastate poche intense battute (anzi colpi di “Coda”), per farmi innamorare di Seacup prodotto per l’etichetta Tūk Music di Paolo Fresu. Per questo esordio, il batterista toscano ha messo insieme una band originale per composizione strumentale e raffinatissima per la qualità dei musicisti: Ilaria Lanzoni al violino, Katia Moling alla viola, Dan Kinzelman al sassofono, Andrea Beninati al violoncello, Gabriele Evangelista al contrabbasso e, naturalmente, Stefano Tamborrino alla batteria. Atmosfere invernali, interiori, profonde come quelle di acque nordiche, già dal primo brano che si confermano tali con i successivi intensi e poetici brani come Escher e Purple Whales che rimanda, anche semanticamente, a grandi e profondi spazi fisici e mentali. Un’atmosfera molto “string” che sa di mitologie nordeuropee, ma anche di raffinate culture musicali che inglobano musica colta, litanie popolari, lirismi e saghe misteriose, dove anche voci mistiche sembrano evocare spiritualità e voglia di inabissarsi nell’Essere. Il pizzicato di Purple Whales sembra essere la rappresentazione sonora di questo desiderio di stimolare l’anima per non farla dormire, per muoverla verso la profondità dell’emozione.