R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

L’attenzione costante alla melodia e alla delicatezza dei suoni che riguarda Food, l’ultimo lavoro del trombettista Paolo Fresu realizzato in coppia con il pianista Omar Sosa, cancella ogni dubbio sulla bontà di questa registrazione. Perché il sospetto di un eventuale taglio documentaristico a carico di quest’opera, dato l’argomento trattato, avrebbe rischiato di distorcere il delizioso senso musicale che ruota intorno all’album in questione. Nessun atteggiamento didascalico, invece. Quando si parla di cibo inevitabilmente si allude al suo consumo, al piacere – o al dispiacere – ad esso legato e infine agli squilibri che ne riguardano l’approvvigionamento, da sempre condizionato dalla voracità accaparratrice delle politiche aggressive liberiste, condizionando la drammatica disparità tra chi consuma troppo e chi poco o niente. Un tema difficile, quindi, vissuto tra occidente e terzo mondo in modo differente, spesso condotto tra deliranti ipotesi nutrizioniste da un lato e appelli mediati da un mero bisogno di sopravvivenza dall’altro. Il motivo principe di questo album, comunque, non è evidentemente solo politico. Tra inserti sonori di posate, tintinnii di bicchieri e piatti che si avvertono qua e là, è sempre la musica il tramite fondamentale tra Food e l’ascoltatore. Con il desiderio, magari un po’ ingenuo ma onesto, che essa riesca ad unire le persone così come ci riesce la buona cucina. Al di là di questioni d’importanza vitale, tutte evidentemente legate a problemi di natura intrinsecamente politica e ambientale – mai così preponderanti come di questi tempi – questo album è comunque un solidale messaggio d’amore, di Alma e di Eros che mantiene quindi il senso della continuità, almeno intenzionale coi lavori precedenti realizzati da questa coppia di Autori. Il fattivo sodalizio tra Fresu e Sosa viaggia infatti con suoni di velluto, percussioni afro e medio-orientali, suggestioni simbiotiche e culturalmente universali.

Tra l’aria salsoiodica del mediterraneo, i climi aridi dell’Africa e dei deserti orientali, le cucine tradizionali e gli aromi speziati dell’America latina, i dodici brani dell’album procedono scivolando talora in progressive rarefazioni sonore, creando comunque ampi spazi quietamente implosivi dove Fresu e Sosa si sostengono a vicenda, integrando i loro suoni senza sopravanzarsi l’un l’altro. Insieme ai due già citati musicisti troviamo Cristiano De Andrè che ripropone un brano firmato dal padre, la cantante e percussionista sudafricana Indwe, il rapper statunitense Kokayi, il brasiliano Jaques Morelenbaum al violoncello e il percussionista newyorkese Andy Narell. Fresu è ovviamente alla tromba e al flicorno, strumenti spesso filtrati da effetti elettronici, mentre Sosa è al piano, al Rhodes e a tutte le tastiere possibili. Oltre ai contributi strettamente musicali si segnalano i già citati suoni e rumori di cucina, voci che declamano ricette, accenni di disquisizioni filosofiche sul vino tra le quinte e insomma un discreto campionario di suggestioni voluttuose inerenti al piacere del gusto. Proprio riguardo questo ultimo senso, quello più coinvolto nel rapportarsi al cibo, lo stesso Fresu, in un’intervista rilasciata a Gambero Rosso e pubblicata il due maggio di quest’anno, ha tracciato un efficace parallelo con la composizione e il consumo musicale. Così come i vari ingredienti vengono a combinarsi secondo una logica che riguarda la percezione gustativa del cibo adeguatamente preparato, attraverso l’equilibrio e la mescolanza dei suoi componenti, in modo analogo la musica nasce per combinazione di suoni, amalgama di armonie e strategiche dissonanze, gustate con altri sensi ma con lo scopo ultimo di non essere consumate in fretta, bensì assaporate e giudicate secondo i propri soggettivi criteri esperienziali.

Come un piatto ben cucinato, quindi. Si parte con Father Yambù, una preghiera di ringraziamento per il cibo disponibile, una voce che s’appoggia sulle note intense ed erratiche della tromba di Fresu e il canto presente in secondo piano di Indwe. Incomincia così un rapporto a due, che si prolungherà efficacemente tra strumento a fiato e il piano di Sosa – dal costante tocco leggero – entrambi impegnati ad organizzare uno sviluppo melodico dilatato, comprensivo di qualche controllata dissonanza. Il tutto si muove su una stratificazione percussiva lenta, ipnotica, che s’arresta a tre quarti dalla fine del brano per lasciare ampio e totale respiro ai due strumenti principali. Si colgono frammenti di discorsi indicativi come “…questo è un vino che va bevuto un po’ alla volta…” e come nel caso di tutti i vini di qualità non possiamo non essere d’accordo. Valeriana Wok credo possa alludere ad una padella – il wok, appunto – di uso comune in Cina per le cotture a vapore e le fritture. La tromba di Fresu parte in solitaria per venire letteralmente contornata dalle note di piano, talora aggiunte singole e altre volte a grappolo. Il suono complessivo è disadorno, essenziale, si estende attraverso una dinamica aperta e vagamente misteriosa, pervasa da un’imperscrutabile malinconia che pare perdersi in una serie di riverberi in dissolvenza. New Love in Love vede la presenza percussiva allo steel drum di Andy Narell a cui viene affidato un suggestivo assolo nella parte conclusiva del brano. La traccia sembra una lunga introduzione sulla falsariga dei Weather Report che crea una moderata sensazione di tensione, con il Rhodes di Sosa impegnato ad arricchire ancor più di colore un brano già abbondantemente speziato. Quasi a metà esatta del pezzo il nodo si scioglie risolvendosi in un’apertura che porta sempre dalle parti di Zawinul & C. In  Çimma, un brano originariamente firmato a tre da Fabrizio De Andrè, Ivano Fossati e Mauro Pagani, pubblicato nell’album Le Nuvole del 1990, tocca a Cristiano De Andrè reinterpretare il pezzo con il supporto di Morelenbaum al violoncello. La cima alla genovese per gli infelici che non la conoscono è un piatto della tradizione ligure a base di carne di vitello, ripiena di verdure e formaggio. Il cantato iniziale si sviluppa dolcemente tra gli accordi di pianoforte e lo struggente intervento di violoncello, con la tromba che gira intorno punteggiando di note calibrate il prosieguo della canzone.

Mesticanza, è un termine antico che indica la classica insalata mista di più verdure da consumare preferibilmente crude. Contrariamente a quello che il titolo del brano induce a pensare, qui gli strumenti in gioco sono rigorosamente due, piano e tromba, impegnati in un colloquio austero, d’una tenerezza crepuscolare, tutto giocato tra intervalli sulle escursioni timbriche di Fresu e l’accompagnamento disossato del pianoforte di Omar Sosa. Se vogliamo, si tratta di poco più di un bozzetto sonoro che però riesce a creare un incantesimo melusino, fatto di vapori impalpabili, una miniatura strumentale dal passo morbido, sufficiente a dimostrare l’affiatamento lirico di questi due musicisti. Il gorgoglio di un vino che si versa in un bicchiere prelude all’intervento vocale di Kokayi, a metà tra il canto e il commento rappato che caratterizza Green. Questo è un brano relativamente più brioso – ma senza esagerare – dal clima urbano e vagamente pop, molto melodico e nobilitato dal bel timbro vocale del cantante a cui viene lasciato il giusto spazio espressivo. Estancia è un termine di lingua spagnola che significa soggiorno, permanenza, vacanza. Il clima molto rilassato evoca un vagabondaggio tra percussioni screziate da rumori di fondo e da una voce che commenta, in sardo, la preparazione della zuppa berchiddese, che solo a sentirla raccontare invoglia il desiderio d’un assaggio. La musica si dondola su un intervallo di quinta discendente inizialmente suggerito dal pianoforte, una sorta di bossa-nova con il morbidissimo flicorno di Fresu che incrocia l’umbratile e struggente violoncello insieme ad un assolo di piano, breve ed espressivo, ad opera di Sosa. Si tratta quindi di una seduttiva mescolanza tra atmosfere latine, mediterranee, molto solari e… appetitose, data la sequenza d’ingredienti che sono riuscito a carpire dalle parole – polpo, vitello, pecorino e altro… Yuca Y Magnoca sono in realtà due sinonimi che indicano una radice sud-americana, molto utilizzata nella cucina di quelle latitudini, da cui si ricava la tapioca. Dal punto di vista strutturale, il brano è molto interessante e presenta degli aspetti tutto sommato meno melodici e sognanti, con la tromba di Fresu sovrapposta e sovra-incisa ed un’intromissione funkeggiante di percussioni elettroniche. Anche il piano saltella le sue note entrando ed uscendo da un tema semplice ed avvincente nella sua reiterazione. Yanela è un brano lento e consolatorio, cantato dalla voce seducente di Indwe, cullata dal violoncello e dalla coppia Fresu-Sosa in un motivo di formidabile memorabilità. Una pop-soul song colma di dolcezza, tra i brani migliori e di maggior presa emotiva sull’ascoltatore. Vol-au-vent gioca sul doppio significato della traduzione dal francese, letteralmente vola nel vento ma che rimanda a quei tipici dischetti sovrapposti di pasta sfoglia, ripieni verso l’alto e farcibili con ogni ben di Dio che la fantasia di un cuoco sappia immaginare. Ma qui, in questo contesto musicale, il flicorno di Fresu si libra letteralmente nell’aria, rendendo maggiormente giustizia al senso letterale del termine. Questi brevi appunti sonori gestiti a tu per tu con Sosa restano sempre di fattura eccellente e il ripieno, in questo caso, è realizzato con un atto di pura poesia. I giochi di parole si ripresentano nel brano seguente, Cha Cha Chai, proponendo sul noto ritmo cubano l’immagine del tè indiano aromatizzato. La traccia si svolge nel già collaudato schema dall’andamento moderato che ritroviamo lungo tutto il percorso dell’album. La cubanità di Sosa si risveglia verso il finale ma non spinge sull’acceleratore, limitandosi a rimodellare con solo qualche ritocco l’elegante framing fin qui condotto. Il brano sembra evocare una danza nella penombra di un pomeriggio assolato. Ancora Indwe partecipa col proprio canto al pezzo che conclude l’album, Didjo. Si chiude con la stessa, tranquilla serenità, in un mare di tastiere che partecipano probabilmente anche alla parte ritmica-percussiva e con un sincrono tra voce e tromba allungandosi in un percorso modale d’indubbio fascino.

Sono convinto che la citazione di Feuerbach “siamo ciò che mangiamo” sia un’affermazione infelice, a meno che il contesto dentro cui questo epigramma sia stato introdotto non alludesse ad altro, rispetto alle banali e stucchevoli interpretazioni che si ascoltano e si leggono da diverse parti. Non diventeremo aggressivi e violenti mangiando carni rosse – che stupidaggine – e nemmeno creature eteree nutrendoci di zuppe di miglio bollite in acqua santa. Dato comunque che ognuno è libero di scegliere ciò che vuole, da questo punto di vista invece l’excursus di Fresu & Sosa non rischia certo l’omologazione, superando i luoghi comuni e puntando alla ricerca dell’eterogeneità del cibo, della fantasia, dell’appetito di vita che esso stesso innesca nell’individuo. D’altra parte, la musica proposta in Food pretende dall’ascoltatore non tanto un’attenzione puntigliosa quanto piuttosto una contemplazione fluttuante, un lasciarsi condurre senza scosse attraverso i suoi ideogrammi sonori, i ritmi languidi e i conseguenti, necessari abbandoni emotivi. Arrendersi con criterio, insomma, sia alla musica che al cibo, traendo da entrambi una parte importante del piacere dell’esistenza.

Tracklist:
01. Father Yambu

02. Valeriana Wok
03. New Love in Love
04. Â Çimma
05. Mesticanza
06. Greens
07. Estancia
08. Yuca y Magnoca
09. Yanela
10. Vol.-au-vent
11. Cha Cha Chai
12. Didjo

Photo © Roberto Cifarelli
Cover © Diego Cusano