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di Nadia Merlo Fiorillo

Nel 1997 Francesco Di Bella era un folletto magrissimo, sempre infilato nei suoi pantaloni oversize e con in testa tanti dreadlocks raccolti da un elastico. Lo incontravi spesso per le strade del centro storico napoletano, mischiato alle centinaia di ragazzi che lo affollavano in quel periodo e ogni volta capitava di incrociarne lo sguardo sfuggente o il sorriso sornione che lo rendevano tanto affascinante, quanto sfrontato. Più lo guardavi, più ti accorgevi che lui in mezzo alla gente ci stava bene, eppure ne avvertivi subito l’irrequietezza da ogni gesto, quella stessa irrequietezza e quel labile senso di inadeguato stare al mondo che esprimeva nei suoi pezzi e sul palco.


In quel periodo Francesco Di Bella era il frontman dei 24 Grana, che insieme ai 99 Posse e agli Almamegretta si contendevano l’idolatria del pubblico “alternativo” partenopeo, una massa compatta di fan che si accalcavano ad ogni loro live e che conoscevano a memoria ogni singolo verso dei loro brani. Nel 1999 il botto, forse inaspettato, con Metaversus, secondo disco che ha consacrato i 24 Grana a livello nazionale come uno dei gruppi più originali e creativi della scena indipendente italiana.

“Buongiorno, e allora? Le uniche difficoltà ad entrare nel giovane nuovo mondo possono essere di carattere personale/ ingenuità, sensibilità, fantasia sono finalmente tollerate/ potenziamento del bagaglio emotivo, upgradazione della vostra libertà individuale, estensione delle facoltà sensitive / tutto può dipendere ora dalla vostra volontà”, questo è stato il proclama per un’intera generazione che vestiva sempre uguale e non aveva niente da dire su ciò che rappresentava. E Di Bella ne era megafono, come era eco della rabbia, delle rivendicazioni esistenzial-sociali di un movimento che a quel tempo affollava gli spazi occupati e proponeva nuove forme di partecipazione politica e di coscienza collettiva. Da allora in poi, 4 altri dischi di inediti, culminati con La stessa barca, pubblicato nel 2011 e registrato negli studi di Steve Albini a Chicago. Mesi fa l’ufficializzazione dello scioglimento della band e oggi Francesco di Bella pubblica il suo primo disco solista, Francesco Di Bella & Ballads Cafè, con un gruppo di amici e musicisti, alias appunto Ballads Cafè, con i quali negli anni ha dato vita a varie collaborazioni (su tutti Alfonso “Fofò” Bruno, con cui ha iniziato l’avventura di Ballads, e Daniele Sinigallia, già produttore di Ghostwriters [2008], quinto disco dei 24 Grana).

Le 10 tracce che, insieme all’inedito Napule se sceta, formano la tracklist di questo album non sono altro che una summa e una riproposizione di brani già pubblicati dai 24 Grana, ma scremati di ogni sonorità punk-rock, dub, elettronica e di quella smania interpretativa che sono stati fino ad oggi il loro abito, andando a ripescare, come lo stesso Di Bella tiene a precisare, il loro originario intimismo, quello per intenderci del primo momento compositivo, non ancora strutturato negli arrangiamenti degli altri tre componenti dei 24 Grana. L’atmosfera complessiva del disco, a metà strada tra ricercatezze unplugged e ritmiche per niente concitate, ma sciolte in scansioni sempre garbate, fa perno sul suo inconfondibile cantato, sebbene ormai depurato da ogni distorsione angosciosa e schizofrenica. Forse qualche episodio perde di intensità, come Carcere, sempre acidula ma molto meno cupa, sinistra ed espressiva della versione di Ghostwriters, o come Vesto sempre uguale, che abbandona la sua verve ansiogena a favore di un mood senza dubbio più riservato, ma forse proprio per questo troppo sobrio, andando a reprimere un testo particolarmente furioso e isterico. Altri brani, invece, si riappropriano del “maltolto” in precedenza: è il caso di Canto pe nun suffrì, che finalmente rinuncia al primo arrangiamento troppo estroverso, riconquistando quella dimensione morbidamente confidenziale ed empatica che ne fa uno degli episodi più riusciti di questo album, ma anche della già magnifica Resto acciso, rinata negli intarsi di chitarra che a tratti ricordano i migliori Cure acustici. Ma la punta di diamante dell’album è senz’altro l’inedito Napule se sceta, un esempio di canzone classica napoletana che nulla ha da invidiare a quelle della ottocentesca tradizione partenopea e nel quale Di Bella, abilissimo paroliere, riesce nel difficilissimo compito di fondere una sublime poesia dialettale con una melodia semplice ma dal fortissimo impatto emotivo.

Certo, come opera prima da solista questo disco rimane molto sui generis e lascia quanto meno perplessi, se ci si ferma alla sua natura ripropositiva di pezzi già noti. Personalmente mi sono chiesta se si tratta di una ripresa di sé attraverso una diversa riappropriazione di un repertorio musicale a cui si vuole dare vita nuova o se questo disco sia da leggere in termini di tributo e di commiato da una fase artistica ed esistenziale che ha dato molto ma che ha anche esaurito le sue possibilità. Però mi piace pensare che sia il coronamento di una maturità pronta ad esprimersi in dimensioni più personali ed autonome, una nuova via su cui, pur vestendo sempre uguale, lo scugnizzo-cardillo Di Bella riprenda il cammino per regalarci ancora tanto del suo estro, della sua abilità poetica e della sua vena artistica. Per il momento non possiamo che dargli il bentornato, in attesa di un disco di inediti che se si manterrà al livello di Napule se sceta sarà di certo straordinario e salutato con tutti gli onori del caso.

TRACKLIST
Vesto sempre uguale
L’alba
La costanza
Luntano
Kevlar
Accireme
Napule se sceta
Carcere
Canto pe nun suffrì
Introdub
Resto acciso

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