Articolo e illustrazione di Mauro Savino
Se si vuole parlare con una qualche serietà di mitologia moderna, occorre rendere brevemente ragione della sua incolmabile distanza da ciò che è mito nella cultura occidentale in epoca pre-filosofica.
L’epoca del mito, che ha preceduto quella del logos, ricacciava l’umanità in una sfera non attingibile, non visibile e che dunque poteva essere al massimo oggetto di pratiche teurgiche. Il mito fungeva così da collante per una comunità pre-politica che faceva discendere la propria identità dall’alterità come riferimento per percorsi non illuminati dalla ricerca della verità, ma guidati da visioni oltremondane.
Ora, la mitologia moderna e contemporanea, se si eccettuano certe facilonerie sintattiche e di costume, si regge su un presupposto paradossale. Il mito deve essere visibile, riconoscibile, addirittura umano. Se il valore di questa mitologia non è immediatamente ritenuto velleitario, siamo di fronte ad un fatto singolare.
Perché la visibilità?
La nostra epoca non è quella della tragedia attica, dunque non si va ‘a vivere’ a teatro, essendo la quotidianità puro strascico di una vita altrimenti autentica, ma si ‘a vedere’ qualcosa. Questo perché la comunicazione ha preso il posto della sospensione, che è il momento in cui si testimonia la propria esistenza in tutta la sua terribilità e in tutto il suo ambiguo e inestricabile darsi. Qui c’è posto per il mito, per Edipo, per l’Orfismo, per Eraclito, secondo alcune interpretazioni, e per restare all’Occidente. Dunque a teatro non si va ‘a vedere’ l’Edipo Re di Sofocle, ma a viverlo, cioè ad esserlo.
Niente di tutto questo ai nostri tempi. Abbiamo bisogno di attingere dall’immediato, di riconoscere qualcosa che ci appartiene, come visione del mondo, come storia o anche solo come esperienza collettiva. Dunque collochiamo il mito nell’umano. Ecco il paradosso. Ed eccone svelati, ovviamente, i limiti.
L’umano come mito è la superfetazione del divertissement.
Ma allora o non parliamo di mito o ne accettiamo una declinazione diversa. E l’unica diversità possibile e non cialtronesca qui sostenibile è quella che si situa ai margini del divertissement, come amplificazione e deliquio finale dello stesso.
Una com-presenza di storie, di memoria, di eccitazioni perdute che alimentano il serbatoio di ricordi che riscaldano pur senza poter bruciare, che restituiscono la vecchiezza a quella sua trama oscura che intravede la morte come prossima e la vita come drammatico esercizio di gioia residua, ebbene questo salva la mitologia odierna da uno statuto bagattellare.
L’umano slitta su se stesso e condensa il proprio essere e il proprio essere stato in una breve parentesi corale che ha però il fascino di acciuffare i margini della vita. E l’iconcina commerciale detta ‘mito’ non trova più posto, poiché, piaccia o meno, al suo posto subentra l’umanità. L’umano come mito cede il passo all’umanità come lampo mitico.
Questo è accaduto a Roma il 22 giugno 2014 al Circo Massimo.
Lasciamo perdere la folla, i numeri, i battimano, le urla e i fischi.
I Rolling Stones hanno radicalizzato un gesto. Hanno testimoniato in quella sera di essere riusciti a sopravvivere a se stessi. Drammaticamente vecchi, consumati, eppure sorridenti. A chi? Al pubblico? No. Sorridevano a se stessi. E facevano vedere al pubblico questo sorriso. Questi araldi della vita spregiudicata, questi miliardari divenuti fenomeni di costume con il rock ‘n roll, hanno fatto da coreuti rispetto al dramma che si andava inscenando davanti agli occhi degli spettatori. Questo dramma suonava: “Ci siamo stati. Ci siamo ancora”. E intanto la lunga sequela di immagini fotografiche cedeva il passo ad immagini radicate nella memoria di tutti e di ognuno. Testimoniando la propria esistenza questi signori hanno portato il pubblico a fare altrettanto.
Non si tratta della storia del rock, ma della storia di qualcosa di umano, troppo umano.
E il mito è apparso quando, per lunghi intervalli di tempo, gli spettatori sono rimasti immobili.
Nel mondo del mito visibile, dell’immagine, il fuoco semplice di un passato imponente e di ricordi di gioventù, si è compenetrato con una verità, che è comune:
“È difficile sopportare se stessi, ma sopravvivere a se stessi lo è molto di più”.
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