L I V E – R E P O R T


Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Stefania D’Egidio

Era passato un po’ in sordina Indigo, quarto disco dei Wild Nothing. Un po’ perché era uscito ad agosto, un po’ perché forse, almeno secondo la vulgata, a Nocturne, il capitolo della consacrazione, non era seguito qualcosa di altrettanto immediato e roboante. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che Life of Pause era di fatto anni luce avanti in quanto a varietà stilistica e perizia compositiva, mostrando Jack Tatum padroneggiare più che mai i mezzi della propria scrittura, oltre che rifiutarsi di ripetere fino all’eccesso la formula vincente del suo Jangle Pop velato di atmosfere Dream.

Il quarto capitolo della saga dell’artista di Blacksburg, Virginia, di fatto unico depositario dell’universo creativo Wild Nothing, è un ideale compendio di tutto quanto espresso in passato, più diretto di Life Of Pause ma allo stesso tempo sempre indulgente ad un certo gusto retromaniaco, tra Synth pomposi ed avvolgenti e atmosfere smaccatamente New Romantic. Un disco che forse non contiene hit sfolgoranti, capaci da sole di fare la differenza, ma che nel complesso raggiunge un livello medio più che discreto, testimonianza ideale di un gruppo che, non sarà più sulla bocca di tutti gli appassionati come 7-8 anni fa, ma è ancora più che mai degno di rimanere nel novero di quelli che contano.

Dall’Italia mancavano da diverso tempo e a Milano, forse, non ci avevano mai suonato. Il Santeria quando arrivo è ancora piuttosto vuoto ed è un peccato che il pubblico locale abbia sempre questa fastidiosa mania di non presentarsi mai da nessuna parte prima delle 22 perché il set di Old Fashioned Lover Boy avrebbe senza dubbio meritato un’affluenza maggiore. Alessandro Panzeri sta ormai per varcare il traguardo del terzo disco, che uscirà a breve per la giovane e attivissima etichetta romana A Modest Proposal. Negli anni la sua scrittura si è sempre più affinata e con i due nuovi singoli I Pray e Modern Life sembra aver conquistato la formula segreta per scrivere la perfetta canzone Neo Folk. Sarà per questo che all’estero sta piacendo così tanto e siamo certi che, se l’album in uscita rispecchierà il valore di questi primi brani, per lui il meglio dovrà ancora venire. Si presenta sul palco senza chitarra e con una inusuale camicia gialla, a dare un tocco di allegria aggiuntiva.

Old Fashioned Lover Boy
Vikowski

Lo accompagna l’amico Vincenzo Coppeta, in arte Vikowski, autore di un buon disco un paio di anni fa che speriamo abbia presto un seguito. Insieme eseguono proprio I Pray e Modern Life, al termine della quale Alessandro imbraccia la chitarra, che terrà da qui alla fine dell’esibizione. C’è spazio per un brano inedito, il cui titolo non viene annunciato, ma che nel suo minimalismo è davvero toccante e ben riuscita. Alessandro è vocalmente ispirato, usa una vasta gamma di tonalità, ha un’espressività che a tratti sconfina con il Soul e di fatto riesce a convincente tutti, a giudicare dal silenzio assoluto che si respira durante il set. C’è spazio anche per qualcosa di vecchio, con le ormai stra collaudate Oh My Love e Bowling Green e quella Burn Burn ormai diventata manifesto personale, eseguita in solitaria e sempre di grande effetto. Lo attendiamo in un concerto suo quando uscirà il disco ma per ora possiamo dire che è stato bellissimo ritrovarlo in piena forma.

Old Fahioned Lover Boy

Il cambio palco è rapido, con i Wild Nothing che, senza Tatum, salgono sul palco per il line check, tranquilli e beati come se fossero in sala prove. Il concerto inizia pochi minuti dopo e si apre con Nocturne, quasi a dichiarare che ok, va bene il presente, ma a volte il passato ha un peso che non si può ignorare. Nathan Goodman (chitarra), Jeff Haley (basso), Matt Kallman (tastiere) e Elroy Finn (batteria), sono vestiti come degli scappati di casa, look sciatto e anonimo, perfetto per una gita al Mall la domenica pomeriggio. Quando attaccano a suonare però, non ce n’è per nessuno. La loro carica melodica è irresistibile, l’impasto sonoro straordinariamente omogeneo, di una purezza cristallina, ma il tiro dato dalla batteria e la potenza di certe chitarre donano ai brani un tiro ed un impatto che mancavano nella versione in studio. Jack è poi totalmente a suo agio, perfette le sue pennate, suadente la voce, che regge bene, nonostante qualche piccolo cedimento nel finale.

La setlist è dal canto suo prevedibile ma anche abbastanza sorprendente. Prevedibile perché gran parte di essa è occupata dai brani di “Indigo”. I quali rendono bene, anzi benissimo, dal groove sensuale di Bend e Flawed in Translation, alle melodie trascinanti di Wheel of Misfortune, Shallow Water e Letting Go, fino alle calde suggestioni ottantiane di Canyon On Fire (col suo riff che richiama fortemente la Never Let Me Down Again dei Depeche Mode) e Partners in Motion. Insomma, dal vivo Indigo diventa ancora di più un grande disco, senza dubbio la prova più matura e consapevole di questa band.

La parte sorprendente è che Life of Pause viene totalmente ignorato, se si eccettua una meravigliosa Whenever I, con Jack alla tastiera e Matt al sassofono (strumento che comparirà altre 4-5 volte nel corso della serata, con esiti davvero suggestivi). Scelta strana, per un disco bellissimo, che si era comportato bene anche sui palcoscenici (vidi una data di quel tour, nel 2016 e fu ottimo) e di cui mi sarebbe senza dubbio piaciuto risentire qualcosa. Al suo posto si preferisce optare per il passato remoto, con episodi consolidati come Paradise, Summer Holiday e la conclusiva Shadow e inattesi ripescaggi come la meravigliosa e trascinante Golden Haze e le autentiche perle Live in Dreams e Chinatown, dal disco d’esordio Gemini, nonché A Dancing Shell, dall’ep Empty State. Sono gli episodi che il pubblico mostra di gradire di più, maledizione di ogni artista che susciti hype con i primi lavori. Eppure, non sembra che a Jack importi poi molto, dà in pasto questi pezzi ai presenti con grande naturalezza ed un pizzico di innegabile compiacimento.

Mentre stanno ancora sfumando le ultime note, i cinque si attardano sul palco a stringere mani alle prime file, a chiacchierare e ad autografare dischi. Non passeranno dal backstage: li ritroveremo nel locale a fare foto e ad interagire con chiunque, disponibili e alla mano più che mai. Grandi i Wild Nothing: una band che forse rischia di perdersi tra le troppe che ci sono in giro ma che possiede senza dubbio quel quid che altre non hanno. A giudicare da quanto era pieno il Santeria, credo che non passeranno anni prima di vederli ancora.