L E T T U R E

Articolo di Simone Santi

INTRODUZIONE

La lettura di una biografia dedicata a Egidio Romualdo Duni, compositore materano e francese di adozione vissuto nel Settecento, e la sua meditazione motivata dall’intenzione di farne una recensione, sono stati la scaturigine per alcune riflessioni sulla nostra attualità a partire dal concetto di Europa. Di Europa infatti spesso oggi parliamo e sentiamo parlare, ed evocarla generalmente muove reazioni e sentimenti discordi. Eppure (o forse proprio a causa di ciò), non è così pacifico intendersi su ciò che comunemente chiamiamo Europa, né su ciò che la definisce e comprende come realtà; e questo spiega le difficoltà nel ritrovare di già in noi stessi ragioni fondate e autentiche che ci consentano di sentire di farne parte.        

L’Europa fin dai tempi più antichi non è stata quasi mai riunita dalle armi e dalla politica, perché essa è un concetto sovraterritoriale, ovvero non pacificamente tracciabile secondo i contorni dei confini geografici. Il concetto di Europa è assai precoce, già i Greci lo avevano rappresentato attraverso il mito di Zeus che in forma di toro rapisce la figlia di Agenore; tuttavia, se riconosciamo dal racconto mitico quelli che erano i suoi limiti, la visione era quella di un’Europa pressoché mediterranei. A seconda di chi ha tracciato i confini del proprio concetto di Europa, tali confini geografici sono apparsi più o meno estendibili. Ancora oggi c’è chi ritiene che non sia concepibile l’Europa escludendo dal discorso alcuni Paesi dell’Africa Settentrionale.

L’Europa forse non è stata davvero unita neanche spiritualmente, con le sue sopravvivenze pagane sotto l’esteriorità ufficiale dell’adesione al Cristianesimo. E potremmo essere tutti d’accordo, a prescindere dalle convinzioni proprie di ciascuno, che ad unire davvero l’Europa non saranno nemmeno i parametri, la moneta e il mercato comune, che sembrano suscitare più diffidenza e difesa delle particolarità che non senso di appartenenza. E allora ci deve ben essere qualcosa d’altro, di qualitativamente diverso per natura e consistenza se, quando ne parliamo, ci riferiamo all’Europa come a un qualcosa che esiste.

Questo qualcosa, un familiare sentire fondato su un immaginario comune, è ciò che ho provato a rintracciare attraverso il filo di una narrazione, che in quanto tale sceglie e privilegia necessariamente alcuni soggetti e momenti nell’alveo degli inesauribili  percorsi possibili dentro la Storia: un racconto che, prendendo le mosse dall’occasionalità costituita dal materano Duni divenuto “monsieur Duny”, risale fino alle origini del melodramma in Italia e alla nascita del linguaggio e dell’estetica barocca, individuando in ciò uno dei momenti decisivi per l’affermazione di quella koinè artistica e intellettuale che rimarrà il fondamento inalienabile di ogni riflessione sull’identità e sulla natura di un concetto moderno di Europa.     

Questo mio racconto è diventato uno scritto che presento qui per la prima volta, in un articolo “a puntate” di cui questa è la prima, per i lettori di Off Topic – Voci fuori dal coro.

MONSIEUR DUNY E L’EUROPA DELLA CULTURA E DELLE ARTI

‹‹Il primo pensiero che appare, l’idea di cultura, di intelligenza e di opere magistrali, è per noi in una relazione molto antica, talmente antica che raramente torniamo a scoprire: è in relazione con l’idea di Europa. Le altre civiltà del mondo hanno avuto civiltà ammirevoli, poeti di prim’ordine, costruttori ma anche sapienti, ma nessuna parte del mondo ha posseduto questa singolare proprietà fisica che è l’avere contemporaneamente un intenso potere di emissione e un intensissimo potere di assorbimento. Dall’Europa è venuto tutto e tutto va verso l’Europa.[…] ma cosa diventerà questa Europa? La punta estrema occidentale del continente asiatico oppure resterà ciò che talvolta può apparire, cioè una parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un grande corpo?››

Valéry, CRISE DE L’ESPRIT

I

La storia (o sarebbe meglio dire le storie) dell’arte, soprattutto se ci concediamo di muoverci in libertà andando oltre la retorica classificazione tra generi e linguaggi, sa proporci percorsi suggestivi e talvolta inattesi. Dentro la trama di queste divagazioni, sollecitate talora più dall’esuberanza dei percorsi associativi che non dettate da linearità causali, può capitare che assuma valore nodale anche una figura cui la storia della musica all’interno del suo grande racconto ha concesso una posizione meno eminente. Nel caso ad esempio di questo nuovo articolo, ad offrirmi l’occasione e il pretesto per un’escursione tra i paesaggi italiani della musica e della poesia compresi tra la fine del Cinquecento fino ad arrivare alla prima metà del Settecento è un compositore materano, che ha avuto principalmente in Francia la miglior fama e le ragioni per cui oggi ancora è ricordato in quanto ispiratore della nascita dell’opéra-comique. Il suo nome è Egidio Romualdo Duni.

A riportarci la figura di Duni è una monografia agile e ben curata, realizzata da una conterranea del compositore, la materana Orsola Panarella, cantante lirica diplomata presso il Conservatorio “E. R. Duni” di Matera e laureata in “Scienze dello Spettacolo e Produzioni Multimediali” di Bari. Il libro è pubblicato nel 2017 dalla VIRGINIA EDIZIONI, casa editrice diretta dalla scrittrice Elena Marotta, e il suo titolo è TRA DUNI E DUNY: UNA STORIA DELL’OPERA COMIQUE.
Duni nasce nel 1708 e viene avviato fin da bambino allo studio della musica. Si forma nei conservatori di Napoli, considerata all’epoca la capitale della musica dell’Italia meridionale, dove incrocia alcuni compagni che diverranno celebri quali Sacchini, Traetta e Paisiello. Dopo aver viaggiato tra diverse città italiane (Roma, Milano, Firenze) e una breve parentesi londinese, si trasferisce a Bari dove assume l’incarico prestigioso di maestro di cappella della cattedrale di San Nicola. In questo periodo conosce il giovane Niccolò Piccinni, altro compositore che legherà i propri successi a Parigi, pur se in maniera meno esclusiva rispetto a Duni. Il momento di svolta si determina allorquando egli viene chiamato a Parma, per assumere l’incarico di maestro di cappella e di precettore della principessa Isabella, futura imperatrice d’Austria. E’ giusto qui, alla corte dei Borbone, che Duni inizia a farsi sedurre dagli echi e dai contatti con la cultura e con la lingua d’oltralpe. Così, dopo essersi recato a Parigi una prima volta nel 1757, vi si trasferisce definitivamente ottenendo la naturalizzazione francese e “francesizzando” il proprio nome in Duny. Durante la sua vita francese, che si concluderà solo con la morte, avvenuta nel 1775, e che lo vedrà anche ricoprire l’incarico di direttore della Comédie Italienne, egli si dedica alla composizione di comédie mêlée d’ariettes: denominazione con la quale già i critici contemporanei definivano questo nuovo genere che a partire dalla fine dell’Ancien règime avrebbe assunto il nome e i caratteri formali dell’opéra-comique, che resterà in voga nei teatri francesi fino ai primi decenni del Novecento. E proprio l’opéra-comique, nata dal genio di questo compositore materano che aveva saputo combinare efficacemente forme musicali francesi e italiane, con un effetto di ritorno farà valere le proprie ascendenze anche sul nuovo genere teatrale del Novecento italiano, quello dell’operetta.

A sollevare la figura di Duni e le circostanze particolari della sua vicenda personale e artistica dalla ristretta contingenza storica e geografica in cui è compreso, tanto da offrirci lo spunto per tentare oggi una libera riflessione sulla nostra contemporaneità di “europei”, è la possibilità di allargare progressivamente il nostro raggio di attenzione fino ad inquadrare e contestualizzare la storia ricostruita da Orsola Panarella nell’alveo del più ampio e generale periodo che ha visto l’Italia esercitare la propria influenza sull’Europa, a cavallo tra Cinquecento e Seicento e fino ad arrivare alla prima metà del Settecento. Un’Europa che forse mai prima d’allora era stata a tal punto divisa, attraversata da tensioni e conflitti sul piano politico e spirituale, economico e sociale. Lo scisma della Riforma protestante, prodotto da Lutero con le “tesi di Wittemberg” nel 1517, e l’Atto di supremazia col quale il re d’Inghilterra Enrico VIII nel 1534 sanciva la nascita della Chiesa Anglicana (di cui lo stesso re si proclamava capo) avevano di fatto smembrato l’unità dei cristiani e gettato un’ombra di profondo turbamento sui fedeli che venivano a perdere così le certezze escatologiche che erano state sino ad allora garantite dalla visione unitaria e indiscussa del mondo e del suo destino, sostenuta dalla vocazione universalistica sin dalle sue origini del Cristianesimo, il quale non ammetteva, se non come eretiche, le opzioni di “credo” alternativi. Sul piano politico, dopo l’ultimo tentativo di rifondazione imperiale tentata da Carlo V d’Asburgo nella prima metà del Cinquecento, i nascenti stati nazionali tentano ora di affermarsi sulla scena europea imponendo la propria supremazia, dando vita a decenni di guerre sanguinose in cui ragioni politiche ed egemoniche, intolleranza religiosa e ragioni di successione dinastica si sommano in modo inestricabile. Ai lunghi conflitti si sommano nel corso del Seicento carestie, pestilenze, tensioni per le tassazioni esasperate rese necessarie a mantenere tanto gli ingenti sforzi prodotti dalle incessanti campagne militari quanto i privilegi dell’aristocrazia, rinfocolando agitazioni tra gli strati più poveri della popolazione.
Tra le trame di un’Europa ancorché scissa nelle sue opposizioni, parallelamente si intensificano tuttavia fenomeni ed espressioni che testimoniano altresì il sentimento di appartenenza ad una comune sensibilità culturale. È infatti grazie a uomini d’arte e di pensiero, ai letterati e agli artisti che vediamo intrecciarsi scambi tra gli ambienti intellettuali, tali di produrre una contaminazione e una reciproca influenza fra le corti italiane e di Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda. Un esempio emblematico ne è stata la fortuna europea ottenuta nel Cinquecento dal fenomeno del petrarchismo, che ha visto la vasta diffusione, traduzione e imitazione del codice di Petrarca assurto a modello della poesia lirica, nel contesto più generale di un filone italianizzante che ovunque ha portato a far conoscere e ammirare il gusto raffinato e i pregevoli esiti della cultura rinascimentale. O si ricordi il successo inarrestabile delle opere di Torquato Tasso, soprattutto quelle in versi –  la Gerusalemme liberata, l’Aminta e le Rime –  ricopiate in un gran numero di manoscritti e stampate anche di contro la volontà dell’autore, riprodotte in migliaia di esemplari e tradotte in varie lingue, che andranno ad irrorare le radici delle fiorenti letterature secentesche francese, inglese e spagnola, oltre che influire in modo decisivo sul teatro e sulla musica.
Proprio il Tasso, autorevole interprete nella propria opera non già nella propria biografia della crisi del sistema politico e culturale italiano delle corti rinascimentali, nella seconda metà del Cinquecento apre la strada al rinnovamento dei generi e degli stili che si realizzerà nel corso delle aspre dispute sul principio di “autorità” e sui fini e sui caratteri della letteratura, e aprirà la strada alla sensibilità e al gusto barocco diversamente declinati nelle diverse esperienze letterarie del classicismo e del concettismo. E proprio lo spirito del Barocco italiano, capace di comprendere in sé tendenze artistiche diversificate, offrirà al Seicento una estetica e un immaginario comune, grazie agli artisti e ai letterati che si spostano e viaggiano tra le capitali europee della cultura, chiamati dalle corti e protetti dai mecenati, e muovendosi apprendono e diffondono un linguaggio nuovo e una nuova visione del mondo. Questa diffusione avviene più facilmente con le forme d’arte più facilmente trasportabili: la poesia e la musica. Già si è fatto cenno alla diffusione delle trascrizioni delle opere di Tasso; ma anche gli spartiti musicali, per lo più ancora copiati a mano, circolano e vengono conosciuti con facilità. Bach ad esempio, che nel corso della vita non si è mai allontanato dai suoi luoghi di origine nel nord della Germania, riceve da intermediari veneziani le musiche di Vivaldi, Albinoni e Corelli dalle quali impara, e infonde in alcune sonate, il gusto italiano per la melodia e una spontanea inclinazione al sentimento affatto sconosciuti, quando non addirittura vietati, dal severo rigore protestante.
Il successo dell’innovativa visione del mondo secondo la prospettiva molteplice del Barocco è sancito grazie ad uno dei suoi prodotti più eccellenti e caratteristici, tanto amato quanto discusso, il melodramma ( o dramma in musica, come viene di preferenza chiamato a partire dal Settecento) che, proponendosi come una sintesi ambiziosa di tutte le arti, ne riassume una vocazione di fondo: poesia, musica e canto, teatro, balletti e coreografie, la pittura dei trompe-l’oeuil e delle scenografie, le ingegnose macchine di scena.

È all’interno di una tale narrazione che figure come quella di Egidio Romualdo Duni perdono i tratti locali ed i limiti di un interesse puramente archivistico per meritarsi tutta la nostra attenzione: essi assumono il rilievo di rappresentanti di quella famiglia di artisti, letterati e intellettuali che viaggiando, per studiare e per lavorare, hanno contribuivano ad elaborare un linguaggio ed una visione comune del mondo, capace di unire di fatto i vari pezzi d’Europa nell’unica unione che potesse avere felicità di valore e di senso: l’Europa della cultura e delle arti. E il ruolo offerto dall’Italia, benché politicamente divisa e quasi interamente assoggettata al dominio straniero, ha contribuito come protagonista al forgiarsi dell’identità culturale ed estetica di ciò che ancora oggi chiamiamo Europa – e forse noi non sempre riconoscendo, come ammonisce Paul Valéry dall’epigrafe di questo articolo, cosa implichi e significhi usare tale espressione.

II

Un contributo essenziale alla diffusione del melodramma italiano in Francia, e un impulso decisivo all’affermarsi della magniloquenza barocca che trova espressione esemplare presso la corte di Luigi XIV, è stato un Italiano, il cardinale Giulio Mazzarino (1602-1661), primo ministro e consigliere del futuro Re Sole e, prima di lui, di sua madre, la reggente Anna d’Austria.
Mazzarino era nato a Pescina nel 1602; aveva studiato a Roma presso il collegio dei Gesuiti e successivamente in Spagna. Durante i negoziati della pace di Cherasco del 1631 con i quali si poneva fine alla seconda guerra del Monferrato, che aveva visto fronteggiarsi gli eserciti di Francia e Spagna a sostegno delle opposte fazioni in lotta per la successione al marchesato del Monferrato, Mazzarino conduce le trattative per conto dello stato della Chiesa. Le sue doti diplomatiche sono subito notate dal primo ministro francese, il cardinale Richelieu, con cui si era incontrato in questi frangenti, tanto che questi lo vuole come suo stretto collaboratore. Pur rimanendo ufficialmente al servizio papalino, Mazzarino prende gli ordini minori nel 1632 e si trasferisce in Francia con incarichi diplomatici. Presa nel 1639 la cittadinanza francese, due anni dopo diventa cardinale e viene indicato come proprio successore da Richelieu al re Luigi XIII. E’ lo stesso Mazzarino a fare da padrino al battesimo di Luigi XIV (1639-1715) e ad occuparsi dell’educazione del futuro re.
Oltre che abilissimo parlatore e diplomatico, il cardinale Mazzarino era stato in gioventù anche un eccellente ballerino e musicista a sua volta; appassionato dell’opera italiana, una volta al potere cerca di importarla anche in Francia. Già nel 1642 viene rappresentata in Francia la prima opera in musica, l’Orfeo di Luigi Rossi, che ottiene uno strepitoso successo. Nel 1645 a corte va in scena la Festa teatrale della finta pazza di Francesco Sacrati. L’evento decisivo è però quello cui si assiste a corte il 23 febbraio del 1653, il Ballet Royal du jour et de la nuit. Questo Ballet de cour, genere di spettacolo di corte appartenente già alla tradizione francese, viene organizzato da Mazzarino per festeggiare il rientro a Parigi e la ripresa del potere della famiglia reale, dopo gli anni tumultuosi della fronda che avevano reso necessario per un periodo l’allontanamento della corte a Saint-Germain-en-Laye. A questo balletto prende parte anche il giovane Luigi XIV, allora poco più che quattordicenne, che viene così presentato alla corte per la prima volta come il Re Sole.
Lo spettacolo è diviso in quattro parti, e presenta figure mitologiche appartenenti al mondo della notte. Luigi XIV vi interpreta diversi ruoli, tra cui il dio Apollo. Il re compare sulla scena all’improvviso, indossando un vestito d’oro e di piume, impersonando il sole che sorge dall’oscurità e illumina la terra; Insieme a lui danzano altri gentiluomini che rappresentano i Geni o le Virtù che accompagnano l’alba e rendono omaggio all’astro nascente. Oltre allo sfarzo dei costumi e alla grandiosità retorica dello spettacolo, le scenografie sono imponenti, realizzate grazie ai sapienti congegni mossi dalle macchine teatrali escogitate da un altro italiano, uno dei nomi in assoluto più importanti e geniali dello spettacolo barocco, Giacomo Torelli. E infatti, questa consacrazione scenica del potere assoluto del giovane re è uno spettacolo di gusto perfettamente barocco che, come sottolinea Philippe Daverio[1], suggestiona la corte e cambia l’immaginario della Francia mesta di Luigi XIII, inaugurando la pompa magna dell’assolutismo di Luigi XIV.

Mazzarino era stato al servizio del cardinale Antonio Barberini. E proprio i Barberini, durante il ventennio del papato di Urbano VIII (1623-1644) possono considerarsi i padri del Barocco. Già a partire dal papato di Sisto V (1585-1590), la Chiesa aveva compreso la necessità per la città e per il popolo dei fedeli, in risposta alle inquietudini di fine Cinquecento, della celebrazione estetica. Roma viene trasformata sul piano urbanistico ad maiorem Dei et Ecclesiae gloriam, per diventare agli occhi di chiunque il simbolo trionfante del cattolicesimo. Il mecenatismo dei pontefici successivi conferma l’immagine della città come centro della maggiore organizzazione culturale del mondo di allora. Tutto ciò si tradurrà grazie alla committenza ecclesiastica nell’ampliamento del Quirinale, nella grandiosa realizzazione della basilica di San Pietro e della sua piazza, nei lavori di riqualificazione urbanistica e nella costruzione di palazzi innovativi, nei restauri e nelle modifiche di chiese, cappelle e oratori che vengono arricchiti di nuove decorazioni e quadrerie, e con l’inaugurazione nel 1632 del Teatro del Palazzo Barberini alle Quattro Fontane.
Proprio attorno a questo teatro dalla capienza di tremila posti si inizia ad assumere artisti, pensatori, maestranze, provenienti dall’Europa intera. Qui nasce il concetto di corte Barocca. Con la generazione di artisti internazionali attivi a Roma nei primi decenni del Seicento prende forma il linguaggio che definirà tanto l’esteriorità trionfale del papato romano quanto l’assolutismo delle monarchie nazionali. E se Mazarino, che era vissuto nella Roma dei Barberini, aveva imparato che papa omnia potest, ora egli aveva forgiato un sovrano che su quello stesso modello italiano un giorno affermerà: ‹‹L’Etat c’est moi››[2].

Questo è il passaggio decisivo che trasforma l’Europa del Seicento: la comunicazione dei valori e delle ideologie, sia istituzionali che religiose, viene affidata al potere di comunicazione e di persuasione dell’immagine. Da questo momento ciascuna corte si definirà come corte barocca, prodotto del Barocco trasversale italiano.

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[1] P. Daverio, L’EUROPA DELLA MUSICA E DELLE ARTI – conferenza. Teatro Carcano (Milano), 27 novembre 2017

[2] P. Daverio, ibidem