R E C E N S I O N E
Recensione di Giovanni Tamburino
Sono passati già quattro anni da quando Dominic Harrison ha lanciato la nuova grande epoca del rock per la Gen Z. Dall’esplosione di quel 21st Century Liability nel 2018, l’inarrestabile avanzata dell’eclettico talento britannico ha fatto diventare YUNGBLUD l’ariete con cui, ancora una volta – nel più puro spirito del sacro rock’n’roll – gli ultimi, gli strambi, i freaks, hanno fatto irruzione e reclamato ad altissima voce il loro diritto ad esistere, non perde slancio. Un’evidenza che ha ricevuto l’approvazione delle bestie sacre della chitarra distorta, da Ozzy Osbourne a Dave Grohl, passando per Mick Jagger e Steve Jones.
Piuttosto muta, si trasforma, evolve, raccoglie e rielabora, per poi lanciare lo stendardo ancora più avanti, non fuggendo, ma riplasmando il concetto di identità. Fluidità è un concetto che non rimane ancorato alle questioni di genere, ma diventa un fatto culturale, che permea la nuova generazione che si sta facendo avanti nel mercato musicale e non solo.

YUNGBLUD, terzo e omonimo disco dell’artista, uscito a settembre per Virgin Records e Universal Music Group, nasce sempre da questo spirito. Il gioco e i temi più personali della sua “underrated youth” si mescolano e si separano, cercando sempre un equilibrio che valorizzi ogni sfaccettatura dell’ampio spettro delle emozioni raccontate, senza scadere nel patetismo o nel grottesco.
Che si parli dell’artista o del disco, YUNGBLUD è un catalizzatore di esperienze, pensieri, stili e generi, come nel sample di “Close To Me” dei The Cure in Tissue – pubblicato con la benedizione del frontman della band, Robert Smith –, in grado di esprimersi sempre con la trasparenza, l’onestà e l’energia per rendere ogni singolo brano un inno personale. Dalle dissacranti esequie di The Funeral, fino alla malinconia lo-fi di Sweet Heroine, non c’è nulla di nascosto, nulla di edulcorato.
Nell’irriverenza di YUNGBLUD, come nella drammatica denuncia degli ultimi di cui fa parte, una spietata crudezza resta la costante. Tra abusi di droghe e tastiere, sintetizzatori e tentati suicidi, tra la solitudine e una chitarra punk, una ferita aperta da cui la verità esce sanguigna e ancora viva, un cratere da cui esce magma incandescente per assumere forme che ancora non sono state registrate.
Insieme a questo ampio repertorio emotivo, anche un accenno di maturità. Senza rinunciare alla sua spesso euforica immediatezza, suo marchio di purezza, Dominic ha imparato ad essere consapevole di sé e del proprio mezzo. Un disco da “veterano”, con brani che non si prestano a invecchiare in fretta e una cifra di fondo che amalgama e dà coerenza tra i numerosi cambi di rotta (e umore) tra un brano e l’altro, sia nel sound che nella capacità di imprimere la sua gigantesca personalità, tra acustiche distorte ed elettriche pulite, urla e sussurro. Le ritmiche sincopate di Memories, con un’energica WILLOW – altra rookie a salire alla ribalta –, subito seguite dall’arpeggio campionato in Cruel Kids.
Si è già parlato di fluidità come elemento culturale. Diventa palese anche in questo stile in continuo mutamento. Un mare in burrasca di suoni, concetti, storie, pezzi di vita. Eppure, non si perde nulla.
Senza una prigione di forma, ogni elemento raggiunge con naturalezza il suo posto, il suo contenitore più adatto. A costo di perdere la scommessa, il suo destino.
Tracklist:
01. The Funeral
02. Tissues
03. Memories
04. Cruel Kids
05. Mad
06. I Cry 2
07. Sweet Heroine
08. Sex Not Violence
09. Don’t Go
10. Don’t Feel Like Feeling Sad Today
11. Die For A Night
12. The Boy In The Black Dress
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