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A.MA Records

Enrico Le Noci – Electric Nuts (A.Ma Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Compiendo un percorso di progressivo alleggerimento, il ventisettenne chitarrista pugliese Enrico Le Noci s’allontana dalla dimensione corposa del quintetto che l’aveva visto esordiente nel 2019 con Social Music, il riuscitissimo album d’esordio per A.Ma Recods. Come se avesse avvertito la necessità di restringere il campo d’indagine all’essenziale, Le Noci si è concentrato sulla forma triadica, rinunciando non solo alla componente fiatistica ma anche ad un vero e proprio bassista, affidandosi in sua vece alla sapienza tecnica del tastierista, l’olandese Matthijs Geerts e al supporto ritmico di Egidio Gentile. Non sceglie certo una via facile, il giovane artista di Martina Franca, lavorando in sottrazione sulle ultime composizioni, sue e altrui, di questo nuovo album Electric Nuts. Infatti, applicandosi a un numero più ridotto di strumenti, si è obbligati a cercare vie sintetiche il più efficaci possibili ed occorre quindi che i musicisti si dimostrino costantemente ancor più all’altezza delle loro pianificazioni. Le Noci è disposto a correre il rischio e a evidenziare, chitarra alla mano, la sua completa capacità gestionale di questa nuova situazione. Come giustamente riportano le note stampa che accompagnano questo album, la scelta di una struttura portante come tastiera-batteria-chitarra non è certo cosa nuova nella storia del jazz. Ci aveva provato il chitarrista Grant Green, ad esempio in Blues for Lou inciso nel ’63 e pubblicato postumo parecchi anni dopo, con John Patton all’organo, oppure ancora in Talkin’ About del ’64 con Larry Young alla tastiera. Anche il grande organista Jimmy Smith ebbe Quentin Warren alla chitarra con un trio in Jimmy Smith Plays Fats Waller del ’62 e anche in Straight Life (1961), sempre associato a Warren. Proprio da queste combinazioni testate negli anni ’60 si svilupperà il termine groove a indicare il ripetersi di una serie ritmica di battute a carattere ciclico. Insomma un ritmo coinvolgente, trascinante e sempre più fisico. Citerei, comunque, tra le influenze di Le Noci, non solo il grande libro del Blues – cercate il suono della sua chitarra con il sassofonista Elias Lapia nel suo recente Though Future ma anche la varietà di umori legati all’acid jazz e a qualche suggestione che viene sia da George Benson che anche da Pat Metheny, soprattutto nell’utilizzo equilibrato delle note più sostenute.

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Pippo D’Ambrosio – Beyond The Sky (A.MA Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Lucio Vecchio

A tre anni dal suo quarto disco, A Peaceful Place, il percussionista barese Pippo D’Ambrosio si ripresenta al pubblico con il concept album Beyond The Sky, edito dalla A.MA. Records di Antonio Martino.
Beyond The Sky è un album tematico che esplora l’ordine imposto dall’universo accostandolo al caos provocato dagli umani sulla terra. Pippo D’Ambrosio ha creato un lavoro che fonde la sua batteria, le tastiere di Eugenio Macchia, il contrabbasso di Giorgio Vendola e il sassofono contralto di Gaetano Partipilo in un viaggio cosmologico in cui il jazz è alla base dei groove in tutte le sue dieci tracce.

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Enrico Bracco – Flying in a Box (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono trascorsi vent’anni dall’esordio discografico del chitarrista Enrico Bracco. Su quella iniziale esperienza in quartetto – Going Wes (2002) – molto legata agli insegnamenti dei maestri come appunto Wes Montgomery, sembra essersi depositato un velo di polvere talmente è stato evidente il cambiamento nella musica del quarantanovenne chitarrista romano. Un’evoluzione certo non radicale, a voler ben vedere, ma che ha condotto l’opera di Bracco all’interno di uno spazio contemporaneo assolutamente personale, grazie anche all’aiuto di alcuni suoi compagni di viaggio come Daniele Tittarelli al sax e Pietro Lussu al piano, suoi collaboratori fin dal 2006. Molto diverso nelle sonorità e nella modalità espressiva dal compagno di scuderia in A.MA records, l’ottimo chitarrista Antonio Trinchera, maggiormente legato ad atmosfere nu-jazz – potete trovare la sua recensione quiBracco, in questo nuovo Flying in a Box, suo quinto disco da titolare, sembra inseguire soluzioni armoniche più ardite pur non recidendo il cordone ombelicale che lo lega alle radici, quell’hard-bebop che spesso riaffiora come un continente sommerso. Sono molte, infatti, quelle parti scritte percorse all’unisono con Tittarelli, angolando le frasi sonore e ubriacandole di continui saliscendi melodici, proprio com’era di moda negli anni ’50 e ’60. Ma Bracco & C. non si fermano a questi storici e collaudati estratti di grande perizia esecutiva. Spesso, come rileveremo tra poco, i musicisti di questo ensemble amano ormeggiarsi in rade isolate, affidandosi ad estemporanei giochi di montaggio equamente distribuiti tra scrittura ed improvvisazione, alla ricerca probabilmente di perimetri nuovi entro cui muoversi. Rispetto ai due dischi precedenti – Unresolved (2011) e Quiet Man (2015) la chitarra di Bracco sembra ritagliarsi qualche spazio in più d’autonomia, dove il suo jazz pare essere sempre un po’ in tensione verso territori poco esplorati, col desiderio di allontanarsi per poi riavvicinarsi alternativamente alla strada pavimentata del mainstream. In questa operazione è presente soprattutto il marcato sostegno del sax contralto di Tittarelli che spesso pare confidenzialmente sfidare la chitarra disegnando con questa nuove cartografie, con cui, in un secondo tempo, porsi alla ricerca di inedite rotte creative. Lo stile chitarristico dell’Autore è fluido, reso scorrevole da una chitarra senza artifici elettronici né distorsioni e si basa su una pulizia sonora frutto evidentemente di una ricerca sullo strumento che prevede molta attenzione alla parte melodico-armonica, sfruttando una timbrica nitida e ben leggibile all’ascolto. Oltre ai musicisti sopra citati, in questo album suonano Enrico Morello alla batteria – già con Bracco nel precedente Quiet man – e Giuseppe Romagnoli al contrabbasso.

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Antonio Trinchera – Fauves (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il percorso musicale del chitarrista Antonio Trinchera dal 2016 a questa parte – anno della pubblicazione di Next Move con A.MA Records, il suo vero primo lavoro di lungo respiro – non ha subito, nel tempo, nessuna scossa particolarmente rivoluzionaria. Piuttosto ci sono stati degli aggiustamenti, dei rimaneggiamenti, una correzione di qualche grado sulla rotta di navigazione che da sempre procede in un ambivalente territorio di confine tra l’elettronica, l’ambient, il nu-jazz ed il jazz “propriamente detto”, anche se quest’ultima definizione sarebbe, ovviamente, tutta da discutere. Nel 2021 Trinchera, insieme al polistrumentista Dario Antonelli, pubblica sotto il nome di BitMapCrew l’EP Bits of Impressions, orientando i suoi parametri espressivi verso un piglio più ritmico ed elettronico, rispetto agli inizi. Tuttavia, anche in questo ultimo album Fauves, al di là del titolo ferino, il senso della musica resta sempre incentrato attorno alla mescolanza tra generi diversi, una strada percorsa in origine da Nicola Conte, che considero ancora e sempre uno dei numi tutelari di questo tipo di ibridazione sonora, almeno per quel che riguarda il territorio nazionale. Le note autobiografiche di Trinchera accennano ad una provenienza da studi classici per ciò che riguarda il suo strumento ma l’impronta attuale è decisamente contemporanea e non si legge nel suo stile qualcosa che rimandi alla tradizione be-bop. Piuttosto sembra che siano preferiti suoni prolungati, mescolati a fraseggi più classici, d’impostazione jazz-rock, comunque molto espressivi e contenuti, senza togliere spazio agli altri strumentisti. La sua chitarra potrebbe stare vicino al modello Pat Metheny ma certe sonorità più spaziate mi hanno ricordato le dilatazioni sonore di Terje Rypdal. La musica che ne viene è una sorta di funk in guanto di velluto, molto piacevole all’ascolto, un diorama che dimostra suggestioni luminose ed ombre inaspettate, offrendo alla vista una panoramica di particolari di cui ci si accorge solo riascoltando più volte l’intero album. Trinchera suona accompagnato da Dony Valentino alle tastiere ed al violino elettrico con Camillo Pace al basso elettrico e al contrabbasso – questi ultimi collaboratori entrambi già presenti nel precedente Next Move – mentre Alessio Santoro e Leo Consoli si alternano alla batteria.

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Giovanni Angelini – Freedom Rhythm (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ero rimasto decisamente impressionato dal primo lavoro di Giovanni Angelini A Tratti uscito in quartetto ormai sette anni fa. Quell’album dimostrava una maturità compiuta, proponendo un jazz in parte “quasi” tradizionale, manifestando però tensioni e dinamiche più contemporanee, a dimostrazione che il carattere smanioso del giovane batterista, allora trentenne, sembrava mal digerire le atmosfere rassicuranti di un limitante e abituale conformismo musicale. Così, con una formazione senza contrabbasso, venivano affrontati temi piuttosto lineari alternati ad altri tutt’altro che accondiscendenti, ad esempio in Scatole Blu o com’è successo con l’atmosfera chicagoiana di People in Yellow, fino ad arrivare a lambire lo spirito della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. Sembrava che Angelini avesse voluto ripercorrere alla sua maniera una gran parte della storia del jazz, soprattutto quella sviluppatasi dagli anni’70 in poi. Da quella prima esperienza a Freedom Rhythm sono cambiate un po’ di cose anche se non in maniera così radicale. Innanzitutto sono aumentati i collaboratori. Ci sono infatti otto musicisti che lo affiancano e della primaria formazione a quartetto è rimasto solo Vince Abbracciante, qui al piano elettrico. Stavolta il basso c’è, e si sente, ed è quello elettrico di Dario Giacovelli. C’è inoltre una chitarra suonata da Alberto Parmegiani e soprattutto compare una sezione di fiati con Gaetano Partipilo al sax contralto – considero un suo vecchio lavoro del 2013, Besides, un piccolo gioiello che spesso mi piace riascoltare – Giuseppe Todisco alla tromba e Antonio Fallacara al trombone. Chiudono la formazione il violoncello di Giovanni Astorino e l’intervento vocale di Simona Severini. Dato che Angelini è un musicista molto eclettico, nei suoi dischi si possono avvertire disparate influenze che ne attraversano la musica, senza che per questo l’Autore debba deviare verso eccessi didascalici o peggio ancora trasformarsi in un musicista che suoni “alla maniera di…” È per esempio fuor di dubbio, come del resto ammesso dallo stesso Autore, che una certa componente rock abbia animato – ed anima tuttora, più in questo disco che nel precedente – le sue bacchette quando cercano ritmiche apparentemente più aggressive. Anzi, a voler essere più specifici si avverte molto dell’epoca progressive, periodo che tra l’altro continua storicamente tuttora, facendo affidamento al grande numero di appassionati in circolazione che ancora seguono questo genere. Ma sarebbe troppo semplicistico parlare di un ibrido jazz-rock perché questa musica non lo è, o almeno, non dimostra di essere soltanto questo. Il jazz di Angelini è un prodotto composito, brillantemente policromo.

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Ivan Radivojevic – In Plain View (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

L’autoconsapevolezza, ovvero la coscienza di sé, è qualcosa che si crea giorno dopo giorno. Un’ontogenesi faticosa, fatta di stimoli, tentativi, ricusazioni e riproposizioni, fino a quando si sviluppa la certezza di esserci, di saper fare, di poter incidere nel mondo con i propri mezzi. Prendiamo ad esempio uno splendido trombettista come Ivan Radivojevic, di Belgrado. Nel suo curriculum, prima di aver partecipato alle importanti incisioni discografiche di Sanja Markovic – Ascension (2020 – recensione qui) – e di Max Kochetov – Altered Feelings (2022 – recensione qui), compaiono varie partecipazioni, ad esempio col rapper serbo Marcelo o con il pop-rocker Marco Mandic. Evidentemente, vuoi per motivi e interessi diversi ma anche di crescita musicale, Radivojevic ha provveduto a crearsi un substrato di esperienze differenti e di contatti culturali con tutto ciò che appartiene al Mondo attuale ad alla sua e(de)-voluzione. Ma non posso credere che questo trombettista non sia jazzista dentro, perché il modo in cui si esprime attraverso il suo strumento, gli atteggiamenti personali che non seguono formule, anche e persino qualche apparente indecisione nel suo soffiare sono quelle qualità che contribuiscono a fare di lui un uomo, se non consacrato, almeno devoto alla musica improvvisata che costituisce l’anima del jazz. La tromba di Radivojevic ha una qualità che spicca sopra le altre, possiede infatti quel timbro morbido che in questo suo esordio da titolare per A.MA records, In Plain View,ricorda da vicino Chet Baker o anche Paolo Fresu con opportune eccezioni che rimarcheremo progredendo nell’ascolto. È questione di qualità sonora, più che del tipo di fraseggio. Non parliamo di un suono magro o asciutto, alludiamo invece ad una rotondità plastica, con solo sporadici spigoli qualora si rendano necessari. Una tromba già maturata, al di là dei trent’anni o poco più del giovane musicista. Il tono complessivo dell’album è tranquillo, meditativo ma non sognante. La musica che ascoltiamo è riflessiva, non ci porta verso altri mondi ma aiuta ad un approccio più speculare con la realtà che viviamo e questo lo si deve non solo all’indubbia bravura del trombettista ma anche alla compartecipazione essenziale del gruppo che lo accompagna, cioè di Andreja Hristić al piano, Boris Sainović al contrabbasso, Bogdan Durđević alla batteria con le ospitate di Luka Ignjatović al sassofono contralto in Loving You In Reverse e di Andreja Stanković – guitar in Slipping Into The Night.

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Ipocontrio feat. Seamus Blake – Children’s Soul (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Una filigrana molto trasparente separa i salernitani Ipocontrio dal desiderio di sperimentare da un lato e di restare adesi alla tradizione dall’altro. Bruno Salicone al piano, Francesco Galatro al contrabbasso e Armando Luongo alla batteria non si discostano poi molto dal moderno concetto del classico trio jazz. Le sonorità moderate del piano fanno si che Salicone rimanga il perno principale della musica ma senza un eccessivo protagonismo, rimanendo in un rapporto paritario o quasi con gli altri due strumentisti. C’è qualcosa che però subito si nota nell’equilibrio di questo trio. Mentre il pianismo di Salicone è piuttosto melodico, rifuggente da facili estremismi solistici e tendente ad un linguaggio espressivo venato da atteggiamenti introversi, la ritmica si fa ben avvertire, spesso con tempi sostenuti senza essere rumorosa ma innestando tra le linee melodiche pianistiche un supporto vitalistico che mi ha ricordato, almeno per intenzione ed efficacia, la coppia DeJohnette-Peacock di jarrettiana memoria. In questo loro ultimo album intitolato Children’s soul – la terza uscita nella storia di Ipocontrio ma la seconda per l’intraprendente A.MA Records – il trio si avvale del numinoso apporto del grande tenorsaxofonista Seamus Blake, nato a Londra ma cresciuto in Canada e poi sistematosi negli Stati Uniti. Si tratta di un musicista che tra dischi firmati come titolare e altre numerose collaborazioni ha lasciato sul campo oltre una novantina di incisioni. Il suo apporto, su quattro delle otto tracce complessive dell’album, se da una parte immette una componente sonora brillante, briosa e non accademica, dall’altra evidenzia come anche in sua assenza il trio mantenga una propria, originale personalità. Questo Ipocontrio è infatti un gruppo ben rodato, che ha maturato una certa autostima e che sa rendersi perfettamente autonomo attraverso la proposta di una musica scorrevole che non presenti smagliature né discontinuità. Semmai, si avverte una certa timidezza nell’osare qualcosa in più e forse è il timore di perdere contatto con gli elementi tradizionalmente consoni per un jazz- trio che impedisce a questi musicisti di sviluppare in modo più finalizzato molte delle loro idee, come vedremo nell’analisi dei brani.

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Max Kochetov Quartet – Altered Feelings (A.Ma Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Quando riesco ad ascoltare qualche momento poetico nell’ambito del jazz contemporaneo tutto il resto passa, per me, in secondo piano. Questo lavoro del saxofonista ucraino Max Kochetov, originario di Kiev – la città natale di Bulgakov – ma residente in Serbia, viaggia su almeno due livelli poetici distinti. Infatti Altered Feelings, terza uscita discografica di Kochetov – ma la prima per A.Ma Records – tocca sentimenti profondi non solo direttamente attraverso melodie nobili, come quelle maggiormente evidenti nel brano di apertura e chiusura ma anche per vie secondarie, ad esempio quelle della memoria. Questo perché il lavoro di Kochetov ci fa ritornare a tutto ciò che di più bello e vitale ha prodotto il jazz dal dopoguerra in poi. Altered Feelings non rappresenta un’analisi critica “stricto sensu” né un semplice revivalismo classico ma una riproposizione dei termini fondamentali del jazz, sia nei suoni che negli sviluppi armonici. Tutto questo non può non farci pensare a quei caldi quartetti e quintetti che hanno riempito il cuore di ogni appassionato jazzofilo, soprattutto dalla seconda metà degli anni ’50 fino agli inizi dei’70. Passano davanti ai nostri occhi nomi classici, da Jackie McLean a Charlie Rouse, da Stanley Turrentine al trombettista Freddie Hubbard, fino a sfiorare la figura di Coltrane. Musicisti e gruppi, insomma, portatori di temi veri, arrangiamenti raffinati e costrutti melodici ben definiti, proprio come in questa occasione realizzata da Kochetov e compagni. La struttura di questo gruppo si accentra oltre che sui sax dello stesso Kochetov anche sul pianoforte di Andreja Hristic, il contrabbasso di Boris Sainovic e la batteria di Milos Grabatinic, con due ospiti di livello come Ivan Radivojevic e Samuel Blaser rispettivamente alla tromba e al trombone. L’insieme di questi artisti costituisce una vera e propria sorpresa capace di stupire per la notevole effervescenza sonora, mantenendo un rigore esecutivo molto pulito e utilizzando geometrie basilari perfette – da rimarcare anche la qualità dell’incisione di ottimo livello, particolare da non trascurare mai…

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Milena Jancuric – Shapes And Stories (A.Ma Records, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Le “sinestesie” sono dei fenomeni sensoriali-percettivi per cui un certo stimolo provoca una sensazione diversa da quella normalmente sperimentata. Può accadere ad esempio, che un suono possa essere inteso simultaneamente anche come colore o viceversa. Il flauto, per chi sa cogliere questa suggestione, evoca colori pastellati, un azzurro chiaro o un verde primaverile. Milena Jancuric è una giovane flautista serba, con alle spalle studi classici e un’attenzione via via sempre più calamitata dal jazz e da altri suoni contemporanei. Le tonalità azzurrine del suo strumento sfiorano con gentilezza diversi territori musicali che vanno da una moderna visione jazzistica a rimembranze classiche, da soffi più aggressivi – alla Roland Kirk, per intenderci – a paesaggi modali che evocano lontane tradizioni popolari. Un tocco di Debussy, un grammo di romanticismo e solo un velatissimo accenno alla sperimentazione, aiutano a comprendere meglio quest’artista e il suo primo disco da titolare, Shapes and Stories, uscito per l’etichetta pugliese A.Ma Records. La Jancuric è una flautista pura, i suoi studi, come leggo dalle note stampa, sono stati condotti sia a Belgrado che al Berklee College negli USA. La sua musica ha comunque un respiro vasto, extra-accademico e si muove disinvoltamente tra diverse punteggiature senza sentimentalismi, anzi conducendo le sue linee melodiche con asciutto nitore, delineando complessivamente un’immagine di rigorosa sostanza strutturale. L’album realizzato gode di una piacevole, appassionante luminosità, garantendo una freschezza che non appassisce nemmeno dopo ripetuti ascolti. I musicisti che accompagnano la Jancuric sono Alexandar Dujin al pianoforte, Petar Radmilovic alla batteria, Ervin Malina al contrabbasso. Compaiono poi con interventi estemporanei Milan Jancuric al sax tenore, Lazar Novkov alla fisarmonica e per finire la cantante Aleksandra Denda.

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