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International Anthem

Dezron Douglas – Atalaya (International Anthem / !K7 Music, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Tra momenti di indurita vitalità e altri di sognante rilassatezza, il contrabbassista Dezron Douglas sfiora lo stigma dell’eccellenza con questo album registrato in quartetto, Atalaya. Nonostante i suoi lavori da titolare siano pochi – se ne contano tre da Live at Smalls del 2012, passando per un’uscita in quartetto nel 2018 con Soul Jazz fino ad arrivare a Force Majeure in coppia con l’arpista Brandee Younger nel 2020 – Douglas ha un cospicuo curriculum di collaborazioni con Louis Hayes, Makaya McCraven, Pharoah Sanders, George Cables, Cyrus Chestnut, Enrico Rava e molti altri. È indubbio, però, anche ad un ascolto superficiale, come in quest’ultimo album l’orecchio ben temperato del nostro contrabbassista sia piuttosto allineato con lo stile di Coltrane – John, non Ravi con cui Douglas ha comunque suonato. Sono sicuramente buone credenziali ma alcune intrusioni free, peraltro non numerose, sembrano leggermente fuori tempo massimo. Veniali minus progettuali, comunque, che nulla tolgono al valore complessivo di Atalaya, album ricco di pathos e di un sentimento contemporaneo da non leggere come una rivolta edipica verso i padri ma anzi una sorta di continuità stilistica e filologica rispetto al jazz degli anni ’50-’60 di cui, questo lavoro, sembra degno erede. Ad aiutare Douglas in questa impresa costruttiva ci sono Emilio Modeste al sax, George Burton al piano e al Rhodes, Joe Dyson jr. alla batteria e un intervento vocale e percussivo di Melvis Santa. Il suono complessivo ha un impatto realistico, sembra quasi catturato live in studio da quanto risulta immediato e spumeggiante. La configurazione dei brani è molto plastica, duttile, estremamente scorrevole e al di là di qualche istante più rumoristico si consegna spesso ad un impianto melodico circonfuso da sottili malinconie.

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Makaya McCraven – In These Times (XL/Nonesuch/International Anthem, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Credo di averlo ribadito già più volte e proprio qui, sulle pagine di Off Topic, che il jazz di Chicago non è solo il riferimento attualmente più importante negli USA ma è forse una delle proposte più innovative di tutta la musica contemporanea. È chiaro che in questa circostanza la vexata quaestio riguardi il significato letterale del termine ”jazz“ come del resto, l’autore di In These Times, cioè Makaya McCraven, ha così sottolineato:  “Cerco solo di creare la miglior musica possibile e non so neppure se chiamarla jazz…  e forse non è necessario etichettarla in questo modo” (da All About Jazz – 29/01/21). Ma come mai il batterista McCraven si schermisce nell’attribuirsi questo ruolo di jazzista? Non siamo alle soglie di alcun utopismo musicale, McCraven non è un teorico – anche se si fa chiamare “scienziato del ritmo” e definisce la sua musica come “organic beat music” – bensì un musicista che agisce diacronicamente su ciò che suona e non solo per quello che riguarda i consueti approcci improvvisativi. L’azione, in realtà, si prolunga oltre l’incisione musicale in sé. Come già fecero, in passato, Miles Davis con il suo produttore Teo Macero, sui nastri o comunque sulle tracce raccolte vengono operati dei tagli, delle cuciture, degli assemblaggi trasversali tra celle musicali differenti per ottenere una sorta di musica “reinventata”, prolungando il lavoro creativo oltre i limiti della pura performance. Inoltre McCraven accoglie nelle sue composizioni tutto ciò che può apparirgli congeniale, dagli archi ai droni di sottofondo, dai suoni urbani contemporanei dell’hip-hop al dub e ai ritmi jungle, inserti modali, soul music, spiritual jazz… Persino la scelta degli strumenti è estremamente fluida per cui ai tradizionali elementi dei gruppi jazz si aggiungono arpe, flauti traversi, marimbe, sitar, quartetti d’archi ed altro ancora. Pur non essendo originario di Chicago – McCraven è infatti nato in Europa, a Parigi, nel 1983 – qui si è trasferito a 24 anni, dopo una prima residenza nel Massachusetts. Ma è proprio nella Città Ventosa che il batterista franco-americano viene ben presto ad includersi nella scena musicale della città, tesa tra avant-garde e tradizione. Ora, dopo aver pubblicato il suo primissimo disco da titolare nel 2012 – Split Decision – e dopo una serie di interessanti uscite tra cui l’ultimo, acclamatissimo Deciphering The Message dell’anno scorso, McCraven propone un album con undici tracce, registrate in cinque studi differenti e in quattro performance dal vivo.
Questo lavoro ha richiesto una preparazione durata circa sette anni, avvenuta tra l’altro in contemporaneo allestimento di tutte le altre pubblicazioni, a cominciare da In The Moment del 2015. Sembra proprio che In These Times si sia voluto rappresentare una sorta di sintesi complessiva dell’estetica musicale di McCraven, quasi a tirar le fila di un discorso iniziato diversi anni fa e mai portato definitivamente al suo compendio. L’Autore viene accompagnato da una quindicina di elementi, tra cui qualche nostra vecchia conoscenza come Brandee Younger – una recensione la trovate quiJoel Ross – anche lui è recensito quiGregg Spero – potreste dare un’altra occhiata quied una serie di altri validi musicisti che elencherò alla fine della recensione.

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Daniel Villareal – Panamá 77 (International Anthem, 2022)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

Mettete insieme un collettivo di una quindicina di musicisti sotto il riferimento tutelare di Daniel Villarreal, batterista originario di Panama e deejay residente attualmente a Chicago.  Aggiungete una piena manciata di stili riconoscibili come il jazz, il dub, il rock, la cumbia, l’hip-hop, il funky, la psichedelia, l’afro beat e quant’altro. Immaginate un lavoro registrato principalmente tra la stessa Chicago e Los Angeles in cui solide strutture musicali si sovrappongano a libere improvvisazioni, difformità ritmiche africane e latine si diluiscano in un flusso lisergico d’altri tempi, danze sudamericane e beat anni ’60 si sposino generando timide sperimentazioni elettroniche. Ebbene, se siete riusciti a figurarvi tutto questo, siete solo a metà dell’opera. Perché quello che resta da aggiungere è la parte più preponderante, cioè la giocosa energia del suono sprigionato dalla musica di Panama 77, opera prima da assoluto titolare di Villarreal. Raramente mi diverto in questa misura, trovandomi ad ascoltare il disco di un esordiente. In effetti il “piacere” nella sua forma più immediata e vitalistica, è il termine più adatto che riesca a trovare per definire al meglio questo album. Ma non si creda si tratti di un divertimento solo superficiale. La musica di questi brani riesce a scavare una strada nel corpo e nella mente, distribuendo in egual misura componenti ritmiche che invitano alla danza ed altre puramente ludiche ed emozionali. In effetti la storia personale di Villarreal è piuttosto indicativa riguardo la natura della sua proposta artistica. Avendo avuto un inizio come batterista punk rock – e da questo punto di vista più di qualcosa gli è rimasto tra le bacchette –  è solo dopo il suo trasferimento negli USA che la natura eclettica di Villarreal si è potuta maggiormente estrinsecare. Innanzitutto migliorando la sua tecnica esecutiva e testando le sue capacità in alcuni importanti gruppi musicai, tra cui i Dos Santos che appaiono come l’ensemble di punta tra tutte le sue ulteriori collaborazioni. È proprio rispetto a quest’ultima, apprezzata band latina formata da elementi messicani, portoricani e panamensi, a cui Villarreal sembra maggiormente riferirsi, addirittura a tratti esasperandone il clima e immettendovi, per l’occasione, un pizzico in più di jazz e facendo avvertire la sua lunga esperienza di deejay. Forse è stato proprio questo mestiere che l’ha aiutato a comprendere le relazioni tra generi musicali diversi, trovando i passaggi giusti per sfumare un disco nell’altro e utilizzando questo “trucco” nel suo album, dove si ha  spesso l’impressione di un flusso unitario di musica con pochi angoli acuti. Così l’ascolto finale del disco diventa un continuo passaggio tra stili eterogenei in un’opera aperta e sincretica dai tratti assolutamente contemporanei, comunque sempre fresca, divertente ed eccitante.

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Anteloper – Pink Dolphins (International Anthem, 2022)

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Recensione di Mario Grella

Cominciamo dal Pink Dolphin e non solo perché è il titolo o perché è raffigurato in maniera psichedelica e naif sulla copertina del disco (continuo ostinatamente a chiamare disco ogni prodotto musicale anche su altri supporti), ma anche perché è una creatura incredibile, nel senso che è difficile credere alla sua esistenza e, non so perché, mi sembra somigliare molto a Jaimie Branch. Un delfino di acqua dolce che vive (almeno per ora) e risale i fiumi dell’Amazzonia. A dire la verità Jason Nazary e Jaimie sembrano anche loro essere “bestie rare“: entrambi hanno una “militanza” nella musica e nella cultura punk ed entrambi sembrano “pesci fuor d’acqua”. Sì, lo so il delfino è un mammifero, ma diversamente la metafora non stava in piedi. Nuotano in acque che stanno tra il jazz e qualcos’altro, anzi tra qualcos’altro e il jazz, ma questo importa solo a chi vende i dischi e non sa dove collocare lo splendido Pink Dolphins loro ultima fatica, con Jaimie Branch alla tromba, elettronica, percussioni e voce, Jason Nazary alla batteria e synth e Jeff Parker al basso e chitarra. L’antilope è un’altra creatura che per ragioni diverse attrae i due musicisti, che detto per inciso saranno al Teatro dell’Arte di Milano il prossimo ottobre. L’antilope è meno socievole del delfino, ma è anch’esso un animale gentile.

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Angel Bat Dawid – Hush Harbor Mixtape Vol. 1 Doxology (International Anthem, 2021)

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Recensione di Riccardo Talamazzi

La musica di Angel Bat Dawid si ascolta non senza qualche significativo turbamento. La quarantenne clarinettista, cantante, tastierista di Chicago si espone da sola nel suo ultimo lavoro, il terzo se non erro, con questo particolarissimo Hush harbor mixtape vol.1 – Doxology. C’è, in questo disco, qualcosa che non è facile raccontare. Si tratta, infatti, di un omaggio parlato e cantato – doxologico, appunto – dedicato ad una divinità o com’è in questo caso ad una santa brasiliana mai accolta ufficialmente nell’ambito cattolico. Parliamo di Escrava Anastacia, una schiava condotta dall’Africa in Brasile, all’epoca delle drammatiche traduzioni forzate di popolazione nera, che ha raccolto proprio in sud America un culto diffuso, anche se non propriamente ortodosso. L’immagine che la ritrae in copertina la mostra con quella speciale maschera di ferro che ne copriva parzialmente il volto, obbligata ad indossarla a causa, si dice, della sua conturbante bellezza. L’hush harbor a cui si fa riferimento nel titolo equivale al “porto di silenzio”, cioè un luogo boschivo e nascosto dove gli schiavi si riunivano per leggere la Bibbia e i Vangeli trovando conforto, almeno nella religione, alla loro vita disgraziata. Dove sta il turbamento di cui parlavo all’inizio, al di là della storia in sé dello schiavismo, già particolarmente drammatica da par suo? In primis nelle dichiarazioni della stessa Angel che insegue lo “sradicamento sonoro del sistema di supremazia bianca”. Cioè, se leggo in modo giusto e dando per autentica la suddetta citazione, la possibilità di svincolarsi dal sistema armonico e strutturale della musica tipicamente bianca e occidentale, anche se certi passaggi di accordi sulla tastiera mi ricordano Messiaen. Oppure l’autrice intendeva forse alludere al valore politico dei suoi suoni? Probabilmente sono vere entrambe le cose anche se la Bat Dawid non fa proclami di rivolte né si lancia in filippiche da comizio politico. Anzi, spesso i suoi parlati sono una via di mezzo tra accenni solidali, incoraggiamenti e orazioni – doxologie, appunto.  

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Damon Locks Black Monument Ensemble – Now (International Anthem, 2021)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

“Il tempo è solo la differenza tra il conoscere ora e non conoscere. Perché se conosci tutto ora, significa che è trascorso presente e futuro”. È con questa citazione “sessantottina” di Mattie Humphries, che Damon Locks, “sound and visual artist from Chicago Illinois” apre il comunicato stampa che accompagna questo interessantissimo lavoro intitolato Now e realizzato con il collettivo BME, acronimo di Black Monument Ensemble. Disco di difficile narrazione (e questo è un male) e assolutamente non etichettabile (e questo è un bene). Se c’è qualcosa di facilmente riconoscibile in questo lavoro musicale è certamente il suo “brodo di coltura”, che altro non poteva essere che la scena jazz-sperimental-transgressive di Chicago. Artista poliedrico, più che musicista puro, Damon Locks propone un lavoro denso di emozioni, pulsioni, concetti a cominciare proprio dalle parole (suoi i testi), dal loro significato e dal loro suono, spina dorsale di tutto il disco, magistralmente fuse e con/fuse, in un flusso sonoro dalle mille suggestioni che vanno dal jazz di ricerca, all’underground, al punk. Cosa ci raccontano le parole? Le dominanti tematiche del disco sono certamente le proteste e le rivendicazioni, suscitate dagli ultimi episodi di violenza poliziesca nei confronti dei cittadini afro-americani, che molto spesso si sono configurate come violenze di stampo razziale. Questa è la materia concettuale del disco, coniugata e declinata attraverso una vena musicale di altissimo livello, che fa del “collage sonoro” e del linguaggio di molte avanguardie, lo strumento di trasformazione poetica e musicale di una materia tanto scottante.

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Rob Mazurek Exploding Star Orchestra – Dimensional Stardust (International Anthem, 2020)

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Recensione di Mario Grella

La musica colta di Rob Mazurek assomiglia molto alla musica e poco alla musica colta. Della musica colta non ha tutta la boriosa presunzione che spesso ha il mondo della musica colta. Eppure è fuori di dubbio che di musica colta si tratti e, come ogni musica colta che si rispetti, è pregna di una forte dose di sperimentazione, minimale e, spesso, piacevolmente melodica. Registrato nel giugno 2020, Dimensional Stardust è un lavoro che vede impegnati, sotto la direzione di Rob Mazurek (autore delle composizioni e tromba ottavino, rendering elettronici, synth modulare), un nutrito ed affiatato gruppo di musicisti che formano la mirabolante Exploding Star Orchestra e che vado a ricordare: Damon Locks voce, elettronica, Nicole Mitchell flauti,  Macie Stewart violini,  Tomeka Reid violoncelli, Joel Ross -vibrafono, Jeff Parker  chitarra, Jaimie Branch  tromba,  Angelica Sanchez piano acustico e  piano elettrico, Inghebrit Håker Flaten basso, Chad Taylor, Mikel  Patrik Acery batterie e  percussioni,  John Herndon  drum machine.

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Irreversible Entanglements – Who Sent You? (International Anthem/Don Giovanni, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Camae Ayewa con i suoi “messaggi” un po’ sconclusionati, ma suggestivi, Keir Neuringer al sax e alle percussioni, Aquiles Navarro alla tromba e percussioni, Luke Stewart al contrabbasso e percussioni, Tcheser Holmes alla batteria e alle congas, sembrano essere molto convinti del loro jazz-punk-rock ed effettivamente il suono è molto ben amalgamato, piuttosto originale, anche godibile, soprattutto per quel sottofondo continuo, ma mai invasivo di percussioni coniugate in mille maniere. Bella, cristallina e ficcante la tromba di Aquiles Navarro, un contrabbasso pieno di personalità quello di Luke Stewart che sa far vibrare anche il silenzio, atonale e rumoristico quanto basta il sax di Keir Neuringer, insomma gran bella musica. 

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Jaimie Branch – Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise (International Anthem, 2019)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Non credo che la metafora del volo e la simbologia degli uccelli sia legata “solo” all’evocazione della libertà. L’uccello è un essere poco addomesticabile, è un essere a suo modo misterioso, chiuso nella sua impenetrabile individualità. Come sono gli uccelli dell’ultimo lavoro di Jamie Branch che si intitola Fly or Die II: Bird Dogs of Paradise? Strani; e forse che i cani “da uccello” siano proprio i musicisti? del resto, se non fossero stati strani, non avrebbero nemmeno popolato il disco della trombonista di Brooklyn, che ho avuto la fortuna di ascoltare a NovaraJazz giusto un anno fa.

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