R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Tra momenti di indurita vitalità e altri di sognante rilassatezza, il contrabbassista Dezron Douglas sfiora lo stigma dell’eccellenza con questo album registrato in quartetto, Atalaya. Nonostante i suoi lavori da titolare siano pochi – se ne contano tre da Live at Smalls del 2012, passando per un’uscita in quartetto nel 2018 con Soul Jazz fino ad arrivare a Force Majeure in coppia con l’arpista Brandee Younger nel 2020 – Douglas ha un cospicuo curriculum di collaborazioni con Louis Hayes, Makaya McCraven, Pharoah Sanders, George Cables, Cyrus Chestnut, Enrico Rava e molti altri. È indubbio, però, anche ad un ascolto superficiale, come in quest’ultimo album l’orecchio ben temperato del nostro contrabbassista sia piuttosto allineato con lo stile di Coltrane – John, non Ravi con cui Douglas ha comunque suonato. Sono sicuramente buone credenziali ma alcune intrusioni free, peraltro non numerose, sembrano leggermente fuori tempo massimo. Veniali minus progettuali, comunque, che nulla tolgono al valore complessivo di Atalaya, album ricco di pathos e di un sentimento contemporaneo da non leggere come una rivolta edipica verso i padri ma anzi una sorta di continuità stilistica e filologica rispetto al jazz degli anni ’50-’60 di cui, questo lavoro, sembra degno erede. Ad aiutare Douglas in questa impresa costruttiva ci sono Emilio Modeste al sax, George Burton al piano e al Rhodes, Joe Dyson jr. alla batteria e un intervento vocale e percussivo di Melvis Santa. Il suono complessivo ha un impatto realistico, sembra quasi catturato live in studio da quanto risulta immediato e spumeggiante. La configurazione dei brani è molto plastica, duttile, estremamente scorrevole e al di là di qualche istante più rumoristico si consegna spesso ad un impianto melodico circonfuso da sottili malinconie.

È proprio il brano d’apertura che porta il nome dell’album, Atalaya, ad iniziare la scaletta. Un’isolata percussione innesca una ritmica serrata tra contrabbasso e batteria, piano e sax soprano si espongono praticamente in contemporanea, dove lo strumento a fiato disegna un’enigmatica melodia dalle ombre mediorientali. Improvvisamente, quando sembra che l’economia del brano si possa riassumere in quest’inizio, ci si immette in un momento caotico in cui saltano gli schemi e ci si dirige verso un’improvisazione totale. Ma tutto ciò dura veramente poco e si torna ben presto alla melodia iniziale che ci accompagna alla secca chiusura. Rosè cambia totalmente atmosfera calando gli spiriti umorali all’interno di una classica ¾ ballad dai sapidi gusti coltraniani. Ancora il soprano di Modeste s’impone con lirica focosità sopra una linea melodica molto pulita. Burton scuote l’aria intonando una serie labirintica di note tra cui passeggia un contrabbasso essenziale ed una batteria che spezza continuamente i tempi. Il brano sale di quota e di dinamica mentre il piano utilizza una grammatica caratterizzata da una serie di accordi che entrano ed escono dalla tonalità di base. La traccia è così quasi divisa in due parti, una prima morbida e accondiscendente, una seconda sonicamente più affollata. Coyocan s’appresta ad entrare nel free con un’impronta un po’ datata, se vogliamo, dopo uno swingin’ blues iniziale. Ma forse la novità si trova proprio in questo scambio di parti, tra improvvisazione errabonda e rientro nei canoni più tradizionali, fino ad una chiosa inaspettata a forma di ballad che sembra l’inizio di un nuovo brano, quando invece è solo la coda del pezzo corrente. Questo tratto finale, soprattutto nell’attacco di Modeste, accende immediatamente la memoria del periodo di My Favourite Things (1961), dove Coltrane imbraccia per la prima volta il sax soprano insieme ad una sua storica formazione, quella con McCoy Tyner, Elvin Jones e Steve Davis – questo per sottolineare quanto Douglas si trovi sulla loro scia. Luna Moth s’appoggia ad un bel riffone di contrabbasso dalla cavata robusta e all’energico batterista in un brano che mi porta sulle tracce di Mingus e magari anche alla periferia di Ornette Coleman. Un assolo melodico dello stesso Douglas precede poi quello un po’ più dissipato del pianoforte di Burton, sempre alla ricerca di vie centrifughe maggiormente tensive, quasi gli andassero stretti gli spazi che occupa. Il sax, questa volta un tenore, sembra mantenere l’ago magnetico della bussola ben orientato, nonostante questa traccia nel complesso lasci l’impressione di una certa vaghezza prospettica. Weeping Birch è un momento di respiro, lento e dall’aria più latineggiante. La voce femminile di Melvis Santa, con sfumature calde anche se a tratti un po’ incerta nell’intonazione, spezza l’andamento più teso dell’album senza peraltro finire tra le braccia della solita ballad. La melodia è complessa, non cerca accomodazioni facili, Douglas s’accosta al basso elettrico e s’intreccia con piano e batteria, mentre il sax resta fuori dai giochi per un lungo tratto, ricomparendo poi nel finale come colore aggiunto.

Jones Beach appare all’orizzonte come un miraggio tremolante e l’uso dell’archetto nel contrabbasso sancisce questa sorta di momento stuporoso dalle caratteristiche di una lunga introduzione col piano che si autoalimenta di continui arpeggi, non lesinando dissonanze quando ritenute necessarie. Il sax plana sulle note create da Burton dando l’impressione di un malinconico abbandono. Brano riflessivo, anche se alla lunga un po’ sfilacciato. More Coffee Please sembra proprio uno di quei bei titoli rubati da qualche scaletta di un disco Blue Note dei sixties ma invece scopro che proviene da un DJ che si chiama DeepMorals… credo proprio sia un prestito “involontario”, dato che il brano in questione – come tutti, del resto, tranne Weeping Birch co-firmato con Melvis Santa – è attribuito a Douglas. Anche stavolta il contrabbasso imposta un riff d’accompagnamento completato ritmicamente dalla batteria che offre alla traccia un bel senso di tensione, su cui si avverte il ritorno di Modeste al tenore. In tratti come questo, eroganti energia quasi “geometrica” – sembra che gli strumenti si racchiudano volontariamente all’interno di strutture intercomunicanti ma comunque indipendenti le une dalle altre – possiamo avvertire tutte le secrezioni ormonali necessarie per creare musica incalzante, angolosa, dotata di una certa aggressività ritmica, tipicamente metropolitana come questa. J Bird incrementa la direzione già intrapresa nel brano precedente, questa volta dirigendosi a capofitto tra le braccia calde dell’hard-bebop. Ancora si mastica jazz senza mezzi termini, la musica mostra i muscoli e morde la strada. I due sax di Modeste, prima il tenore poi il soprano, affrontano la scabrosa superficie sonora con il loro suono perentorio, così come autorevole e pirotecnico è l’assolo di batteria di Dyson. Finale classico, di corsa e incalzante alla Joe Henderson di In ‘n Out. In Octopus Douglas torna al basso elettrico per un brano in solo costruito con effetto elettronico “subacqueo”, in un divertimento estemporaneo che prelude all’ultima traccia del disco, cioè Foligno. Non essendoci tra le note stampa informazioni specifiche a riguardo, non ho sicurezze sul fatto che questo brano sia proprio dedicato alla città umbra ma so per certo che a Foligno Douglas ha suonato nel maggio del 2018, insieme al nostro pianista Giovanni Guidi. Probabile quindi che questa ballata dai toni popolari, quasi una milonga tra ombre e luci con una melodia cantabile suonata con molta partecipazione dal soprano di Modeste, possa essere proprio dedicata alla città italiana. Nel mezzo di questo brano c’è un simpatico guastatore, il pianista Burton che anima di scintille il tutto per evitare di rendere forse troppo tenue la luce che accompagna questa musica.

Davvero un buon risultato ottenuto da Douglas che continua a centellinare i suoi lavori da titolare. Nell’ambito di questo album sono rimasto veramente impressionato dal sassofonista Modeste e dal sound mai debordante dei suoi strumenti che alterna con acuta sensibilità, dimostrando di possedere completamente il gergo sedimentato del jazz, dal bebop alla contemporaneità. Douglas e compagni non si fanno abbacinare dagli eccessi, possiedono un innato senso d’equilibrio che si mantiene qualche pollice sopra la media delle attuali produzioni e si fanno facilmente perdonare qualche instant de folie qua e là.

Tracklist:
01. Atalaya (3:18)
02. Rosé (5:04)
03. Coyoacán (3:33)
04. Luna Moth (6:07)
05. Wheeping Birch (feat. Melvis Santa) (5:16)
06. Jones Beach (4:47)
07. More Coffee Please (5:23)
08. J Bird (3:55)
09. Octopus (3:30)
10. Foligno (5:21)