R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mettete insieme un collettivo di una quindicina di musicisti sotto il riferimento tutelare di Daniel Villarreal, batterista originario di Panama e deejay residente attualmente a Chicago.  Aggiungete una piena manciata di stili riconoscibili come il jazz, il dub, il rock, la cumbia, l’hip-hop, il funky, la psichedelia, l’afro beat e quant’altro. Immaginate un lavoro registrato principalmente tra la stessa Chicago e Los Angeles in cui solide strutture musicali si sovrappongano a libere improvvisazioni, difformità ritmiche africane e latine si diluiscano in un flusso lisergico d’altri tempi, danze sudamericane e beat anni ’60 si sposino generando timide sperimentazioni elettroniche. Ebbene, se siete riusciti a figurarvi tutto questo, siete solo a metà dell’opera. Perché quello che resta da aggiungere è la parte più preponderante, cioè la giocosa energia del suono sprigionato dalla musica di Panama 77, opera prima da assoluto titolare di Villarreal. Raramente mi diverto in questa misura, trovandomi ad ascoltare il disco di un esordiente. In effetti il “piacere” nella sua forma più immediata e vitalistica, è il termine più adatto che riesca a trovare per definire al meglio questo album. Ma non si creda si tratti di un divertimento solo superficiale. La musica di questi brani riesce a scavare una strada nel corpo e nella mente, distribuendo in egual misura componenti ritmiche che invitano alla danza ed altre puramente ludiche ed emozionali. In effetti la storia personale di Villarreal è piuttosto indicativa riguardo la natura della sua proposta artistica. Avendo avuto un inizio come batterista punk rock – e da questo punto di vista più di qualcosa gli è rimasto tra le bacchette –  è solo dopo il suo trasferimento negli USA che la natura eclettica di Villarreal si è potuta maggiormente estrinsecare. Innanzitutto migliorando la sua tecnica esecutiva e testando le sue capacità in alcuni importanti gruppi musicai, tra cui i Dos Santos che appaiono come l’ensemble di punta tra tutte le sue ulteriori collaborazioni. È proprio rispetto a quest’ultima, apprezzata band latina formata da elementi messicani, portoricani e panamensi, a cui Villarreal sembra maggiormente riferirsi, addirittura a tratti esasperandone il clima e immettendovi, per l’occasione, un pizzico in più di jazz e facendo avvertire la sua lunga esperienza di deejay. Forse è stato proprio questo mestiere che l’ha aiutato a comprendere le relazioni tra generi musicali diversi, trovando i passaggi giusti per sfumare un disco nell’altro e utilizzando questo “trucco” nel suo album, dove si ha  spesso l’impressione di un flusso unitario di musica con pochi angoli acuti. Così l’ascolto finale del disco diventa un continuo passaggio tra stili eterogenei in un’opera aperta e sincretica dai tratti assolutamente contemporanei, comunque sempre fresca, divertente ed eccitante.

Le armonie musicali sono quasi tutte modali, cioè condotte in pratica su un’unica scala di partenza e senza cambi di tonalità. Questa scelta accentua il primitivismo della musica permettendo di svincolarsi dai passaggi obbligati tra gli accordi, consentendo alle suggestioni ritmiche di prolungarsi nel tempo, innescando spesso una trance torpida conforme allo spirito di questo progetto.

Si inizia con Bella Vista dove il protagonista assoluto è il sax baritono di Elliot Bergman che corre libero sopra una strana marcia percussiva organizzata dai molti suoni di Villarreal, hand clap compreso, a creare una sorta di processione dal carattere vagamente ossessivo. Ofelia si avvale anch’essa di un substrato poliritmico ben robusto ma il tono diventa decisamente sixties oriented, grazie all’organo e alla tastiera beat Farfisa di Cole DeGenova, con la chitarra di Nathan Karagianis che appunta inizialmente piccoli riff in moderata distorsione per poi proseguire con un vero e proprio assolo. Uncanny comincia con qualche sibilo elettronico che si combina con la struttura ritmica delle percussioni e del basso elettrico in stile dub di Bardo Martinez. In più la tromba sovraincisa di Aquiles Navarro e le tastiere elettroniche, avvicinano il brano a qualche pregressa idea della Sun Ra Arkestra. Con I Did’nt Expect That cambia tutto o quasi. In poco più di un minuto si suona jazz-rock di quello buono con la basilare formula quaternaria di una batteria, del contrabbasso di Anna Butterss, la chitarra jazzy di Jeff Parker e l’organo di DeGenova. Neanche il tempo di prenderci gusto e si passa ad In/On, rimanendo ancora nel clima del pezzo precedente. Come sempre è Villarreal che detta i tempi giusti quando poi arriva la chitarra di Parker a svisare su una ritmica ben amalgamata tra batteria e il poderoso basso, questa volta elettrico, della Butterss. La tastiera di Dave Vettraino mantiene un bordone costante, essendo il brano in evidente sviluppo modale. Una certa monocromia sonora, con le percussioni aggiunte delle congas, riporta la memoria alle esperienze dei tedeschi degli anni ’70, Can e Agitation Free nello specifico. Con Cali Colors l’atmosfera resta simile al brano precedente ma qui si crea maggior spazio  per la chitarra, non impegnata a far grandi cose ma a disseminare la traccia di misteriose, simboliche note mentre gli archi suonati ed arrangiati da Marta Sofia Honer creano vibrazioni che sembrano avvolgere il brano in una brumosa foschia magnetica. L’armonia modale contribuisce a promuovere l’andamento ipnotico del brano che tende sempre più ad assomigliare ad una danza sciamanica. Direi che si tratta di uno dei brani più riusciti dell’intero album, uno di quelli in grado di catturare la mente e portarsela via lungo la propria deriva sonora.

Activo, stando alle note stampa, parrebbe essere stato registrato primariamente dal vivo ma in un secondo tempo Villarreal deve aver manomesso il brusio del pubblicoche si avverte in sottofondo, isolandone alcuni passaggi e riutilizzandoli come elemento sonoro, una specie di percussione aggiunta. In effetti il brano è affare di tre musicisti, più il pubblico come accennato, dove spicca soprattutto la kalimba elettrica di Elliot Bergman e la chitarra di Parker. Una vera e propria danza africana trasportata nel parco di un hotel californiano a Los Angeles. Sombras torna dalle parti di un certo funk-jazz, tra il duettare ritmico di batteria e contrabbasso con la chitarra nervosa di Parker che accenna ad un paio di scale  discendenti, mentre DeGenova gratta rapido qualche nota sul Farfisa. Parque en Seis spariglia le carte in un’accoppiata vincente tra Fender Rhodes e sintetizzatore, mentre si esce dall’avventura modale per entrare, da qui in avanti, gradatamente in quella tonale. La stranezza è che i suoni che si ascoltano avrebbero potuto provenire da un gruppo di Canterbury come i Caravan o gli Hatfield and the North e sono Kyle Davis e Martinez a rimpallarsi gli effetti tra le due tastiere sopra menzionate. Più che un apparente  travestimento, tutto questo rientra nel profilo eclettico della band che ruota attorno a Villarreal, con quel gusto trasversale di toccare generi diversi e farsene portatrice, anche solo per un singolo brano. Lo stesso parziale stupore nell’ascoltare Patria, che è un pezzo composto da Avelino Munoz, un famoso musicista panamense, organista e pianista, morto negli anni ’60. La versione di Villarreal & C. è molto vicina all’originale, persino nella timbrica dell’organo ed ha lo sviluppo crepuscolare di una danza di paese un po’ malinconica. 18Th & Morgan prende il nome dalla diciottesima strada di Chicago, dove Villarreal si esibisce spesso come deejay. Viraggio completo della musica in direzione Quincy Jones o comunque in quel soul jazz molto lounge che ebbe gran seguito negli anni ’70. Tastiere e implacabile groove sono le chiavi di lettura del brano, con un occhio di riguardo anche agli archi della Honer. Messenger chiude riprendendo i temi presenti nella prima parte dell’album con percussioni afro mescolate al suono più occidentale della batteria e di una chitarra discreta che disegna qualche cornice ornamentale.

Uno strano incontro, questo con Villarreal, ma molto stimolante e produttivo nel senso più creativo del termine. Contemporaneo e in qualche modo tradizionale nello stesso tempo, espressione di un postmodernismo che si fa catturare, nell’essenza, da quei musicisti che sono tra i più attenti allo spirito del tempo, Panama 77 dimostra la piena validità della scena musicale di Chicago, a mio parere attualmente una tra le più interessanti degli USA.

Tracklist:
01. Bella Vista
02. Ofelia
03. Uncanny
04. I Didn’t Expect That
05. In/On
06. Cali Colors
07. Activo
08. Sombras
09. Parque En Seis
10. Patria
11. 18th & Morgan
12. Messenger

Photo © Ariana Lebedev, Carolina Sanchez