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Live report e fotografie di Fabio Baietti


Un proiettile con scritto il mio nome. Quello dei Dream Syndicate ci mette due ore a percorrere il tuo corpo, conficcandosi nel cuore, nello stomaco e nel cervello. In un viaggio sotto il palco con Madame Adrenalina e Monsieur Furore a sgomitare al tuo fianco. Tutto lo scibile di una certa musica, quella che qualcuno ha ingabbiato nella limitativa definizione geografica e musicale di Paisley Underground. In realtà un magmatico sabba, con la giusta alchimia di elementi dai nomi a noi più affini. Rock (più o meno acido, più o meno roll), Punk, Physcojam, Blues. Insomma un fluire di note che non lascia scampo, purtroppo (o per fortuna) mai giunto a quel successo di massa che troppi destini di “magnifci perdenti” ha segnato nel corso degli anni.

 

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Ritornano in Italia i Dream Syndicate, dopo la serata indimenticabile del Bloom lo scorso anno, per celebrare un monolite, una pietra miliare. Tutto l’armamentario di certa retorica da nostalgici, quelli che “gli anni ’80 erano anche questo”, non basta a spiegare cosa significa mettere nel lettore un cd come Medicine Show. Figurarsi sentirselo scagliare addosso con i decibel al massimo e la voce di Steve Wynn che riesce, ancora meglio di allora, a scorticare l’anima. La celebrazione è il corpo centrale del concerto al Live Club. Una dopo l’altra, come i grani di un paganissimo rosario rock, vengono sgranate gemme assolute come Still holdin’ on to youDaddy’s Girl, Burn, Armed with an empty gun, Merritville. La riproposizione fedele della scaletta originaria nulla toglie al pathos del (non troppo numeroso) pubblico presente.

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Gli highlights sono, a mio parere, rappresentati da una chilometrica, lisergica versione di John Coltrane Stereo Blues (il vino buono è sempre nel freezer) dove la chitarra arroventata di un allucinato e allucinante Jason Victor incenerisce qualsiasi velleità di sopravvivenza nella platea. Nella Medicine Show stralunata, dall’andamento “malato”, che ha un rigurgito elettrico, tangibile e definitivo, nel duetto Wynn-Victor. E in una Bullet with my name on it il cui solo di chitarra, messo in rampa di lancio dall’implorante “gotta run away, run run away“, riesce a far rabbrividire fino alla commozione.

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Prima e dopo questa beneficiata? Emozioni quantomeno paritarie, se non ancora più vivide, regalate da uno Steve Wynn in gran forma, da un Dennis Duck che pesta i tamburi come un ragazzino, dalla ruvida ritmica di Mark Walton al basso. E dalle visioni di un Jason Victor miglior epigono possibile di quel guitar hero “per caso” che fu Karl Precoda. (Ri)scopri quanto un album ingiustamente sottovalutato come Out of the Grey, abbia al suo interno, oltre al classico Dream Syndicate per eccellenza Boston, un gioiello come Forest for the trees. Per non dire del blues oscuro, celato in quasi tutte le note delle “Storie del fantasma”. Dove l’imperativo risulta vigilare perché la propria tomba sia mantenuta pulita, come già fece decenni orsono Blind Lemon Jefferson. Storie che calpestavano il suolo velvettiano già nel seminale esordio, abbondantemente saccheggiato anche a Trezzo. Quello in cui Halloween, Tell me when it’s over, That’s what you always say lasciavano già sgorgare impetuoso il talento della penna del giovane Wynn. Da sempre, limitrofo alla cruda, a volte impietosa, scrittura loureediana. Non c’è da sorprendersi se proprio al Vate, recentemente scomparso, si renda omaggio con una Rock and Roll che manda tutti a casa, consci che i giorni del vino e delle rose continuano a tenere in vita il Sogno, il suo Sindacato e tutti i suoi iscritti!

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