Racconto breve di Marina Iossi
Lo incontrai per caso. Era brutto, tànghero, un tipaccio. Capelli corti, pancia pronunciata in avanti e cosce tarchiate, tenute incollate nei suoi jeans da mercato cinese. Lo guardai il tempo necessario per accorgermi che era, in generale, abbastanza robusto.
Si avvicinava alla banchina incurvato nelle spalle e il suo collo e le sue scapole erano un tutt’uno. Pareva un avvoltoio su di un ramo. Egli si accorse di me. “Bianca!” – esclamò con convinzione tale che io mi girai. Eravamo entrambi alla fermata alle spalle del palazzo reale in attesa del tram che porta a Leidseplein, e nessun altro all’infuori di noi due. Non gli diedi retta, ma lui era sempre più vicino e quando si fermò di fronte a me che ero seduta sulla panchina, con quel suo pancione penzolante dai pantaloni più stretti di almeno una taglia, non potetti più far finta che non esistesse. Non seppi scegliere cosa, in quel preciso momento, mi desse maggior fastidio: se il suo panzone a un centimetro dal mio viso o il suo cattivo odore coperto da acqua di colonia a pochi millimetri dalle mie narici. Così alzai lo sguardo. Lo fissai negli occhi senza dirgli alcuna parola. Bastò quello per trasformare il suo sorriso inebetito in smorfia e poi broncio. << tu non sei Bianca!>> esclamò. Chiaro che non ero Bianca e, se pure lo fossi stata, avrei saggiamente finto di essere un’altra persona. Il tipaccio cominciò ad andare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Penso che abbia percorso chilometri interi nei pochi metri della fermata del tram.
A un certo punto, mentre dalla mia sinistra ci raggiungeva il tram, egli tirò fuori dalla tasca della sua camicia di jeans usurato una piccola chiave verdognola, minuscola come una pillola. La ingoiò. Il tram si arrestò proprio di fronte a me, così salii per prima. Nel tram c’erano quattro o cinque persone messe sui sedili così, a caso. Il posto accanto al conducente era vuoto. Obliterai il mio biglietto blu. Gvb, lo amavo. Il tipaccio si sedette dietro di me, prendendo a cantare. Ancora una volta non seppi cosa mi desse più fastidio, se il ricordo del suo panzone penzolante, il puzzo del suo sudore misto ad acqua di colonia o, adesso, il suo canto stridulo. Finalmente il tram raggiunse la fermata in Paulus Potterstraat. Ero solita scendere lì quando volevo andare al parco. Scesi, quindi. Il tipaccio restò seduto al suo posto. Non mi voltai ma sentii i suoi occhi trafiggermi come fossero state frecce nella mia schiena. Cominciai a camminare e imboccai sulla sinistra Van Baerlestraat fino a girare, come per tornare indietro, nella P.C. Hooftstraat. Emporio Armani, Cartier, Valentino, Tiffany & Co., Lacoste. Era quella una strada che non amavo particolarmente, o meglio, l’amavo perché quel lusso si faceva odiare. Non sapevo fare diversamente, proprio no. Dovevo scendere dal tram in una zona protetta, provare sentimenti opachi, contrastanti, combattere la mia guerra silenziosa fatta di sguardi torvi alle vetrine del lusso, dimenticarmi del parco fino a girare in Hobbermastraat e raggiungere il cancello di vernice scura su cui campeggiavano le lettere dorate di Vondelpark.
Camminai quella volta con l’ansia di un eroe che torna in patria e camminai fino a quando il mio premio arrivò: Buuuuum!… il verde brillante dei giardini di maggio mi era scoppiato in petto. Era maggio, sì, il sole alto e Amsterdam stupenda.
Avevo portato con me un quaderno nuovo e una lattina di birra chiara che avevo pagato davvero poco all’Albert Heijn di Nieuwmarkt. La aprii ma, nell’istante successivo, cominciai ad avvertire nausea. E poi fu il vomito a venir fuori dal mio corpo e, con esso, la chiave verdognola che qualche minuto prima il tipaccio aveva ingoiato. Misi le mani nel mio stesso vomito per prenderla. La lavai con la birra per eliminare la saliva e i succhi gastrici. La guardai da ogni prospettiva dopodiché la misi in tasca per poi tornare verso casa, stavolta totalmente a piedi. Camminai lentamente e di tanto in tanto mettevo la mano sulla tasca per controllare che la chiave fosse ancora con me. Nella testa avevo un mulinello di pensieri sul come quella chiave fosse finita nel mio stomaco. Quel tànghero mi aveva fecondata.
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