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Intervista di Luca Franceschini

Steve Howls è il nome del progetto personale di Stefano Laruccia, cantautore di stanza a Milano che ha scoperto la sua vocazione artistica durante la sua permanenza a Copenhagen, una città che, stando a quanto ci dice, pare essere davvero ricca di stimoli dal punto di vista musicale.
Ha vinto l’ultima edizione del Pending Lips, il concorso per band emergenti organizzato dalla Costello’s, imponendosi (a quanto ci è stato detto) quasi a forza, grazie ad uno stile unico e a un magnetismo esecutivo realmente sopra la media.
Ho avuto modo di incrociarlo un paio di volte, sempre in modo molto fugace, ma è stato abbastanza per rimanerne folgorato.
Il suo esordio in studio era quindi già molto atteso e bisogna dire che le aspettative non sono andate deluse: “Holding Back My Days” è un ep di quattro pezzi che fissa la sua scrittura in modo cristallino e ne evidenzia tutte le potenzialità che si erano già viste dal vivo. Non è un prodotto facile da assimilare: il suo uso della chitarra acustica è decisamente lontano dagli stilemi classici dell’indie folk a cui ci siamo abituati in questi anni. Stefano è piuttosto uno sperimentatore, uno che fa continua ricerca sul suono, sulla voce, sulle atmosfere delle singole canzoni.
Lo abbiamo incontrato il giorno del Pending Lips Awards (durante il quale anche lui si sarebbe esibito, leggi qui il report completo), in un caldissimo pomeriggio autunnale in cui per una volta non sembrava proprio di essere a Sesto San Giovanni. È stata una chiacchierata interessante, grazie alla quale siamo riusciti ad entrare un po’ di più nel mondo narrativo e musicale di Steve Howls…

Innanzitutto compimenti! “Holding Back My Days” gira sul mio stereo da un paio di settimane e non ne vuole sapere di andarsene… Mi dici come hai iniziato? Come ti è venuta la voglia di scrivere canzoni?
I fattori sono stati diversi. Era un periodo particolare della mia vita, ero uscito da una relazione, stavo facendo un lavoro che non mi piaceva e che non mi lasciava spazio per la musica, per le mie cose. In quel periodo però, nonostante tutto è nata una canzone, scritta nel giro di un anno, che è poi diventata “Keep On Walking”, quella di cui è stato fatto anche il video. Una volta completata questa, mi sono accorto che mi era nato il desiderio di scrivere, e altri pezzi sono venuti fuori a ruota.

La tua proposta musicale è piuttosto originale, mi pare. Quali sono le tue influenze principali? Perché ad ascoltare bene i pezzi, non è facile trovare qualche nome a cui accostarti. Inoltre hai un modo molto particolare di suonare la chitarra e di concepire il pezzo…
Non ti saprei dire con esattezza dove viene fuori il mio stile. Sicuramente tra le mie influenze c’è Ben Howard, per quanto riguarda questo tipo di studio sulla chitarra. Quando scrivo una canzone cerco sempre che divenga un tutt’uno tra quel poco che ho, cioè chitarra e voce, e l’uso degli effetti, l’atmosfera, ecc. Non mi definirei chissà quale sperimentatore, però sì, mi piace e mi interessa l’idea di fare qualcosa di nuovo nel modo di concepire insieme chitarra e voce.

Sei autodidatta o hai preso lezioni?
Ho iniziato da solo a suonare l’acustica, poi ho avuto un amico che mi ha dato delle lezioni, non direttamente sulla chitarra, ma sul timing, su come rispettare il tempo, su come acquisire il concetto di tempo, il suonare a tempo. È stata una grande lezione anche perché prima suonavo con un batterista ed era più facile, quando sei da solo tendi sempre a rallentare o ad accelerare.

Senti, il nome Steve Howls da dove esce?
Tradotto letteralmente sarebbe “Stefano Ulula”: c’era un po’ questa immagine del lupo che si stacca dal branco ma anche quella del lupo che ulula alla luna. Queste due immagini sono quelle a cui mi sono ispirato e quelle a cui cerco anche di richiamarmi nella mia musica.

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Suoni musica difficile, le tue canzoni non sono certo fruibili ad un primo ascolto, necessitano di tempo per essere assimilate a dovere, eppure sin da quando hai preso parte al Pending Lips hai riscosso pareri positivi e i tuoi concerti di quest’estate sono stati molto apprezzati. Io stesso, avendo avuto modo di vederti prima dell’uscita dell’ep, sono rimasto davvero impressionato…
Non ho particolari pretese, mi piace quello che succede dal vivo, sento il flusso che c’è tra me come performer e il pubblico. Io stesso non mi aspettavo una reazione del genere da parte delle persone, è una cosa che mi sorprende e che mi rende molto contento. Tra l’altro, parlando delle canzoni dell’ep, non sono particolarmente soddisfatto di come sono venute fuori in studio ma penso che sia normale: più vai avanti, più ti confronti col tuo lavoro, e più diventa inevitabile essere insoddisfatto, voler fare piccole modifiche qua e là per facilitare l’ascolto. Poi rimane il fatto che sono in Italia, canto in inglese e sono quindi consapevole che certe cose, soprattutto dal vivo, non possono arrivare alla maggior parte delle persone. Nel mio piccolo, comunque, cerco di portare avanti le mie cose e di raggiungere quanta più gente possibile…

Sul fatto di non essere contento di come i pezzi sono venuti fuori: pensi quindi che ogni volta dal vivo i pezzi assumeranno una nuova veste?
No, diciamo che le versioni live sono quelle ormai, magari c’è qualche improvvisazione in più, qualche stacco ma poca roba. Sono molto perfezionista, non mi piace improvvisare molto, voglio sempre pianificare le cose in ogni minimo dettaglio. È vero però che alla lunga questo lato potrebbe andarmi stretto, può anche darsi che in futuro deciderò di cambiare.

Nella tua biografia fai menzione di un periodo passato a Copenhagen: quanto è stata importante per te questa città?
Moltissimo. È il luogo dove ho incontrato questo amico che mi è stato maestro e poi ci sono tantissime realtà di cantautori, quasi delle comunità, che si ritrovano, portano delle idee, chi una melodia, chi una parte di testo, ci si scambia dei feedback, ci si confronta. Io sono arrivato lì che avevo solo una canzone e poi da lì, dopo alcuni incontri, le cose si sono iniziate a muovere. Ma d’altronde è giusto che succeda così: bisogna vivere per fare musica.

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Cosa manca invece qui da noi? Perché io personalmente vedo che, nonostante la ricchezza della proposta, la maggior parte degli eventi viene semplicemente disertata dal pubblico. È come se non ci fosse interesse per certe cose…
Sì, anche secondo me è così. Credo che ci sia poco coraggio di prendersi dei rischi, di uscire un po’ da quello che si conosce. Abbiamo una tradizione di cantautori che dura da tantissimi anni, è anche normale che sia così, che si rimanga ancorati a quel modello. Senza generalizzare troppo, trovo che ci sia più il bisogno di emulare, piuttosto che quello di sperimentare.

Poi manca una cultura d’ascolto…
Certo, non è da tutti sapere ascoltare. Anche se devo dire che di recente ho trovato gente che mi ha ascoltato in silenzio, con attenzione e piacere. Poi rimarrà sempre una cosa di nicchia ma è positivo che qualcuno si fermi a sentire

Ho letto i testi: ci ho trovato dentro un senso di abbandono, di desolazione, ma anche una certa speranza e voglia di rivalsa. Mi pare che ci siano dei riferimenti ben circostanziati anche se, non avendo una chiave per entrare, non è facile coglierli. Come hai lavorato nella scrittura? Sono legati, questi quattro episodi, oppure ognuno fa a sé?
Sono tutte legate, sono quattro scenari che ho vissuto personalmente. Nella prima parlo di un caro amico che era in fin di vita in ospedale, e il testo non è nient’altro che la serie di pensieri che ho avuto quando l’ho visto lì in ospedale per l’ultima volta. Ripeto spesso “On The Other Side of The World” perché questa persona mi aveva offerto il primo lavoro serio che ho mai avuto ed ero andato in Cina, che appunto è dall’altra parte del mondo. Quindi sì, qui ci sono decisamente dei riferimenti personali precisi. Il tutto può essere visto come un racconto di una parte della mia storia personale, con le canzoni che non sono ordinate secondo la data di composizione ma secondo l’ordine degli eventi. Quindi si parte da “White Wallis”, che racconta di una separazione, poi c’è “Keep on Walking”, che esprime la consapevolezza che dopo i momenti più bui tornerà la luce. “These Clouds” parla della mia partenza per Copenaghen, della distanza che ho provato ma anche della comprensione che c’è stata di questa distanza, del sentire comunque vicine le persone che avevo lasciato. “Sailors” è l’ultimo pezzo e dice che per quanti sforzi faremo per mantenere una promessa, può succedere sempre qualcosa per cui non ci riusciamo, quindi alla fine va a finire  che facciamo delle promesse da marinaio, come si suol dire. In questa canzone c’è una particolarità, perché il titolo è al plurale mentre io nel ritornello canto “I’m Just a Sailor”, nel finale c’è un crescendo di loop e mi piace pensare che se tutti cantiamo insieme questa parte, è come se ci sentissimo tutti un po marinai.

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Il video di “Keep On Walking” è molto suggestivo. Dove l’avete girato?
Vicino alle Dolomiti. Volevamo rappresentare questo passaggio dai momenti bui alla luce più accecante, in cui poi si segue la propria strada, si sta seguendo la bussola, come nel video, ma poi ci si rende conto che la guida ce l’abbiamo dentro. Era una location che mi piaceva molto, abbiamo iniziato a girare alla 5.30, il modo migliore per avere la luce giusta, poi c’è tutta la questione del camminare, che ovviamente è molto presente.

Hai scelto di registrare un ep. Noto che questo formato sta recentemente tornando di moda. Francamente non credo che sia un male: in un periodo in cui esce così tanta roba che è difficile starci dietro, concentrarsi su poche canzoni alla volta è sicuramente un aiuto…
Ho fatto un ep per diversi motivi. Nel momento in cui abbiamo deciso di registrare avevo solo questi quattro pezzi che mi sembravano pronti per essere inseriti. Quindi, un po per comodità, un po’ perché avevamo fretta di buttare fuori qualcosa (in realtà io non è che avessi tutta questa fretta, ma si sa come vanno queste cose, ci sono anche delle precise logiche da rispettare), non avendo abbastanza brani per poter fare un disco, ho pensato che sarebbe stata bella anche l’idea di esordire con qualcosa che fosse più facilmente fruibile. In effetti sono d’accordo con te: meglio avere pochi pezzi, tutti di una certa qualità, piuttosto che un disco pieno di filler. Poi non escludo che in futuro mi avvarrò anche di altri musicisti, in studio, ma per adesso volevo suonare da solo, realizzare quindi un prodotto che fosse il più possibile vicino a quello che sono dal vivo.

Cosa c’è adesso nel tuo futuro? Immagino suonerai parecchio dal vivo, visto che un po’ di date sono già state rese note…
Sì, adesso ci sono i live e tante idee da buttare giù: voglio finire di scrivere un po’ di canzoni e sperimentare sempre di più sulla chitarra, sui suoni. Mi piace l’idea che mentre sto suonando uno strumento fisico, posso anche produrre dei suoni che sono riconducibili ad una dimensione elettronica. L’ho fatto nell’ep ma dal vivo vorrei farlo molto di più.

Cosa stai ascoltando in questo periodo? C’è qualche disco, tra quelli usciti quest’anno, che ti ha particolarmente colpito?
Tra quelli usciti quest’anno mi è piaciuto molto quello di Bjork. In realtà il mio problema (che poi non è proprio un problema!) è che io non ascolto tanta musica: non riesco ad appassionarmi tanto a qualcuno in particolare ma anche perché quando scrivo, ascoltare tanti artisti mi porta ad esserne involontariamente influenzato e quindi questo va a discapito della mia scrittura…

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[foto di Paolo Pozzi]