Intervista di Luca Franceschini
Emidio Clementi è uno dei più grandi personaggi del mondo musicale italiano, anche perché non è possibile ridurlo unicamente alla sua figura di artista. Scrive cose meravigliose, certo, e coi suoi Massimo Volume ha scritto e sta scrivendo una pagina importantissima nella storia del rock della nostra penisola.
Eppure, tutte le volte che ci parli capisci che dietro a tutto questo c’è un uomo vero, una persona a tutto tondo con cui è ogni volta bellissimo parlare, non solo di musica. Sarà per questo che quando lo intervisto si rischia sempre di avere materiale per un libro intero, tanta è la ricchezza della conversazione che di volta in volta si riesce ad instaurare. L’ho raggiunto per telefono all’indomani dell’uscita de “La guerra di domani”, il capitolo d’esordio del progetto Sorge (qui la recensione) realizzato assieme a Marco Caldera e abbiamo parlato di tante cose: del disco, dei testi, del valore della letteratura, del rap, dei Massimo Volume ma soprattutto della vita e di cosa occorre per starci di fronte…
Direi di partire dall’inizio: non ti chiedo come è nato il progetto Sorge perché lo hai raccontato tu stesso benissimo nel comunicato stampa che hai diffuso qualche mese fa. Mi piacerebbe sapere comunque qualcosa degli obiettivi che vi siete prefissati in termini di composizione, il modo in cui avete lavorato, le vostre fonti di ispirazione…
Ho cercato di lavorare sulla fluidità del verso, sulla maniera in cui questo viene posto, cercando di avvicinarmi un po’ all’Hip Pop, per quanto possa sembrare strano il paragone, oppure ad una certa poesia declamata ad alta voce, penso soprattutto a “Generation” di Ginsberg. Per quanto riguarda le influenze, ero stato molto colpito da ”I’m New Here” di Gil Scott Heron, l’ultimo disco che ha fatto prima di morire, che è un lavoro dove a tratti alterna cantato a spoken word su una base elettronica. Non mi ricordo chi l’ha prodotto, credo un giovane newyorchese, e in questo ha caso ha dato una veste inedita al suo lavoro solito.Credo che questo sia stato un ascolto importante, nel senso che parlando con Marco, gliel’ho indicato con l’idea che avremmo potuto dirigerci lì, vista anche la presenza del piano.
Poi c’è stato tutto uno scambio di file: sono partito da piccole cellule melodiche di pianoforte, le giravo a Marco, lui ci faceva sopra qualcosa, lo vedevamo insieme, ne parlavamo… lui me le rimandava e io ci scrivevo i testi. Sono stati centrali i primi tre pezzi che abbiamo fatto, di cui il primo in assoluto è stato “Nuccini”: ne abbiamo realizzate diverse versioni, poi ad un certo punto l’abbiamo fissata e ci siamo detti che quello avrebbe potuto essere lo stile del disco. Da lì in poi ci siamo mossi anche con gli altri pezzi.
In generale, voleva essere un album con pochi elementi, una struttura ritmica con basso, synth e piano e poco di più. Poi è un lavoro assolutamente autarchico, nel senso che tolta la voce di Francesca Bono in tre pezzi, non c’è nessun altro strumento che non sia piano o synth.
Come è stato lavorare con Marco? Voi collaborate insieme da tanto tempo però è la prima volta che c’è un’implicazione così a livello artistico da parte sua. Come mai ti è venuto in mente lui?
Beh, Marco aveva lavorato già come coproduttore di “Aspettando i barbari” e lì aveva tirato fuori delle idee, nel senso che parte dell’elettronica che c’è nel disco è dovuta a lui. Mi sono fidato, sono andato sul sicuro: ha vent’anni meno di me, un retroterra differente, ma apprezzo molto il suo modo di lavorare, infatti è entrato subito nel progetto, ha capito quello che volevo fare. Vero che siamo partiti dal piano, però a parte quello, il resto è elettronico, quindi il suo contributo è stato fondamentale. Ci siamo trovati molto in sintonia sulla direzione da dare al disco, è stato molto bello per me, una novità ma anche un qualcosa in più, un’esperienza simile a quella di Conrad che a un certo punto si è messo a scrivere in un’altra lingua… Ecco, anche per me questa è stata una cosa totalmente nuova. Certo, l’anno scorso avevo fatto “Notturno Americano” però lì non ero entrato come musicista, mi ero occupato solo della parte lirica. Qui mi sono coinvolto molto di più e posso dire che sia stato proprio un bel viaggio!
E’ anche vero che sono due dischi totalmente diversi: “Notturno Americano” è senza dubbio più suonato, ma è strutturato come uno spettacolo di reading, questo è più elettronico, però di sicuro ha più l’impostazione di un disco…
Assolutamente. In tutti gli spettacoli che abbiamo fatto per “Notturno Americano” io entravo in scena con un libro. Nononostante Carnevali avesse molto l’idea della lettura “cantata”, nel senso che è bello leggerlo ad alta voce, alla fine sempre di lettura si trattava. Qui invece volevamo tendere a dieci canzoni vere e proprie e anche per le parole, ho lavorato come faccio di solito per scrivere i testi. Quindi, non ti dico che l’ho sentito più mio di quell’altro perché indossare i panni di Carnevali è stato allo stesso modo interessante e stimolante però, indubbiamente, in questo disco sono più al centro, è impossibile negarlo.
Prima hai citato l’Hip Pop: è un mondo che ti interessa? Ne parlavo coi Perturbazione qualche settimana fa, ultimamente c’è una grossa attenzione anche da parte del mondo del rock attorno a questo fenomeno…
Non è un mondo che seguo molto, anche se mi piacciono alcuni artisti come Kendrick Lamar, Earl Sweatshirt o Wu Tang Clan.
Mi intriga molto il loro modo di usare la voce, questo sì. Poi sai, c’è una cosa che mi ha sempre interrogato: noi come Massimo Volume veniamo da un mondo che può essere considerato simile, perché abbiamo sempre avuto il parlato al posto del cantato, ma per questa ragione siamo sempre stati considerati un gruppo tra i più ostici del rock. Dall’altra parte invece, c’è tutto questo mondo Hip Pop che però sembra molto più accessibile, appetibile. Persino la mia figlia grande ne è rimasta affascinata. Allora mi verrebbe da dire che forse c’è qualche trucco che potremmo imparare…
Beh, del resto la tua voce è migliorata tantissimo come intensità espressiva. Forse, se devo fare un unico appunto, è che ogni tanto risulta un po’ troppo dentro il mix generale, e questo impedisce che si colgano tutte le parole…
Ma sai, in fase di missaggio ci sono sempre un sacco di discussioni su cosa alzare, cosa abbassare, per cui poi magari qualcosa ti sfugge. C’è da dire che io conosco bene i testi, per cui mi sembra tutto molto chiaro. Poi, però, succede che arrivi uno come te, che ascolta il disco da poco tempo, e mi dica che non riesce a cogliere tutto, quindi forse il problema un po’ si pone.
In realtà volevamo semplicemente trovare un giusto equilibrio, è probabile che qualcosa qua e là ci sia sfuggito…
Per quanto riguarda invece quello che hai detto prima, credo che se l’Hip Pop va così tanto tra i giovani, è soprattutto per l’immaginario a cui attingono i testi. Voglio dire, le canzoni dei Massimo Volume non si possono capire prima di una certa età, bisogna avere tutto un bagaglio di esperienze, una certa sensibilità; l’Hip Pop, per quanto parli anche di cose molto profonde, lo fa con tutt’altro linguaggio e immediatezza…
Sì, questo è senza dubbio vero. Infatti quando parlavo di avvicinarmi all’Hip Pop intendevo soprattutto dal punto di vista del ritmo, ovviamente non ho intenzione di perdere nulla dal punto di vista della complessità del verso…
Parlerei dei testi, a questo punto. Partendo dai primi due, mi pare che tu abbia voluto partire lì da dove avevi finito, nel senso che sia “Hancock 96” che “Nuccini” raccontano l’esperienza di promozione di “Notturno Americano”, giusto?
Esatto, tra l’altro sono anche i primi due testi in assoluto che ho scritto.
Senti, “Hancock 96” è molto particolare: si capisce che racconti di quando siete stati a Chicago per lo spettacolo, ma allo stesso tempo è un’esperienza molto trasfigurata, sembra ci siano diversi piani di realtà, non è sempre facile capire che cosa stia succedendo… avete fatto davvero questa serata in cima all’Hancock Tower?
Sì, diciamo che ci siamo ubriacati molto, è stata una serata parecchio alcolica. Non mi succede spesso, ma credo sia stato un testo scritto quasi di getto. E’ stata una serata di quelle che ti rimangono in mente, quasi mitiche, direi, di quelle a cui ritorni spesso nei racconti. Anche tra di noi ne abbiamo parlato molto, sia in generale di quei dieci giorni passati a Chicago, sia di quella serata che è stata proprio molto divertente. Mi è piaciuto mescolare un po’ i piani, con Corrado parliamo spesso di che cosa vuol dire fare il musicista oggi, se e quanto faccia ancora guadagnare, che è quello che viene detto nella prima parte. Poi c’è questa cornice che è chiaramente americana… non dovrei dirlo, ma forse c’è un montaggio un po’ strano, nel senso un momento eravamo sulla torre, poi in strada, poi ancora sulla torre… non si capisce bene, però è anche vero che eravamo tutti ubriachi per cui questi cambi repentini forse ci stavano bene (risate NDA)! Mi piaceva anche giocare su un registro più ironico, che non mi appartiene del tutto, anche se poi nel prosieguo la canzone diventa più drammatica.
E’ la stessa cosa che ho voluto fare in “Nuccini”, che riprende sia la forte amicizia che c’è tra di noi, sia la scena musicale nostra. E’ vero che se in questo momento storico abbiamo ancora la possibilità di andare a suonare in giro, è perché la passione non è solo dei musicisti, ma anche di chi organizza i concerti. E’ veramente una scena che si regge unicamente sulla passione. Poi volevo fare un omaggio all’Italia, guardare tutti questi posti che fanno parte del nostro quotidiano e farlo in modo fresco, anche.
Avevi fatto una cosa simile con Fausto Rossi in “Cattive Abitudini”, adesso l’hai fatto con Corrado, ma in generale sono tantissime le volte che citi esplicitamente i tuoi amici nelle canzoni, che li rendi veri e propri personaggi…
Sì, è una cosa che mi piace fare, è come una sorta di omaggio, un segno dell’affetto che ho per quelle persone. Dall’altra parte, però, questo permette di dare loro anche una distanza, una prospettiva che ti permetta di vederli come dei personaggi che possano essere raccontati, che è giusto raccontare. Normalmente con gli amici, la vicinanza fa perdere un po’ la prospettiva…
E ce ne sono tanti di personaggi anche in “La guerra di domani”: c’è ovviamente Leo, c’è Corrado, c’è pure Cesare Basile… lo avete davvero incontrato a Catania, immagino…
Sì, era una data che aveva organizzato lui, quindi ci siamo visti a pranzo ed è finito nella canzone. In generale è un po’ il prosieguo di quello che avevo già fatto con “Aspettando i barbari”, dove c’è un mondo più “storico”, ufficiale, per così dire, ma poi c’è anche il mio mondo privato e i due, in qualche modo, flirtano tra loro. Anche ne “Il cerchio”, infatti, vero che c’è una citazione di Joan Didion, però il suo mondo poi cerco di renderlo mio, più privato, insomma…
Ecco, anche quella mi è piaciuta molto, c’è questa idea che ricorre spesso nelle tue cose, di istanti che determinano il significato di tutta un’esistenza, di destini che cambiano, di vite che si spezzano…
Sì, in questo caso ho espressamente preso spunto da “L’anno del pensiero magico”, che secondo me è il suo libro più bello, ma probabilmente ho elaborato un pensiero che era già mio. Del resto, se c’è un tema che attraversa tutto il disco, è quello della perdita. Lo vedi anche nell’ultimo pezzo, “Quello che ho perso”, che parla della tragedia del Vajont, che però in qualche maniera flirta con una perdita molto più privata, esattamente come succede ne “Il cerchio”.
Il tema è quello, insomma, non dico che sia un concept, non l’ho pensato come tale però poi, riascoltando tutto il lavoro dall’inizio, si capisce che ci sono dieci canzoni e ognuna di esse ha a che fare con una perdita.
Senti, ma perché avete scelto Sorge come nome del progetto? Perché apparentemente non mi pare che c’entri molto con tutto quello che mi hai appena detto…
E’ vero, non c’è un grosso legame però sai, è un nome breve, in qualche modo italianizzato, facile quindi da ricordare, poi c’è tutta una serie di riferimenti storici che lo rendono affascinante…
C’è anche questa cosa curiosa, il fatto che quando ci è venuto in mente come nome e iniziavamo a sondare le prime persone per capirne le reazioni, la risposta era sempre: “E’ orribile!” (ride NDA). Poi ci dicevano che c’era il rischio che la gente si confondesse con Claudio Sorge, quello che scrive su Rumore (ride NDA)… insomma, non piaceva veramente a nessuno!
In un primo momento abbiamo seriamente pensato di cambiarlo, poi però ci siamo impuntati e abbiamo deciso di tenerlo. Sono quelle cose che piacciono molto ai giornalisti, perché c’è il rimando alla spia sovietica, quindi è una cosa di cui possono parlare nelle recensioni, è anche un nome che suona bene, credo che tutto quello che può essere spendibile, quello che ti piace, diciamo che va bene…
E invece il titolo “La guerra di domani”? Posto che siamo già in guerra adesso, da molti punti di vista, qual è questa “Guerra di domani”? Tra l’altro già anche l’ultimo disco dei Massimo Volume si intitolava “Aspettando i barbari”… c’è un po’ come l’idea di un’apocalisse imminente…
Ma no, diciamo che la guerra di domani è la vita, niente di più. La vita, con quello che si incontra, le cose addosso a cui uno va a sbattere, quelle cose lì. E’ un concetto che ho cercato di esplicitare in “Bar Destino”: le cose che si mescolano tra loro, le cose che bisogna vivere, con cui bisogna fare i conti… è una guerra, dopotutto, però è anche molto stimolante.
Te lo stavo per chiedere infatti. In questa canzone hai creato un luogo immaginario, mi pare sia una scelta inusuale per te…
In questo caso sono stato ispirato da “Delirium Waltz”, una poesia di Mark Strand, dove lui fa entrare e uscire da una sala da ballo un sacco di persone che non appartengono alla stessa epoca, ma che fanno tutte parte della sua esistenza, un po’ come il finale di “Otto e Mezzo”, giusto per darti un’idea. Poi, anche se non lo cito esplicitamente, scrivendo la canzone avevo in mente un bar preciso di Bologna dove vado spesso. Mi piaceva mettere insieme una carrellata di personaggi reali e passare una serata insieme a loro, una serata molto particolare che attraversa 49 anni di vita. C’è Leo, c’è Vittoria, c’è mia moglie, c’è il mio editore, c’è Emanuele, che è il mio amico del cuore di San Benedetto, con cui sono cresciuto insieme, c’è mia sorella…
Già che stiamo parlando di queste persone della tua vita, hai fatto anche questa canzone bellissima dove parli della tua famiglia…
Sì, per quella invece mi è venuta in mente una canzone di Tom Waits che sta su “Raindogs”, una delle prime in scaletta, non ricordo il titolo adesso, una canzone dove anche lui fa una sorta di carrellata di personaggi, quella dove cita anche Hank Williams…
Beh, di personaggi interessanti da raccontare nella mia famiglia ce ne sono parecchi, per cui li ho tirati dentro e mi sono parecchio divertito, anche perché ho scritto un pezzo tutto in rima, ed ho fatto un lavoro da artigiano, per così dire.
Alcuni riferimenti sono piuttosto espliciti e su alcune cose non sei stato propriamente discreto: ma non hai paura che qualcuno di loro si arrabbi?
Guarda, mia madre ha litigato con tutta la famiglia, per cui la maggior parte di loro non li vedo da una vita. Ogni tanto mi arriva qualche storia confusa che mia madre sente da qualcuno, ma a parte lei e i miei fratelli non sento più nessuno. Ho anche messo questa foto… ti è già arrivato il cd?
Non ancora, ho ascoltato solo gli mp3 per adesso.
Ecco, quando ti arriverà vedrai questa foto all’interno del booklet, dove si vede tutta la mia famiglia per il matrimonio di mia zia col tizio di Brescia, che cito all’inizio del pezzo, quella del chirurgo che poi si è scoperto non era un chirurgo…
E’ un po’ anche il ritorno ad un certo immaginario narrativo che avevi già raccontato ne “L’ultimo dio”, in particolare l’istantanea finale di tuo padre. Mi è piaciuto davvero tanto quel pezzo…
Sì anche a me, poi è molto bello come Marco l’ha svuotato di parte della musica facendo risaltare meglio le parole. E’ una frase che può apparire pretenziosa (“Mio padre l’ho perso a vent’anni, credeva che sarei finito alla deriva come quei tossici che incontrava alla pinetina. Invece adesso che di anni ne ho quarantotto, sono qui che scrivo versi, mentre le mie figlie giocano in salotto” NDA) però fotografa bene quello che ero a sedici anni. Ricordo ancora mia madre che andava ai colloqui coi professori ed usciva disperata, nessuno a quel tempo era disposto a darmi una lira, invece poi la mia strada sono riuscito a trovarla e questo mi inorgoglisce molto…
Si può dire però che nel tuo caso, quello che ti ha salvato è stata la musica? Il che farebbe dire, pensando anche alle giovani generazioni, che serve anche una passione forte, per essere salvati…
Guarda, te lo stavo per dire io! Ne parlavo proprio recentemente di questo, veniva fuori proprio che sono state la musica e la scrittura a salvarmi, mi hanno indirizzato in un mondo ben preciso e mi sono immerso in quello. Se penso a quegli anni, credo che il mio grosso deficit fosse la mancanza di forza di volontà, non avevo voglia di fare niente però, quando ho iniziato a scrivere e a suonare, mi capitava di passare anche dodici ore di fila in sala prove o sopra una pagina! Una cosa che prima sembrava impensabile, tutto ciò che durava più di un’ora non riuscivo neppure a concepirlo! Evidentemente avevo trovato qualcosa che mi interessava, che mi muoveva. Certo, ci sono anche gli incontri reali, incontri con persone fisiche che ti prendono per mano e che ti cambiano la vita. Ho avuto anche quelli, senza dubbio, ci sono state tante persone che mi hanno aperto la mente e che mi hanno fatto capire che il mondo non era così asfittico come pensavo. E di queste persone ne dovrei citare veramente tante. Però la grande forza io credo sia stata proprio quella di vedere quel mondo raccontato e idealizzato dalla musica e dalla scrittura. Ci sono delle arti figurative, come il teatro o la pittura, in cui sono ancora piuttosto ignorante, ma la musica e la scrittura mi hanno senza dubbio cambiato la vita.
Infatti mi pare che il problema delle nuove generazioni sia proprio che non hanno passioni, non hanno, tranne poche occasioni, un qualcosa a cui vogliono dedicare tutto il loro tempo, la loro vita…
Può essere vero, ma io non sono così pessimista. Credo che la scuola, per dire, abbia il grande compito di spostare il punto di vista dei ragazzi,di far loro vedere un mondo diverso da quello che hanno in mente, un mondo che può essere anche affascinante, che può essere anche misterioso. Perché poi sai, se uno si butta nel mondo dell’arte è perché è attratto dal mistero della vita, una cosa talmente grande che ti sgomenta. Si può essere credenti o meno, ma è innegabile che ci sia un mistero della vita che è lì e ti colpisce. Aiutare a guardare a quello, può indubbiamente essere un inizio.
Ci deve essere qualcuno che ti fa vedere il bello delle cose, ma tu devi anche essere in grado di coglierlo, mi pare…
Esattamente, è così. Comunque sono temi con cui discuto sempre con me stesso anch’io, è un problema che rimane sempre aperto, anche perché ogni tanto ti viene un po’ di scoramento per come vanno le cose…
Invece che cosa mi dici del singolo “Noi facciamo ciò che siamo”? E’ una frase molto suggestiva ma anche non immediata…
Credo che faccia un po’ il paio con “Accetto tutto”. Non direi che abbia a che fare col fatalismo, ma sicuramente con l’abbracciare la vita in un certo modo. In un’altra intervista avevo citato questa frase di un rabbino che sul Muro del pianto diceva: “Ringrazio Dio per le situazioni”. Quindi non per il bene che eventualmente ti dà, ma per le situazioni, per quello che accade, buono o brutto che sia. E questi due pezzi è un po’ come se fossero due capitoli della stessa storia. In “Accetto tutto” c’è un po’ l’illusione (dico illusione perché poi in realtà ho dentro una fragilità estrema) di essere capace di portare sulle spalle tutto quello che mi può capitare. Mi piacerebbe riuscire a tendere a questo, anche se sappiamo bene che a volte la vita ti dà delle bastonate da cui è davvero difficile riprendersi. Comunque l’idea è un po’ questa: “Prendo tutto, basta che mi fate vivere!”.
Poi in “Accetto tutto” ti sei pure divertito ad inserire personaggi immaginari e tuoi colleghi: si va da Voldemort a Darth Vader, da Davide Toffolo a Manuel Agnelli…
Quello l’ho fatto perché mi sono ricordato di un pezzo de i Bachi Da Pietra dove c’ero dentro anch’io, quindi mi piaceva l’idea di fare una cosa simile…
Tornando a “Noi facciamo ciò che siamo”: mi è piaciuta molto questa idea di chiedere aiuto agli scrittori “per sconfiggere questa cosa che mi rode come i denti acuminati di una belva attaccata al centro del mio cuore”: c’è un po’ l’idea che la letteratura possa in qualche modo risolvere i drammi della vita? Ci avevi pensato, scrivendo il brano?
Certamente, per me è così. Nei momenti di crisi leggere, ad esempio, Philip Roth, è senza dubbio un aiuto, mi sembra come che lui mi prenda per mano. Entro nei suoi libri, mi ci ritrovo, c’è una visione del mondo nella quale entro e nella quale sto a mio agio. Non se si possa usare questo aggettivo, però lo trovo “confortevole”, mi dà una mano, insomma. La stessa esperienza la faccio con le poesie di Mark Strand, ma anche con altri autori. Quindi sì, per me la letteratura è davvero un aiuto per la vita, in qualche caso anche più di quello che ti può portare un amico. Vedi, l’amico ha quell’aspetto dell’intimità di cui parlavamo anche prima: è una cosa positiva, ma non sempre ti rende così libero, come invece puoi essere se ti rapporti ad uno scrittore…
Dal vivo che cosa succederà adesso? E soprattutto: perché avete sentito l’esigenza di portare questo disco sui palchi? Potrà sembrare una domanda scontata, ma non credo che lo sia…
Beh a me suonare dal vivo è sempre piaciuto tantissimo, mi piace molto incontrare la gente, il contatto col pubblico… poi bisogna aggiungere che, soprattutto ora, sei vuoi vivere di musica è indispensabile suonare dal vivo, è l’unico modo con cui puoi ottenere certe entrate, non molto alte, ma comunque abbastanza da sbarcare il lunario.
La sfida interessante di questi concerti sarà che, avendo realizzato tutto mediante scambio di file, abbiamo poi dovuto metterci lì con calma, insieme, a capire come riprodurlo sul palco, praticamente imparare a suonarlo! Marco ha fatto una scelta che ho condiviso: quella di suonare dal vivo tante parti del disco, per evitare di venire con un computer. Una soluzione senza dubbio più fredda, quindi possiamo dire che si avvicinerà molto ad un concerto rock. In questo senso, mi pare che avrà l’arma in più di vedere della gente su un palco fare delle cose, sbagliare anche, se succederà…
Insomma, un concerto di musica elettronica, però tra me al piano e Marco che armeggia con tutti i suoi synth, sarà senza dubbio interessante…
Sarete solo voi due, quindi?
Sì, solo noi. Avremo anche dei visuals, realizzati da chi ha fatto il video di “Noi facciamo ciò che siamo” e anche quello di “Bar Destino”. E’ un artista molto bravo, con uno sguardo suo personale che ci ha davvero aiutati molto e che sicuramente ci aiuterà nell’impatto che avrà lo spettacolo.
In effetti l’elettronica è bellissima, però dal vivo ha un po’ questo difetto, che è un po’ tutto registrato…
Eh si, è così, infatti io, che pure la amo molto, preferisco di gran lunga sentirmela su disco…
Ultima domanda, un po’ banale ma te la devo proprio fare, perdonami: i Massimo Volume? Succederà qualcosa in tempi brevi?
Riprendiamo in questi giorni. Abbiamo trovato una nuova sala prove e a breve ci metteremo al lavoro. L’idea è di fare più in fretta di prima, vorremmo chiudere il disco entro l’anno, anche se al momento non abbiamo scritto assolutamente nulla! C’è solo la voglia di farlo, ma ancora non abbiamo idee, non sappiamo nemmeno che direzione dare! Vedremo adesso, mettendoci sotto, che cosa uscirà fuori…
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