Articolo di Sabrina Tolve
Il giorno del giudizio ha tutta una sua storia.
Salvatore Satta (Nuoro, 1902 – Roma, 1975) era conosciuto soprattutto nell’ambito degli studi legali, autore di un immenso Commentario al Codice di Procedura Civile. A 25 anni scrisse il romanzo La Veranda, ma all’epoca il testo non vide la luce perché ritenuto troppo complicato per il pubblico.
Non c’è da sorprendersi, quindi, se il dattiloscritto de Il giorno del giudizio fu trovato in uno dei cassetti della sua scrivania, alla morte dell’autore, nel 1975.
Nel 1977 la casa editrice CEDEM, specializzata in opere giuridiche, pubblica comunque l’opera che non ha nessun riscontro e sembra voler tornare nell’oblio.
È l’Adelphi, un paio di anni dopo, a decidere di riproporre l’opera: ne nasce un caso letterario che porta lo scritto di Satta ad essere tradotto in diciassette lingue e che diventa, in un certo qual modo, una delle pubblicazioni chiave del Novecento.
Un destino che sembra quasi beffare le volontà dell’autore, che nell’opera in questione, scrive:
«Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte».
Ci ritroviamo circondati dal cimitero della città di Nuoro, dominato da una rupe che sembra una Parca: è qui che l’autore incontra ed evoca i morti, uno ad uno, rammendando come un sarto ogni rottura del tessuto cittadino, narrando, descrivendo, accompagnandoci lungo le stradine, i sentieri della cittadina sarda, che diventa adesso un mondo intero.
Il racconto della famiglia Sanna Carboni pare essere la colonna vertebrale d’un corpo costituito da tanti personaggi, che paiono minori, ma che non lo sono affatto.
Tutto il testo è puntellato con maestrìa e crudezza da pene e dolori, e spesso dalla totale impossibilità di comprensione della vita.
Nuoro diventa una cittadina viva eppure desolante, con contraddizioni che riescono a disfarsi solo lungo la via per il camposanto. È davvero un nido di corvi, e un volo di ali nere come su di un cadavere – quello dello scrittore – che ancora deve rendersi cosciente del destino che lo aspetta (e che aspetta tutti noi).
«Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. […] Forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria».
Quello che don Sebastiano continua a dire a donna Vincenza («Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto!») è quello che Satta vuol dire a tutti noi. C’è una tale distanza dalle certezze della vita che quella che rimane, unica e veritiera, è quella della morte.
In questo dipinto reale e nudo della Nuoro del 1900 c’è il dipinto reale e nudo della nostra società, dei nostri sentimenti, delle nostre ipocrisie, delle nostre falsità, della pochezza e della miseria di cui siamo fatti, e con una solennità e un’austerità che tiene tutto questo lontano, c’è il Giudizio, che è semplice rendiconto, ma che è memoria, ed è quindi eterno.
In questo senso, Satta è l’unico uomo sulla terra: è quello che da solo ha visto albe e tramonti, ed è con questo fardello di solitudine che osserva tutto e tutti, con ironia, e con dolore, e che sa, alla fine e solo allora, che queste storie, tutte le storie, sono destinate comunque all’abisso, prima o poi. Eppure…
«Bisogna svolgere la propria vita sino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale».
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