Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Raffaele Concollato e Cesare Greselin
Riguardo agli Elbow, ci sono due cose che non capirò mai. La prima è perché una certa parte della critica del nostro paese si ostini a spendere l’etichetta “Brit Pop” per riferirsi a loro, quando in realtà con le sonorità normalmente associate a questo genere, non hanno mai avuto a che fare; non è che tutto ciò che viene da Manchester debba per forza suonare come gli Smiths o gli Oasis… la seconda, è perché ogni volta che vengono dalle nostre parti (e non accade spessissimo) il pubblico sia composto per una larga parte da inglesi.
È successo anche l’altra sera, nell’ambito del breve tour europeo di “Little Fictions”, loro settimo album in studio, uscito a febbraio, che ha toccato l’Italia per un solo concerto, nella solita, meravigliosa cornice del Vittoriale di Gardone di Riviera. 1700 posti la capienza totale, un sold out mancato e una presenza di facce e accenti anglosassoni in ogni dove.
Che è successo? Gente in vacanza sul lago di Garda che, guarda che combinazione, era anche fan di Guy Garvey e soci? Oppure, cosa molto più probabile, si trattava di quelle non poche persone che vogliono seguire la loro band preferita per più di una data?
Qualunque sia la risposta, il dato che questo fenomeno ha spalancato è uno solo: nel nostro paese neppure un gruppo come gli Elbow riesce a suscitare interesse a sufficienza da riempire un posto così piccolo. Inutile prenderci in giro: senza gli inglesi, il Vittoriale a sto giro sarebbe rimasto quasi drammaticamente deserto.
E allora concedetemelo un’ultima volta, sarò noioso, ma devo dirlo: l’Italia rimarrà sempre questa cosa qui, quel paese in cui gli U2 che rifanno “The JoshuaTree” riempiono per due sere l’Olimpico, dove Springsteen fa strage di gente che non sa nemmeno chi sia Tom Petty e dove Ligabue è ancora considerato un artista rock. Perfetto. In un mondo così, appare dunque naturale che un gruppo come gli Elbow faccia poche centinaia di paganti, all’interno di una location che sì, risulta oggettivamente decentrata rispetto ai posti che contano, ma che adesso come adesso è una delle migliori in assoluto per vedere un concerto come Dio comanda.
Gli Elbow, dal canto loro, di tutti questi ragionamenti se ne fregano. Guy Garvey, i fratelli Craig e Mark Potter, Pete Turner hanno da poco pubblicato il loro settimo disco e, nonostante l’abbandono del batterista Richard Jupp (la prima importante defezione da quando hanno iniziato) si sono ritrovati in splendida forma, desiderosi di aggiungere un nuovo tassello ad un percorso che li ha già visti ottenere molto di più di tutto ciò che una band agli esordi sogna di ottenere.
“Little Fictions” ha ricevuto pareri discordanti sulla stampa specializzata, ma al di là di tutte le critiche che si potrebbero anche fare, riguardo una presunta “commercialità” delle nuove canzoni, rimane che si tratti di un lavoro aperto, solare, con il solito grande lavoro in fase di arrangiamento e il solito quintale di melodie vincenti. Certo, probabilmente è il disco più accessibile che abbiano mai fatto, ed è vero che in alcuni momenti fanno un po’ il verso agli ultimi U2. Detto questo, a parte la cattiveria per cui Bono e compagni dieci pezzi così sono anni che non sono più in grado di metterli insieme, la magniloquenza e la solennità che da sempre caratterizzano questa band sono presenti allo stesso modo, seppure declinate in chiave maggiormente lineare. Il recente matrimonio sembra dunque aver fatto bene a Guy Garvey, sempre ispiratissimo anche in questi nuovi testi.
Il concerto si apre con “AnyDayNow”, che è anche il primo pezzo del primo disco della band, “Asleep in the Back”, che sedici anni fa aveva già fatto capire che qualcosa di molto interessante stava per succedere. Con il suo andamento ipnotico e il ritornello cantilenante, è l’ideale per cominciare a decollare. Già con la successiva “The Bones of You”, che proviene da quel “SeldomSeenKid” universalmente riconosciuto come il grande capolavoro del gruppo (e probabilmente anche quello più venduto) i suoni si irrobustiscono leggermente e noi di fatto siamo già ben lanciati in orbita.
L’acustica perfetta dell’Anfiteatro valorizza in pieno la meravigliosa ricchezza sonora che i sette sul palco (ci sono anche due ragazze che si occupano di cori e violino) riescono a produrre. Ogni singolo episodio è cesellato alla perfezione, si presenta come una piccola sinfonia, la voce di Guy è magnifica, tecnicamente la sua prova è perfetta. Come è prevedibile, ogni brano si regge sull’equilibrio tra gli accordi di piano di Craig e le pennate precise di Mark che da sempre costituiscono la base del sound raffinato e cristallino degli Elbow, sempre perennemente in bilico tra rock classico e jazz. L’elettronica c’è ma è usata pochissimo, giusto per riempire qualche spazio e supportare il drumming del nuovo batterista, che pur essendo un semplice turnista appare perfettamente amalgamato nel quintetto.
Uno show degli Elbow è poi costituito dalla dialettica costante tra due elementi: il gruppo che suona le proprie canzoni, così come previsto dalla setlist del tour e il continuo interagire tra il singer e il pubblico.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere una bella recensione di uno dei primi concerti di quest’anno e c’è stato un passaggio che mi ha particolarmente colpito: “La musica degli Elbow – diceva più o meno il giornalista del Telegraph presente all’Hammersmith Apollo di Londra – ti fa venire voglia di sederti nell’angolo di un pub affollato con i tuoi più cari amici e di parlare delle sorti del mondo.”
E poco prima dell’inizio, chiacchierando del più e del meno, uno spettatore diceva che Guy Garvey è la classica persona con cui andresti a berti una birra insieme.
Ecco, ascoltandolo sul palco, tra una canzone e l’altra, mentre scambiava scherzi e battute col pubblico (soprattutto quello inglese, che era l’unico a non avere problemi col suo fortissimo mancuniano), spiegando l’origine di alcuni dei brani suonati e raccontando di cosa parlavano i testi, mi è sembrato proprio che questi giudizi fossero veri.
In quei momenti la band si eclissava, aspettando pazientemente che il cantante finisse di parlare, ma non era per nulla infastidita. Sono 25 anni che suonano insieme e ci sarà un motivo se sono ancora qui, sempre loro. Guy sembrava voler mettere tutti a conoscenza della sua nuova serenità coniugale (praticamente mai nominata, ma ben presente nei suoi gesti e nelle sue parole), quella cantata con grande sincerità nella title track del nuovo disco, ma allo stesso tempo ha affermato per tutto il tempo quello che è l’essenza del suo credo: la bellezza dell’essere sul palco a suonare con i propri amici, davanti a gente che apprezza quel che fai e che, anche per questo, ti vuole bene; la consapevolezza che un concerto non è mai solamente un concerto, se si ha anche solo la piccola intuizione di quel che si sta facendo.
Di conseguenza, non ci siamo rotti le scatole. Due elementi: le canzoni e le parole, ma l’unità è stata ugualmente percepibile. Anche perché, con un’attitudine così, la bellezza suonata è stata poi letteralmente indefinibile.
È una scaletta che spazia lungo tutti i dischi della band, prendendo almeno una canzone da ogni singolo lavoro, con una comprensibile attenzione soprattutto per le cose fatte dal 2008 in avanti. La sorpresa, nello specifico, è costituita dalla prima esecuzione in questo tour di “Leaders of The Free World”, il brano più “politico” del loro repertorio. Guy ci spiega divertito che avevano smesso di suonarla dopo l’elezione di Obama (e improvvisa un siparietto con Mark per cercare di calcolare per quanti anni effettivamente fosse stata assente) e che adesso, dato i tempi, hanno deciso che fosse il caso di ripescarla. Un brano energico e teso, un’esecuzione tirata tutto d’un fiato che fa da contraltare a “My SadCaptains”, che ha invece il feeling di una ballata da pub irlandese, con tanto di violini in evidenza costituendo uno di quei momenti dove tutto, davvero tutto sembra perfetto, talmente bella da far venire le lacrime agli occhi.
Gli episodi del nuovo disco poi funzionano benissimo e anzi, sul palco acquisiscono una dinamicità maggiore, apparendo più vivaci e meno monocorde rispetto alla versione in studio. Ne guadagnano in impatto soprattutto “Head for Supplies” e il singolo “Magnificent”, ma anche la title track risulta un bel momento, così pure la dolce ballata “Kindling”.
È un qualcosa che va a toccare un po’ tutto il repertorio proposto stasera: dal vivo gli Elbow sono più godibili, potendo giocare maggiormente sulla sezione ritmica e sull’uso della chitarra (da questo punto di vista “The Birds” mi ha colpito molto) facendo venire meno quel fastidioso effetto di uniformità che rischia di assalire dopo un ascolto prolungato.
Nel finale arrivano ovviamente i brani più importanti: su “OneDay Like Days” Garvey invita la gente ad alzarsi in piedi e si assiste al solito accalcarsi sotto al palco, che è ormai diventato un rituale fisso dei concerti del Vittoriale. Il ritornello viene così scandito a più riprese, col cantante che invita anche ad armonizzare la melodia liberamente (era successo anche poco prima e bisogna dire che l’effetto è stato piacevole). Questo maggiore contatto tra artisti e pubblico diventa un po’ il suggello finale di un concerto che è andato ben oltre le aspettative.
Nel primo bis arriva quella “Station Approach” che sembrava essere stata accantonata, poi una delicatissima “Lippy Kids” in cui il grido “Build a Rocket Boys!” risuona alto nel cielo di Gardone.
Quando vengono portati due tamburi, che Guy inizia a suonare per lanciarsi assieme agli altri nel ritmo saltellante di “Grounds For Divorce”, sappiamo che è veramente finita.
Quello degli Elbow è stato il paradigma di tutti i concerti: il fascino della location, la godibilità dello spettacolo, (perché in certi frangenti stare seduti è decisamente meglio) la bellezza della performance, si sono compenetrati a tal punto che nei giorni successivi sarà veramente difficile andare a sentire qualcos’altro.
Un ulteriore punto di merito per chi organizza cose così. Almeno fino a quando sarà possibile farlo…
Photo credits:
[1-2-3-4] Raffaele Concollato
[5-6] Cesare Greselin
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