Intervista e immagini sonore di Antonio Spanò Greco

Un grazie particolare ai fotografi Silvio Carcerieri, Cristina Molteni e Adriano Siberna

Secondo appuntamento dedicato a un giovane “one man band” che ha fatto del blues la sua ragione di vita, ha lasciato la Sardegna per stabilirsi a Milano e suona non solo nei locali ma anche per le vie cittadine. In questo 2017 che sta per concludersi ha dato alla luce un album candidato tra i migliori prodotti blues dell’anno. Jumpin’ up and down di Andrea Cubeddu è un esordio importante, rilevante e affascinante e merita un approfondimento ulteriore.

OT: Ciao Andrea, in primis complimenti per il tuo ottimo album poi mi racconti in che maniera sei riuscito a coniugare la musica blues con la tua personalità? con le tue origini e le tue tradizioni?

AC: Non ho dovuto sforzarmi troppo. Il luogo in cui sono cresciuto, la Barbagia, il centro della Sardegna, è ricca di meraviglie, di storia e tradizioni. Siamo un popolo profondamente ospitale, abbiamo riti e usanze a cavallo tra il cristianesimo e il paganesimo, siamo stati per tanto tempo isolati dal resto dell’Italia e abbiamo creato quindi una nostra identità culturale. Dal mio punto di vista, ci muoviamo parallelamente alla cultura del sud degli USA, del popolo afroamericano. Ma questo ha anche i suoi aspetti negativi. Il blues è nato dalla mia non totale integrazione nella cultura sarda e dal ripudio di alcuni disvalori della cultura stessa. La mia famiglia non è originaria del mio paese, quindi non sono mai stato circondato da una famiglia allargata di nonni, zii e cugini, non ho mai goduto dei privilegi di far parte di una famiglia storica del mio paese, di godere dei legami di amicizia datata tra famiglie, non ho mai imparato il dialetto a dovere, e ho sempre ripudiato la violenza come risoluzione di una contesa. Tutti aspetti che non mi hanno mai fatto sentire totalmente “a casa”. Ho sempre covato dentro di me il desiderio di spostarmi, di trovare un posto in cui avrei potuto sentirmi accettato completamente, in cui sarei stato parte di un qualcosa. Ascoltando il blues, mi sono sentito a casa. I bluesmen di altri tempi si lamentavano delle loro condizioni di vita, intonavano canti di protesta e di ribellione, raccontavano di una fuga verso una terra promessa, verso la libertà. Il blues è semplice. Non facile, sia chiaro, ma semplice. Istintivo, grezzo, liberatorio. Alla fine, mi sono reso conto di avere quella roba lì che si chiama blues dentro, da sempre. Alla mia maniera, certo, dato che ho diverse origini rispetto ai bluesmen americani, ma mi sento parte di questa grande famiglia.

OT: Ti definisci chitarrista italiano, cantante e compositore: quale delle tre senti più tuo e dove pensi di poter o dover migliorare?

AC: Questa definizione era originariamente in inglese, con un significato un po’ differente. “Italian guitar player, singer and songwriter”, dove italian definisce la mia origine (non potevo mettere sardinian, dato che ogni volta che parlo con uno straniero devo necessariamente spiegare che l’Italia ha due grandi isole, non solo la Sicilia) e dove il termine songwriter non è da intendere come “compositore” ma come “cantautore”. La mia musica è principalmente cantautorato. Ho scelto come linguaggio quello del blues, perché è quello che sento più appartenente al mio mondo. Il blues è musica cantautoriale, musica autobiografica. Quindi posso dire che songwriter è la principale, poiché senza l’aspetto autobiografico il mio progetto non sussisterebbe. I tre aspetti sono comunque in relazione stretta, dato che senza voce e chitarra non potrei raccontare le mie storie. L’uno dipende dall’altro, insomma. Per quanto riguarda il miglioramento, non c’è una vera risposta. Ti posso dire che non finisco mai di imparare. Studio sempre, al fine di avere un linguaggio musicale sempre più articolato, che mi permetta di esprimermi al meglio.

OT: Come ti sei appassionato al blues?

AC: Ho scoperto il blues trasversalmente. Ho trovato tracce di blues nella musica rock, genere molto più conosciuto e fruibile in Italia. Sentivo che dietro ai Led Zeppelin, ai Guns ‘N Roses, agli AC/DC, ai classici gruppi che ascoltavo da ragazzino, c’era una matrice comune. E scavando a ritroso, ho trovato il blues. Quello vecchio vecchio, per intenderci. Robert Johnson, Son House, Charlie Patton. Sono rimasto totalmente rapito e affascinato dalla maniera rozza e a mio parere estremamente espressiva di cantare e suonare la chitarra. E mi ci sono buttato a capofitto.

OT: Da un paesino come Orani ti sei trasferito a Milano come è stato l’impatto con la grande metropoli?

AC: E’ stato un bel cambio di vita. Lasciare amici, famiglia, all’inizio non è stato facile. Ma, a mio avviso, fa parte del percorso per diventare un adulto, per acquistare indipendenza e autonomia. Era un passo necessario. A Milano ho imparato a gestire la musica autonomamente, a suonare davanti ad un pubblico, a non aver paura di spostarmi in giro per l’Italia e all’estero portando con me il mio progetto musicale. Milano mi ha aiutato a crescere come musicista e come persona. Grazie, città della cotoletta alla Milanese, e del mio tanto amato riso alla milanese, che ho sempre ignorantemente chiamato risotto allo zafferano.

OT: Chicago? racconta quello che vuoi sulla Windy City

AC: E’ stata un’esperienza indimenticabile. Confrontarmi per la prima volta con il mondo americano, con il popolo che ha inventato la musica che amo e che la suona ancora adesso. Una rivelazione. Ho avuto l’occasione di vedere grandi musicisti all’opera. Mi sono nutrito della loro musica, della semplicità e istintività con cui la fanno, e dell’atmosfera che questa crea, del feeling con il pubblico. Per dipiù ho condiviso questo viaggio con musicisti italiani di spessore, ragazzi che lavorano con la famiglia dell’A-Z Blues, tra i quali l’italo-argentino Gabriel Delta (ascoltatelo, andate a vederlo in live e scambiate con lui due parole). Un maestro di vita, in un certo senso il mio mentore musico-spirituale in questo viaggio a Chicago. Un po’ come Virgilio per Dante, insomma, in questa discesa alle radici del blues.

OT: Differenze tra il mondo musicale che hai trovato in usa e il nostro!

AC: L’unico paragone che mi sento di farti è legato al rapporto pubblico-musicisti. Il pubblico interagisce con la performance. Letteralmente. Spesso risponde anche alle strofe che canti, soprattutto alle domande retoriche. C’è partecipazione e interesse. I motivi sono abbastanza scontati: il blues è la loro musica popolare, e la lingua in cui si canta e la loro. Non avrebbero motivi per cui non farsi trasportare dal racconto di un bluesman. In Italia la lingua inglese è un grande ostacolo, e questo porta una parte del pubblico e dei musicisti stessi a concentrarsi sulla tecnica, sui dettagli. Non è una critica, sia chiaro. Ognuno sceglie il modo con cui fare la propria musica. Questa esperienza In America, come quella recente a Londra, ha rafforzato il mio intento “songwriteristico” riguardo al mio modo di fare musica.

OT: In una intervista hai nominato con Son House, Robert Johnson e Muddy Waters come fonti di ispirazione e di studio; hai altri artisti che ti attirano, incuriosiscono e vorresti approfondire?

AC: Si. Mi sto dedicando allo studio di tanti generi vicini al blues, dalla ragtime alla dixieland. In questo periodo sto dando di matto per i fraseggi dei fiati, come tromba, sax, e clarinetto. Lo stile alla New Orleans, frasi cantate, facilmente ricordabili e orecchiabili. Questi strumentisti hanno un approccio differente rispetto ai chitarristi: costruiscono frasi maggiori a cui aggiungono i colori del minore, in pratica l’opposto di come farebbe un chitarrista. Affascinante.

OT: Tra i bluesman italiani chi ti piace?

AC: Tanta gente. In primis i miei conterranei e fratelli sardi, tra i quali il mio padrino del blues River Of Gennargentu, poi Francesco Piu, i Don Leone, il collega novizio Mirko BigBon Zoroddu. E poi colleghi continentali, come si dice da noi in Sardegna, come Gabriel Delta, BB Chris, Paul Venturi, Angela Esmeralda e Sebastiano Lillo, i T-Roosters. Tutti questi sono musicisti da cui ho imparato qualcosa. Ascoltando la loro musica, o chiacchierandoci, o chiedendo loro consiglio. Alla fine, come mi piace sottolineare, siamo una grande famiglia allargata, noi musicisti del blues.

OT: Mi sembra inutile chiedertelo ma dimmi tre dischi fondamentali?

AC: “E qui casca l’asino”, diceva la mia maestra di italiano delle elementari. Il mio approccio alla musica non è mai stato in relazione ai dischi, ma spesso e volentieri a raccolte di brani, le famose Greates Hits. Anche se ho sempre preferito i video su internet. Voglio essere chiaro da subito. Niente video su “come si suona Son House”, “le frasi preferite di Muddy Waters”, “come si suona Me And The Devil Blues di Robert Johnson”. Giammai. Video di performance live. Come la illuminante Death Letter Blues di Son House, o le varie session di Clapton che suona brani di Robert Johnson. Ho sempre ragionato alla vecchia maniera. I vecchi musicisti imparavano suonando insieme ai musicisti più esperti, copiando e imitando. Una sorta di tramandazione orale-visiva, da musicista a musicista. Non potendo giovare di questo scambio intimo, date le scarse occasioni di vedere bluesmen americani dal vivo e scambiarci due parole, ho pensato caso di approcciarmi al blues nella maniera più vicina a quella passata, per imitazione visiva appunto. Ovviamente, non manca mai occasione di vedere colleghi italiani live, e apprendere da loro il più possibile.

OT: E gli ultimi tre dischi che ultimamente ti hanno colpito, ti sono piaciuti?

AC: Come sopra. Cerco video su internet, scopro nuovi musicisti e se noto alcune caratteristiche che mi affascinano, cerco di farle mie. E questo in continuazione, ogni qual volta ho tempo e energie per dedicarmi allo studio.

OT: Ascolti altra musica?

AC: Si. Tutto ciò che mi può piacere. Tutto ciò che mi può ispirare. Musicisti moderni innovativi come i Black Keys, Jack White con tutte le sue formazioni, o passati, come Louis Armstrong e Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Frank Sinatra. Musica orientale, canti tibetani. Riceviamo input musicali da ogni fronte. C’è musica in sottofondo in ogni locale e negozio. Alla fine si ascolta tutto, volenti o nolenti.

OT: Hai altri interessi?  Cinema, libri?

AC: Ovviamente! Oltre ai classici interessi da giovane contemporaneo, quindi tutto il vasto mondo di cultura pop che ci circonda, mi appassiona tanto lo studio dell’epica greca. Ci sono vari parallelismi tra il mondo dei cantori greci e quello dei bluesmen del secolo scorso: dalla tramandazione orale-uditiva delle storie e della musica, alla vita itinerante, fino ad una caratteristica poco spesso messa in risalto, ma fondamentale, che contraddistingue numerosi musicisti e cantori: la cecità. Sia Omero, che svariati bluesmen l’appellativo “Blind” presente nel nome di tanti) erano ciechi. Nel mondo greco si svilupparono numerose credenze e miti intorno alla mancanza di questo senso. I più grandi indovini e veggenti avevano perso la vista in cambio del dono del prevedere il futuro. Se analizziamo però i dati, razionalmente, è facile capire perché tanti cantori e tanti bluesmen fossero ciechi: al tempo, chi non vedeva non aveva tante possibilità di lavoro, e quindi di sopravvivenza. Era quasi scontato divenire dei cantastorie, dei musicisti, occupazione che non richiedeva necessariamente l’uso della vista.  Cosa ti piace di Milano? Apprezzo la varietà di scelta, il continuo cambiamento, la costante ricerca di nuove idee, il numero spropositato di persone che non conosco. Soprattutto quando suono per strada, mi piace poter relazionarmi con persone sempre diverse. Mi piace non avere aspettative, ma stupirmi ogni volta con qualcosa di nuovo. Ogni volta che suono per strada, o in un locale, ogni volta che esco e scopro un evento nuovo, è sempre una sorpresa. È difficile annoiarsi, insomma.

OT: E cosa ti manca maggiormente di Orani?

AC: La famiglia. I rapporti stretti con le persone, le amicizie di vecchia data. Il senso di appartenenza ad un luogo, ad una comunità. Per quanto quest’ultimo aspetto mi fosse sempre sembrato molto labile, poco marcato, prima che partissi, quando ritorno in Sardegna comprendo il significato della parola casa. Spesso per scoprire sé stessi bisogna mettersi in marcia, viaggiare. You gotta move, diceva una vecchia canzone. Personalmente, credo di aver ancora bisogno di cambiamento. Magari un giorno tornerò a vivere nel mio paese, o comunque in Sardegna. O magari troverò un nuovo posto in cui potermi stanziare. Per ora, non posso stare fermo.

OT: Piatto preferito? vino o birra?

AC: Non ho un piatto preferito. Mangio più o meno di tutto. Non vado matto per il piccante. Ma niente di più. Tra vino o birra, preferisco di gran lunga il vino. Come disse mio nonno, “se il vino e buono, non ubriaca, puoi berne in abbondanza”. Posso coraggiosamente confermare il contrario.

OT: Come nascono i tuoi brani?

AC: Solitamente scrivo prima la musica e poi ci adatto un testo. La musica nasce spontaneamente. Non ho un vero processo creativo definito. In genere, la mia testa partorisce motivetti, che registro sul telefono, cantandoli se non ho una chitarra a portata di mano. Se non ho occasione di registrarli, può capitare che vadano perduti. Ma, se il motivetto è tanto orecchiabile, spesso riemerge durante lo scorrere della quotidianità: quando vado a fare la spesa, mentre lavo i piatti o cucino, mentre cammino per strada. Per il testo, il processo è più complesso. Devo cercare un argomento di cui mi preme parlare, e lavorarci sopra. Ci metto diverse settimane per concludere un testo. È un lungo lavoro di costruzione e distruzione, finché non sono pienamente soddisfatto del prodotto finito. I latini lo chiamavano “labor limae”, lavoro di correzione e revisione continua. Le canzoni ultimate a casa vengono poi provate prima per strada e poi nei locali. Anche se, dopo tante ripetizioni, si va a definire una sorta di “struttura fissa”, ogni brano è in continua evoluzione. Mi annoierei a suonare sempre le stesse cose, uguali.

OT: Delle esperienze avute finora ed escluso Chicago dimmi quella che ricordi più volentieri

AC: Sono appena tornato da un weekend di busking intorno a Londra. È stata un’esperienza magnifica: il pubblico era sempre presente, e si faceva coinvolgere facilmente dalla musica, sia per strada che in un locale di Londra in cui ho avuto la possibilità di suonare una ventina di minuti, il Blues Bar. È gratificante non doversi sbattere tanto, non dover architettare stratagemmi astrusi per tenere viva l’attenzione del pubblico. Mi bastava suonare, e cantare.

OT: E quella che ti ha lasciato con l’amaro in bocca?

AC: Ho tantissimi esempi di sera inconcludenti, dove il pubblico era totalmente disinteressato, o addirittura assente. Dove il gestore del locale, vedendo che la serata non era stata “produttiva”, mi pagava meno della somma pattuita. Dove alla fine mi veniva facile pensare di essere io il problema. Di non essere abbastanza, di non valere abbastanza. Ma sono situazioni all’ordine del giorno. In quei casi, si stringono i denti, e si torna a casa, fiduciosi in un domani migliore.

OT: Ammiro molto chi affronta la strada! ti ricordi la prima volta?

AC: La prima volta fu un giorno di luglio del 2015. Suonavo all’uscita della fermata Porta Venezia della metro rossa. Faceva un caldo torrido. Ero terrorizzato del giudizio altrui, e avevo il sentore che sarei tornato a casa senza un soldo, il che sarebbe stata la prova del mio totale insuccesso come musicista. Può sembrare un tantino esagerato, ma era la prima volta che mi mettevo in gioco seriamente. Non avevo mai suonato, e soprattutto cantato, blues davanti ad un vero pubblico. Mi ricordo che al tempo avevo procrastinato a lungo la mia prima uscita per strada, poiché nessuno dei miei amici e colleghi musicisti aveva il tempo materiale di venire a darmi manforte. È stata una delle prime volte che presi il coraggio a due mani e feci quello che andava fatto. Non ricordo come andò, ricordo solo il continuo imbarazzo che provavo nel cantare, sapendo di non saper cantare bene, e la costante paura di sbagliare qualcosa, perdere il tempo, i soliti dubbi esistenziali del musicista. Mi divertii comunque un sacco, e compresi che poteva essere una fonte di guadagno occasionale, per arrotondare le mie spese a Milano, e per fare conoscenza con la gente più disparata. Non avrei mai pensato sarebbe diventata un’occasione per viaggiare e mostrare la mia musica a così tante persone.

OT: Quante chitarre hai suonato nel tuo Jumpin’ up and down?

AC: Per i brani acustici, una resofonica della Dean e un’acustica della Yamaha. Per quelli elettrici, una Epiphone Casino (quella rossa che uso praticamente sempre per strada), una Stratocaster datata e una Eko Fiesta acustica, sapientemente elettrificata dal collega River Of Gennargentu.

OT: Progetti futuri?

AC: Muovermi. Portare la mia musica in giro per il mondo, farmi conoscere da più persone possibili. In pratica, il sogno di ogni musicista. È un processo lento, ma spero di poter viaggiare tanto con il mio progetto. È passato un anno da quando ho iniziato a suonare per locali, e posso dire di essere soddisfatto dei risultati ottenuti. Ho potuto visitare luoghi dell’Italia che non conoscevo, e addirittura suonarci. Piano piano, allargherò i miei confini.

OT: Hai già scritto nuovo materiale?

AC: Ovviamente. Provo a fare al volo due calcoli: in media, suono i miei brani almeno una volta ogni performance, e performo almeno quattro volte a settimana, tre per strada e una in un locale. Sebbene il mio disco sia uscito a maggio, porto in giro i miei brani dal lontano gennaio scorso. Quindi, undici mesi ad ora. In pratica, ho suonato ogni brano del disco almeno 200 volte live, senza contare le volte che l’ho provato a casa. Sono tantissime. Devo necessariamente scrivere nuovi brani. Anche perché vivo in continuazione nuove esperienze e studio tanto, quindi ho sempre nuove cose da scrivere. Per ora, ho in mano sei pezzi nuovi. Appena ne avrò a sufficienza, inizierò a lavorare sulla registrazione di un nuovo disco. Sono giovane e pieno di energie, non posso fermarmi adesso.

OT: Con chi vorreste suonare?

AC: Attualmente sono soddisfatto del mio progetto da one man band. Ci sono tanti musicisti con cui vorrei poter confrontarmi, per crescere e imparare, ma esternamente al mio progetto musicale. In maniera ufficiosa, ogni volta che ci si incontra con un collega ci si scambiano idee e si discute riguardo alla musica. Ufficialmente, sono poche le volte in cui si suona insieme. Ognuno ha il suo progetto ben definito. Difficile si venga chiamati per suonare nel gruppo di un altro musicista, se non come guest, in serata.

OT: Attingi sempre alle tue esperienze di vita per scrivere i brani?

AC: Si, o per lo meno alle esperienze delle persone a me più vicine, come amici e familiari. Sta alla base del mio progetto cantautoriale, la caratterista autobiografica. Più i fatti raccontati sono personali, e più ci si sente dentro quello che si canta, lo si rivive ogni volta che lo si racconta, e lo si trasmette con più forza. Alla fin dei conti, ho sempre usato la musica per sfogarmi, e per condividere con gli altri le mie tristezze, i miei insuccessi, le mie sfortune, sia in maniera seria e pesata, che in modo ironico. Sono fermamente convinto del potere catartico della musica. Capendo che non si è soli, ma che tutti vivono gli stessi drammi, si vive meglio, con più leggerezza.  Su wikipedia alla pagina di Son House c’è una frase dello stesso Son che dice” Non c’è che un genere di blues, ed in qualche modo equivale a quello che c’è tra un uomo e una donna che si amano… quest’amore, in certi giorni, ti fa sentire triste e malinconico… ed è qui che si parla di blues!”

OT: Dammi la tua definizione di blues?

AC: Ci sono vari aspetti del blues. Son House era un prete Battista, quindi, come dice in Preachin’ Blues, “I wonna be a baptist preacher, so I won’t have to work”. Non ebbe mai problemi di soldi, ergo poteva vivere il lato più sentimentale del blues, quello legato ai dolori del cuore. Mentre Howlin’ Wolf aveva un parere differente: era nato povero e doveva preoccuparsi di sopravvivere. In un live ebbe un diverbio appunto con Son House, sul concetto di blues. Disse “quando non hai soldi, hai il blues. Quando non hai soldi per pagare l’affitto, hai ancora il blues. (…) quando non hai soldi, non puoi pagare l’affitto e non puoi comprare da mangiare, hai sicuramente il blues”. A mio parere, il blues è tutto questo. Tutto ciò che ti causa dei problemi, ti dà da pensare. Tutto ciò che ti tormenta quando sei desto e che offusca i tuoi sogni durante la notte. Può essere un problema di soldi, d’amore, di dipendenze da alcol o droga. Un litigio con un amico, una contesa tra vicini di casa, un due di picche, un esame universitario andato male. Il blues è sofferenza. Ma al contempo è consapevolezza, razionalizzazione della sofferenza stessa. Comprendi dove vivi il tuo blues, comprendi i tuoi problemi, e ci lavori su. Questa è la parte che mi ha fatto innamorare del blues. Il ritmo incalzante, il continuo intervallarsi tra maggiore e minore. Il blues è un lamento sofferto ma costruttivo. Si è quasi fieri di soffrire. La sofferenza si trasforma in esperienza, e l’esperienza in saggezza. Si fa tesoro degli errori passati e si cresce. Ecco che cos’è per me il blues.

OT: Domanda molto personale: ma a Como, Cernobbio se mai venuto?

AC: Si suona dove si può. Ho contattato alcuni locali della zona, ma tra quelli con la programmazione al completo e quelli non interessati, non ho mai avuto serate. Chissà, magari in un futuro prossimo, riuscirò ad organizzare qualcosa.

 

Jumpin’ up and down non è esattamente l’esordio di Andrea perché nel 2016 ha fatto uscire un EP “on the street” i cui cinque brani verranno inclusi nel suo CD composto da un totale di dodici per quasi un’ora di musica tutta originale (e scusate per un esordiente non è poco). Andrea ci mette testa, cuore e anima realizzando canzoni intrise di passione ispirate alla propria vita. Riesce a coinvolgerci ed emozionarci sia con i brani più ritmati come l’iniziale I sold my soul to the devil, vera e propria dichiarazione d’intenti o con Blues in my veins, canzone sulla sua nuova vita da artista, oppure Traveller Blues dove la sua condizione da viaggiatore musicale  viene evidenziata da una sovra incisione  di chitarra solista che mi riporta alla memoria un grande del blues italiano scomparso da poco Roberto Ciotti; sia con i brani più lenti e pacati, pieni di fascino e fraseggi chitarristici mai banali che denotano sia la preparazione tecnica che la bontà della musica come Release your soul, Blues is gone o la finale e sofferta Unlucky in love. Andrea merita attenzione, sono sicuro che saprà darci nuove emozioni, bluesman d’altri tempi e personaggio che personalmente ammiro molto: trovo che abbia molta determinazione, coraggio e voglia di raccontarsi suonando la musica che adora. Appena capiterà nelle vostre piazze ascoltatelo e lasciatevi trasportare dalle sue sonorità.