Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Ivan Licheri

Non avrei mai creduto che questo tour in solitaria di Neal Morse sarebbe passato da noi. L’ex Spock’s Beard, piuttosto popolare con i Transatlantic, lo è molto meno per quanto riguarda la sua carriera solista e, al netto dei tre passaggi negli ultimi anni, in Italia lo abbiamo visto veramente molto poco. A questo giro, poi, di Prog non ci sarebbe stata traccia: il musicista americano avrebbe girato da solo, per presentare le canzoni del suo repertorio e dell’ultimo “Life & Times”, in una veste molto più intima e raccolta, lasciando per una volta da parte le suite chilometriche e i passaggi strumentali più arditi. 

“Life & Times”, uscito a febbraio, è infatti un’incursione di Morse nei territori della tradizione rock americana, una raccolta di canzoni semplici e immediate, dal mood prettamente raccolto e arrangiate in maniera tradizionale. Niente di eclatante per la verità, considerato che la sua enorme prolificità come autore non lo rende sempre in grado di sfornare capolavori. Si tratta tuttavia di un disco piacevole, che si ascolta volentieri, realizzato con la passione e la sincerità che da sempre contraddistingue l’artista di Nashville.


Il Blue Rose Saloon di Bresso, base logistica di quella Rocker Sound Agency che ha organizzato l’evento, non è pieno ma il colpo d’occhio è comunque positivo, viste le considerazioni che facevo all’inizio. È prevalentemente un pubblico di appassionati, età media piuttosto elevata (questa musica non è più roba per giovani e probabilmente non ritornerà mai ad esserlo), ma la loro dedizione alla causa renderà questa serata caldissima, tanto che lo stesso Neal si sorprenderà più di una volta, arrivando quasi alla commozione, per l’affetto trasmessogli dal pubblico.
È un concerto che si è tenuto per miracolo: nei giorni precedenti, tra scioperi e voli cancellati, la data di Amburgo era saltata e, come ha spiegato lui stesso dal palco, anche quella di Milano è stata in dubbio fino all’ultimo. Per fortuna poi le cose sono andate diversamente e il concerto si è tenuto senza problemi.
Si parte alle 21.30 spaccate con “Songs of Freedom”, canzone nuova dal testo autobiografico, che racconta di come lui e suo fratello Alan (con cui ha fondato gli Spock’s Beard) si sono avvicinati alla musica.
Neal suona la chitarra e la tastiera, si aiuta ogni tanto con la Loop Station, registrando di volta in volta tracce di chitarra, percussioni o vocals, che danno spessore a quello che sta suonando in quel momento. Rimane comunque uno spettacolo acustico, estremamente cantautorale, dove i vari episodi si alternano a brevi monologhi che aiutano ad entrare meglio nell’atmosfera del nuovo disco.


È proprio questo, a mio parere, l’aspetto più interessante dello spettacolo, il motivo per cui valeva la pena esserci: al di là del valore musicale della proposta (lui è un grandissimo performer anche da solo, quando canta e imbraccia la chitarra acustica ma è evidente che il suo repertorio si gode molto di più se suonato dalla band al completo), la possibilità di vederlo ad un metro di distanza, quasi come se si fosse nel salotto di casa, la possibilità di guardarlo negli occhi mentre suona, di essere guardati a nostra volta, rende questa serata una condivisione di esperienze, più che un concerto vero e proprio.
Tanti gli aneddoti raccontati: il day off in Lussemburgo durante il quale è stata scritta “Selfie in the Square”, frutto di una passeggiata ad osservare persone e cose, a guardare colori e a muoversi sereno in un posto sconosciuto. Poi, la mancanza della moglie e l’invio di un selfie sulla piazza, proprio per sentirla più vicina. E durante l’esecuzione di questo pezzo c’è anche un siparietto divertente perché, arrivato alla parola “Yellow” nel testo, Morse comincia un bizzarro medley con alcune canzoni che ruotano attorno al tema di questo colore. Parte felicissimo con “Yellow” dei Coldplay e rimane totalmente basito quando, fermatosi per far cantare il ritornello al pubblico, si accorge che nessuno lo segue (eh, questi progster monotematici!); si ritrova quindi costretto a ripiegare su un classico di sicuro effetto come “I’m the Walrus” (questa la cantano tutti a squarciagola) dopodiché qualcuno gli suggerisce “Goodbye Yellow Brick Road” e sono di nuovo tutti contenti.


Davvero toccante il momento in cui suona “He Died at Home”, dedicata ad un soldato morto suicida dopo essere tornato dal fronte. È un pezzo bellissimo, forse il migliore dell’ultimo album, il racconto di una vicenda profondamente umana, lontano da ogni retorica antimilitarista, profondamente immedesimato nel dolore di una madre che ha perso il proprio figlio. Talmente intensa l’esecuzione, che Neal non riesce a trattenere le lacrime e arrivato alla fine deve asciugarsi gli occhi con un fazzoletto.
Il mood cambia con la successiva “Manchester By the Sea”: il racconto che ci viene fatto dice di un brano nato proprio nella città britannica, durante il tour del precedente “The Similitude of a Dream” (inutile dire che alla domanda su chi fosse riuscito a vederne una data, alziamo le mani tutti). In quell’occasione, l’energia positiva che aveva dentro in quei giorni si era tramutata in quella canzone. Dopo avere scritto il ritornello però, guardando su Google Maps, si era reso conto che Manchester non era per nulla sul mare! E qui, tra le risate dei presenti, ironizza sulla proverbiale ignoranza degli americani in materia geografica. Il tutto però senza ricordare che due anni fa era uscito un film che portava lo stesso titolo: vi si sarà inconsciamente richiamato? Impossibile dirlo…
Oltre ai brani dell’ultimo disco, parte del concerto viene dedicata al suo repertorio solista e a quello dei Transatlantic, con una scaletta che varia molto liberamente di sera in sera (a Bresso gli Spock’s Beard non sono stati rappresentati).


Emozionante “Temple of the Living God”, così come anche “Bridge Across Forever”, suonata alla tastiera e cantata da tutti i presenti. Interessante come, pur avendo pochi mezzi a disposizione, riesca lo stesso ad inserire qualche passaggio in stile Prog, spesso aiutandosi con i Loop.
Nel finale arrivano una toccante “Jayda”, la ballata dedicata alla figlia, nata con una malformazione al cuore e guarita dopo un difficile intervento chirurgico. Un episodio narrato in “Testimony pt. 2” e che ha molto contribuito ad avvicinarlo alla religione cristiana.
Poi un interessante medley tra “So Far Gone” e “Stranger in Your Soul”, a cui l’utilizzo di percussioni e parti vocali mandate in Loop dona un’inedita impronta Spiritual tribale.
Bello anche quel che succede nei bis: Neal attacca con il ritmo incalzante di “Sing It High” ma poi lo sguardo gli cade su una ragazza in prima fila e si ricorda che costei nel pomeriggio gli aveva detto di voler ascoltare “Somber Days”. Detto fatto, si ferma ed esegue quel pezzo, con l’atmosfera che, trattandosi di una ballad malinconica, cambia in modo radicale. A questo punto i tempi sono maturi per un’altra richiesta e questa volta è “We All Need Some Light” ad essere eseguita, con comprensibile sing along, per un brano che forse è quanto di più potrebbe rassomigliare ad una hit, in un genere che certo non ha dimestichezza col formato del singolo.


Siamo alla fine, purtroppo. “Sing It High” trasforma il Blue Rose in una chiesa dove è in atto una messa Gospel e tutti, credenti e non, si uniscono per pochi minuti in quello che è senza dubbio un canto di amore e liberazione.
Sono state quasi due ore di grandi emozioni. Ammirare Neal Morse in questa veste ha voluto dire conoscerlo un po’ di più, dare uno sguardo ad un aspetto della sua musica che, pur molto presente all’interno della sua proposta, non è mai stato isolato ed esplicitato così tanto. Ce la ricorderemo a lungo, una serata del genere. Anche perché immaginiamo che sarà difficilmente ripetibile in tempi brevi.