I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Non sono mai stato convinto che la musica debba obbligatoriamente avere una mossa politica perché in fin dei conti un artista, con la propria arte, ci fa quello che vuole. Ma che un artista debba essere sincero ed esprimere ciò che gli sta a cuore, ciò che sente come urgente in quel determinato momento, questo sì. Per cui ben venga anche la politica, nella misura in cui non si appiattisca in una sterile battaglia ideologica ma nasca da un serio confronto con la realtà. I mantovani submeet, da questo punto di vista, sono una band politica, esattamente come lo sono gli Algiers, gli Idles o gli Sleaford Mods. Stanno cercando di dire la loro sul mondo che hanno di fronte, sulla realtà in cui si trovano immersi, con la convinzione che scrivere canzoni, inciderle su un disco e portarle sul palco, non costituisca il rimedio ai problemi ma possa comunque contribuire a portare un po’ più di chiarezza e di positività alle persone. Pazienza se poi i temi trattati non sono proprio così allegri e se il loro sguardo sulle cose non è poi così ottimistico. Credono in quello che fanno e lo fanno bene, questo è abbastanza.
Aggiungiamo che suonano un genere sempre attuale e sempre in voga, potenzialmente inesauribile e aperto ad infiniti prestiti e suggestioni. Si parte dal grande calderone del Post Punk, mescolandolo col Noise, con l’Industrial, in un affresco a tinte scure e dalle forme contorte, dove Preoccupations, A Place To Bury Strangers e Girl Band convivono in un disco monolitico, che non lascia spazi per rilassarsi e che, allo stesso tempo, ci mette davanti alle nostre ossessioni e paure. “Terminal” è il loro primo disco, parla di aeroporti e questa è una band potenzialmente in grado di diventare grande. Ne abbiamo parlato con Andrea Zanini (voce e basso), Andrea Guardagbashaw (chitarra e voce) e Jacopo Rossi (batteria).

Per cominciare, il disco mi è piaciuto tantissimo, vi faccio i miei complimenti! Avevate già fatto uscire un Ep in precedenza. Cos’è successo nel frattempo?
AZ: Ti ringrazio! Il percorso si è svolto in un paio d’anni. Da quello che facevamo a quello che facciamo oggi siamo cresciuti, abbiamo iniziato a lavorare e abbiamo iniziato a stancarci un po’ della vita in generale. Questo mood lo abbiamo applicato ai nostri ascolti abituali e anche a quello che suoniamo di solito. In partenza c’è tutta la ricerca del suono, che abbiamo voluto rendere più aggressivo, industriale, noise, comunque vogliamo chiamarlo. Tutto questo, applicato al tema dell’aeroporto, che per tanti motivi mi è famigliare: sono per metà spagnolo quindi viaggio molto, almeno un paio di volte all’anno sono in aeroporto; e poi ci sono musicisti che apprezzo, che hanno trattato questo tipo di tema, come i R.E.M. e Brian Eno. Nel momento in cui ho iniziato a scrivere i testi, mi è venuto in mente che avremmo potuto parlare di questo, visto che, almeno in Italia, praticamente nessuno l’aveva ancora fatto. Ne ho parlato con gli altri e anche a loro stava bene…
AG: In realtà l’aeroporto in sé e per sé funziona come espediente per esprimere concetti più profondi, vero?
AZ: Abbiamo voluto utilizzare questo “non luogo”, come molti lo definiscono, fatto di pieni e vuoti, di rumori, di gente che parla, applicandolo al malcontento che proviamo ogni giorno da qualsiasi punto di vista, dal sociale al personale. Diciamo dunque che i nostri tormenti li abbiamo espressi in maniera abbastanza elegante. E poi ci sono i titoli delle canzoni, scritti utilizzando tutta una serie di metafore legate a questo luogo, in modo da poter esprimere in forma figurata il nostro disagio. C’è ad esempio “Capsule Hotel”…
AG: Oppure “Nimby”, che parla di ambiente…
AZ: Sì, o comunque una canzone con forti connotati anticapitalistici…
JR: Parliamo anche di quella canzone che non citiamo mai, che è quella con la sigla… (“Ra815 REV. 0” NDA) che numero è nel disco, la 7?
AZ: La 8
JR: Esatto, la 8. Praticamente quello è il codice della safety card della Ryan Air, hai presente? Quella scheda dove ci sono tutti i sistemi di sicurezza di un aereo. Ecco, quella canzone tratta anche l’argomento dei soprusi lavorativi. Parla di questa hostess che viene sopraffatta, mercificata, anche sessualmente sfruttata… c’è insomma questa tematica della frustrazione dell’operaio, in generale.

E invece “Makkahtronic”, che è il mio pezzo preferito?
JR: Più in generale parla del capitalismo… dai, spiegagliela te, Zanna…
AZ: Ho unito la parola Meccatronica con La Mecca. Nel testo cerco in maniera ironica di deificare tutto il processo industriale che prevede la compravendita online, la produzione in serie, la spedizione e quindi sembra che tutti idolatrino questo sistema… una cosa tipo Amazon, no? La critica è quella che vengono prese persone comuni e le si rende discepole di questo grande culto del capitalismo odierno che poi, grazie ad Internet, va sempre più veloce, ormai.

È un aspetto molto affascinante, in effetti. È come se stesse riaccadendo, in una forma più accelerata ed invasiva, quello che successe negli anni ’50 e ’60 col boom economico e con l’avvento della pubblicità, a cui era collegata la creazione artificiale di bisogni…
AG: È come se fossimo alle soglie di una nuova rivoluzione industriale…

Esattamente. Una rivoluzione che estremizza ancora di più certe dinamiche. Tutte cose che peraltro oggi conosciamo bene. Voglio dire, la prima inchiesta approfondita di come funziona un magazzino Amazon l’ho letta almeno quattro anni fa, mi pare (posto che poi sia davvero tutto così perché poi, nello specifico, ho sentito anche pareri diversi). In ogni caso, il sistema è talmente pervasivo che è difficile staccarsi. È come se fossimo divenuti tutti dipendenti da un certo tipo di commercio, di modalità di acquisto… come se ne esce, secondo voi? Perché in qualche modo un disco del genere potrebbe servire a costruite un’alternativa, forse…
JR: Io credo con la passione. Mentre ti ascoltavo pensavo a questo: Io non ho i mezzi per dare una soluzione vera però quello che aiuta me e i submeet in generale è la passione, vale a dire il tentare di fare le cose al meglio. Un altro dei temi centrali di “Terminal” è proprio il discorso, come diceva Andrea Guardabascio, che siamo un po’ tutti “depersonificati”. Quindi dovremmo iniziare ad avere un’identità propria, a pensare con la nostra testa. L’invito è quello di usare il cervello, insomma. Ormai ci siamo dentro, in questo sistema, non è che si possa fare più di tanto per eliminarlo o per farne a meno. Però, con l’impegno personale, con la passione, con l’intelligenza, si può lavorare per rendere il mondo migliore, ecco.
AZ: Per come la penso io, arrivati a questo punto è impossibile fare marcia indietro, a meno che non succeda un fatto talmente grave da scuotere le menti e portarle verso l’innocenza e l’onestà di fondo. Perché io credo che ci sia bisogno di onestà e presa di coscienza di quello che si fa. Noi vediamo le cose attraverso gli occhi della negatività, siamo spettatori del fatto che tutto va male, quindi che uno prenda e ascolti l’album, legga i testi e capisca come mai un gruppo come il nostro, che siamo di Mantova, che viviamo in uno dei posti più inquinati d’Italia, dove c’è la percentuale maggiore di smog, di inquinamento, una percentuale alta di tumori tra le persone… è un po’ una risposta al mondo in cui continuiamo a vivere, un campanello d’allarme che abbiamo voluto imbastire in forma di musica, oltretutto la musica perfetta per poterlo fare. Una soluzione concreta, come diceva Jacopo, è impossibile finché la gente non avrà un’onesta presa di coscienza di quello che sta facendo e si laverà via quella pigrizia di fondo che permette di abboccare al bisogno, visto che veniamo continuamente fulminati dal bisogno e la gente continua ad abboccare. È anche un problema di istruzione: molta gente usa Internet senza saperlo usare, tra l’altro è una cosa che esiste da molto tempo quindi se nessuno ha ancora preso provvedimenti, un motivo ci sarà, probabilmente fa comodo vivere in una situazione del genere, in questo comfort continuo.

È vero quel che avete detto, la vostra è davvero la musica perfetta per questo tipo di messaggio. Com’è che riuscite a tirare fuori queste atmosfere così stranianti. E poi mi piacerebbe capire tutto questo aspetto del Noise perché, ad esempio, la coda finale di “Audiodrome” è splendida, è impressionante il modo con cui vi lasciate andare… c’è proprio questa sensazione di angoscia, nelle vostre canzoni, che è davvero affascinante…
JR:Intanto grazie per la domanda perché, stranamente, nessuno ce l’aveva ancora fatta e quindi siamo contentissimi di parlare dei motivi per cui, fondamentalmente, abbiamo fatto l’album, che è poi suonare (risate NDA)! Facciamo che ognuno parla del suo strumento, ok?
AZ: La nostra musica nasce in maniera industriale. La prima cosa che senti quando entri in un’industria sono i rumori, giusto? Quindi partiamo da qui, da una parte rumoristica, una sorta di declinazione in musica del Futurismo di Marinetti…
JR: Più banalmente la parte ritmica, come avrai potuto notare, non segue le linee del rock alternativo, è più indirizzata sugli schemi dell’Industrial o dell’elettronica, rievoca un po’ quelle cose dei Kraftwerk, quelle cose lì. Ad esempio “Makkahtronic” è un frammento di dieci secondi che viene poi mandato in loop. Sono rumori ridondanti che si ripetono e che creano macchinosità.
AZ: Dopo arrivo io, che suono il basso e succede che alla locomotiva portata avanti dal batterista, aggiungo suoni metallici, con tanti effetti, soprattutto il Fuzz, e spesso e volentieri in controtempo. Però non suono il mio strumento in maniera canonica, diciamo che lo faccio come Jacopo suonerebbe la batteria. Il fatto è che poi a tutto questo si aggiunge la pazzia dell’uomo che ho di fianco, che sarà lui a concludere la domanda, perché è lui che fa tutto il casino (risate NDA)…
AG: Gran parte del Noise è dovuto al basso ma anche alla batteria, per tutta l’energia che impiega sui suoi fusti…
JR: E un Raid da 24 pollici (risate NDA)!
AG: Per quanto riguarda me, diciamo che mi adeguo! Dal momento in cui entriamo in sala prove, i protagonisti sono Jacopo e Zanna, con la loro sezione ritmica…
AZ: Possiamo dire praticamente che basso e batteria fanno lo scheletro, mentre il chitarrista con la chitarra dipinge…
AG: Le mie ispirazioni da chitarrista partono dai Sonic Youth, che sono il mio punto di riferimento principale, la mia band della vita. Poi tutto quello che viene dopo, lo Shoegaze, My Bloody Valentine, fino ad arrivare ai giorni nostri, Oliver Ackermann, A Place To Bury Strangers, ecc. Mi piace creare degli ambienti, piuttosto che fare parti virtuose, da chitarrista tecnico… oddio, se volessi potrei anche farlo, invece…
JR: Invece fai il Dj (risate NDA)!
AG: Piuttosto che gli assoli, faccio dei clangori noise, dei raptus di casino…
JR: Potrebbe semplicemente mettere la chitarra per terra e tenere in mano la pedaliera (risate NDA)…
AG: Ci sono anche dei pezzi dove ho messo dei tecnicismi, però, come ad esempio in “White Arms”, che ha tutta una serie di riff…
AZ: Concludo dicendo che nessuno dei tre sa suonare il proprio strumento, nel senso che siamo tutti autodidatti, nessuno di noi ha mai veramente imparato. Quello che facciamo, lo facciamo perché abbiamo qualche problema in testa per cui, non so perché, ci viene fuori un tempo a 7/8 e cose così. Lo facciamo perché le dita…
JR: E soprattutto perché lo scopriamo dopo, che è quella cosa lì: ci viene fuori in un modo e diciamo: com’è che si chiama questa cosa in musica (risate NDA)?

Dal vivo come diventa, tutto questo? Immagino che sia ancora più fragoroso…
AZ
:
Di solito sì, perché non abbiamo cognizione, da buoni mantovani (risate NDA)…
JR: Nei nostri live partiamo sempre abbastanza modesti, anche perché tendiamo ad avere un po’ di ansia da prestazione, siamo un po’ agitati, per cui tendiamo a partire un po’ ingessati. Poi però arriviamo alla fine che siamo il peggio del peggio. Non sappiamo cosa succederà, è sempre una sorpresa, per noi e per gli altri… spesso la gente ci dice: “Ma cosa avete fatto!” E per quanto riguarda “Audiodrome”, che prima citavi, ne andiamo molto fieri perché si tratta di un pezzo registrato totalmente in presa diretta. Sono dodici minuti e passa di registrazione ininterrotta, tranne la voce, che è stata aggiunta dopo. È stata una performance, praticamente, esattamente come dal vivo!

Sentite, ma com’è questa storia che siete “la band preferita dai Preoccupations”?
JR: Beh, preferita è un po’ esagerato (risate NDA)…

Però l’avete scritto anche nelle note stampa, quindi qualcosa di vero ci dev’essere! Non vi chiedo se sono un punto di riferimento per voi perché ascoltandovi appare chiaro, però mi piacerebbe sapere se li conoscete, se veramente vi hanno ascoltato…
JR: Capiamo la curiosità! Ci conosciamo, sì! È successo che il nostro Andrea Zannini di mestiere fa il grafico, lavora con la Glitch Art, che è l’arte di distorcere i video in analogico. Il batterista dei Preoccupations, che tra tutti è quello che ha più progetti, è una figura molto estrosa, molto fantasiosa, si è incuriosita di questi lavori e ha contattato Andrea complimentandosi. Per cui, siccome avrebbero dovuto suonare a Ravenna e noi saremmo dovuti andare a vederli (in realtà ci sono andati loro due, io non potevo a causa del mio lavoro), si sono messi d’accordo per parlarne di persona. Quindi sono andati e l’hanno pure incontrato in spiaggia al pomeriggio…
AG: Eravamo lì che fumavamo una sigaretta appena fuori dall’Hana Bi, dove c’è il Lido e in lontananza ho visto questa sagoma di quest’uomo alto, biondo e l’ho riconosciuto. Al che io e Andrea siamo andati a salutarlo e abbiamo passato la serata insieme con tutta la band, anche dopo il concerto. All’epoca era già uscito il nostro primo Ep per cui gliel’abbiamo dato. Dopo un po’ di tempo ci hanno ricontattato dicendoci che gli era piaciuto molto e, siccome avrebbero dovuto venire in Italia a promuovere “New Material”, ci hanno detto che gli sarebbe piaciuto che potessimo aprire tutte e quattro le date che avrebbero fatto. Per noi è stata una sorpresa incredibile, ci è venuto un mezzo infarto (risate NDA)! Abbiamo scritto a tutti ma siamo riusciti ad aprire solo la data di Bologna perché conoscevamo gli organizzatori. C’era tutta una questione di Booking per cui, a causa degli accordi che erano stati presi, noi non abbiamo potuto suonare…
JR: Provocando stupore nei Preoccupations stessi, che si aspettavano che le cose fossero più semplici, visto che ce l’avevano chiesto loro…

So che di recente avete suonato a Carpi, a Roma e a Parma, in apertura ai Molchat Doma. Non li conosco…
Te li consigliamo vivamente! Sono bielorussi, ed appartengono alla scena Russian Wave, che è praticamente una Cold Wave cantata in russo. Sono molto semplici, molto minimali ma davvero di buon gusto! Più avanti suoneremo il 20 marzo a Verona, assieme ai nostri amici Century Reverb e all’altro gruppo di Andrea Zannini, che fanno Post Hardcore. Poi al Cinasky e il 10 aprile all’Arci Tom, sempre a Mantova.

Niente Milano, quindi?
AZ: Ci stiamo lavorando! Speriamo di riuscire a combinare qualcosa a breve!