I N T E R V I S T A / R E C E N S I O N E


Articolo di Antonio Spanò Greco

Heggy Vezzano, Andrea Caggiari, Leif Searcy e Niccolò Polimeno hanno in questi giorni dato alla luce Loud primo capitolo del progetto Holebones. “Quattro musicisti nati e cresciuti nel caldo abbraccio della Black Music decidono di fondere le loro personalità in quello che è stato l’origine di tutto: il Blues” frase introduttiva tratta dalla loro pagina social. Ringraziando Andrea e Niccolò per aver risposto alle mie semplici domande, vi introduco alla mia breve intervista per illustrarvi il progetto Holebones cui segue la recensione dell’album.

Come nascono gli Holebones?

Andrea: “Io, Heggy e Leif suonavamo insieme da un po’, concerti nei locali e repertorio blues, poi con il lockdown, confinati in casa, abbiamo iniziato a buttare giù delle idee, si è concretizzato il tutto al Nolo Recording Studio con l’aggiunta di Niccolò Polimeno (chitarrista e co-proprietario dello studio insieme a Matteo Gilli). È stata la naturale evoluzione delle cose, forse ci ha aiutato anche il fatto che non potendo suonare in giro eravamo alla ricerca di un modo per esprimere la nostra musica”.

Come sono stati scelti i brani?

Andrea: “Sette sono classici del Blues, alcuni li abbiamo scelti per affezione, tipo Catfish e Rollin’ And Tumblin’, li abbiamo sempre suonati ma con una veste più “tradizionale”, altri li abbiamo scelti per il testo come “Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around”. Poi c’è Black Man, scelta sia per il messaggio che comunica sia per l’autore, Stevie Wonder, un grande uomo a cui tutti noi siamo molto legati”.

Come sono andate le registrazioni degli stessi? In presa diretta o con sovraincisioni?

Andrea: “Ci siamo chiusi in studio per due settimane, come ai vecchi tempi. Siamo partiti dalle pre-produzioni che avevamo registrato in home recording, abbiamo affinato gli arrangiamenti e siamo partiti a registrare prima le batterie poi tutti i bassi, chitarre e voci. Successivamente abbiamo sovrainciso ulteriori parti di chitarra, synth e voci. Alcuni brani come Death Have Mercy sono stati scelti direttamente in studio, arrangiati e registrati di getto”.

Niccolò: “Il tempo speso insieme è stato fondamentale. Dal momento in cui ci siamo trovati tutti e quattro in studio abbiamo rimesso mano a tutti gli arrangiamenti ed è partita la fase di ricerca del nuovo sound. Pur non registrando dal vivo (a parte Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around dove batteria, basso e chitarra d’accompagnamento le abbiamo registrate live) la maggior parte delle take sono state tenute buone dall’inizio alla fine e questo ha contribuito a dare al disco un sound vivo”.

La scelta del nome della Band e del titolo dell’album?

Andrea: “Holebones è la traduzione letterale di ossi buchi, siamo tutti di Milano e siamo molto legati a questa città. Il nome è nato una sera a cena, purtroppo non stavamo mangiando il risotto all’ ossobuco…. Loud sottolinea il suono del disco che, diciamo, non è proprio “sottovoce”. Crediamo inoltre che alcuni dei testi più impegnati in questo disco siano ancora da urlare dato che temi come il razzismo, purtroppo, sono ancora troppo attuali”.

Niccolò: “La voglia e il bisogno di fare un disco “urlato” sono il risultato della frustrazione derivata dalla prima quarantena di primavera 2020. Ci siamo sentiti tutti molto spaesati in quel periodo ma, soprattutto noi che lavoriamo con la musica, abbiamo sentito in coro un bisogno di sfogo. Purtroppo, ad un anno di distanza, le cose non sono molto migliorate, ma speriamo che tutta questa energia, oltre a essere finita in un disco, possa essere espressa anche con i concerti al più presto”.

Come è andata la raccolta fondi?

Andrea: “Eravamo combattuti se farla o meno, ma è stata una buona idea, siamo molto contenti per tutte le persone che hanno deciso di sostenerci, il progetto è nuovo e non avevamo una storia, eppure la gente ci ha dato fiducia, ha creduto nel progetto e ora non vedono l’ora di ascoltare la nostra musica. È stato bello e dobbiamo ringraziare più di cento persone, senza di loro non avremmo mai potuto produrre il disco, grazie”.

Sperando che la situazione covid si risolva la più presto, qual è la vostra programmazione futura anche in considerazione del fatto che avete anche altri progetti in essere?

Andrea: “Non vediamo l’ora di suonare il disco dal vivo, l’abbiamo già fatto al Nidaba (solo in streaming) e ci siamo divertiti come dei bambini. Appena si potrà organizzeremo una presentazione dell’album, dobbiamo ancora capire dove e come…. Tutti noi abbiamo altri progetti, tutte cose a cui teniamo molto e che porteremo avanti con passione. Non si tratta di tenere i piedi in più scarpe ma avere situazioni musicali diverse è linfa vitale per un musicista”.

Niccolò: “Personalmente ho trovato estremamente stimolanti le due settimane in studio e la dinamica di gruppo tra noi quattro è stata davvero produttiva. Con le cover abbiamo avuto modo di giocare e inserire influenze provenienti da mondi diversi e devo dire che ha funzionato molto bene. Penso che ci sia un’alchimia speciale tra noi e sarei curioso di lavorare al più presto ad un secondo disco di brani originali”.

La recensione

Loud è un disco pazzesco: sette cover di blues tradizionali più una del grande Stevie Wonder, scarnificate e rivestite di luce nuova, riproposte con grande energia e fervore. Non è un’operazione fine a stessa, ma vuole dare nuova linfa a un genere che è alla base di tutto con nuovi ritmi, a volte serrati e ipnotici, a volte rock, nuovi arrangiamenti ricercati ed efficaci, il tutto molto loud figlio forse anche della forzata assenza dai palchi. Quattro musicisti dalle esperienze differenti: Heggy Vezzano è un chitarrista dalle infinite sfumature e dal tocco sublime, usa una Guild d’annata, sa fare tutto e partecipa in vari formazioni (Daniele Tenca, Laura Fedele, Nina Zilli, Francesco Renga e Andy J. Forrest); Andrea Caggiari è un bassista talentuoso noto soprattutto per la sua collaborazione con Amanda Tassoni e Daniele Tenca; Leif Searcy vanta collaborazioni con Carmen Consoli e Malika Ayane mentre Niccolò Polimeno, fonico di professione, chitarrista, cantante e autore si è aggregato al gruppo dopo la registrazione di quattro brani presso il suo studio, attratto dal progetto e dalla bontà di quanto sentito. Ognuno degli otto brani affronta un tema ben definito, la scelta delle canzoni è trainata da un chiaro obbiettivo: “Portare il Blues alla gente a cui il Blues non è ancora arrivato, sperando che la veste che abbiamo dato a questi brani possa essere un veicolo per attrarre sempre più ascoltatori verso questo meraviglioso genere” come afferma la band vogliosa di affrontare il parere degli ascoltatori che prosegue: “Il titolo che abbiamo scelto descrive ciò che sentirete, brani che un tempo erano acustici o addirittura a cappella sono stati spinti in avanti da una sezione ritmica massiccia e chitarre che non riescono a parlare sottovoce”.

Apre le danze Mojo Hand di Lightnin’ Hopkins, i primi trenta secondi sembrano ripercorrere le note del classico del 1962 dopo si scatena l’inferno: basso e batteria dettano i tempi in stile funky e le chitarre creano assoli decisi, molto duri, taglienti. Segue Just Like A Bird Without A Feather di R.L. Burnside molto soul con chitarre quasi eteree, brano dall’atmosfera avvolgente. Catfish ripropone la canzone di Robert Petway, cantata anche da B.B. King, con un sound molto funky e ritmato, il basso di Andrea in evidenza e le chitarre che creano assoli pungenti. Hard Time Killin’ Floor è un brano di Skip James, riproposto in versione più lenta acquisisce fascino e spessore, voce cavernosa, batteria che batte i tempi e le chitarre secche e acide, brano di una bellezza unica. Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around è un pezzo centenario, suonato fin dagli anni venti e ripreso poi in ambito blues da Willie McTell, nel 1962 grazie al reverendo Ralph Abernathy venne eretto a simbolo per denunciare gli arresti di massa durante le manifestazioni di protesta contro la segregazione razziale ad Albany in Georgia; ballata spiritual intensa e delicata impreziosita dall’armonica di Andy J. Forest con la batteria che batte a tempo di marcia militare e le chitarre che assomigliano a fucilate. Black Man è il famoso brano di Stevie Wonder qui rallentato nei ritmi ma di un’intensità e di un fascino particolari: incredibile l’attenzione e il clima che il gruppo riesce a creare. Death Have Mercy di Vera Hall, brano gospel dai contorni country alla Johnny Cash, ma con rasoiate precise e profonde, traccia mistica e suggestiva. Chiude questo ottimo lavoro un brano di Hanbone Willy Newbern interpretato anche dal maestro Muddy Waters Rollin’ and Tumblin’: anche qui le chitarre fanno un gran lavoro di sconfinamento supportate dalla sezione ritmica precisa e incisiva.

Blues rivisto e trasportato nel 2021 che accresce il valore, se ce ne fosse bisogno, sia di quanto inciso dai maestri del blues che di quanto inciso di recente dai loro discepoli meneghini. Mi piace concludere questo articolo con la frase finale con cui l’amica Sara Bao conclude il proprio libro Voodoo Blues, esaudiente e intrigante viaggio tra le contaminazioni tra religioni e blues edito da poco: “Il blues è un cagnaccio meticcio che abbaia e ulula in una lingua universalmente comprensibile, è un rizoma ricco di internodi dai quali ogni giorno, in ogni parte del mondo, nascono melodie, ritmi e testi nuovi. La musica rizomatica ha una caratteristica bellissima: non potrà mai morire”.

Buon blues a tutti!

Tracklist:

01. Mojo Hand
02. Just Like A Bird Without A Feather
03. Catfish
04. Hard Time Killin’ Floor
05. Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around
06. Black Man
07. Death Have Mercy
08. Rollin’ And Tumblin’