I N T E R V I S T A
Articolo di Luca Franceschini
Difficile far sentire la propria voce nella piazza affollata e chiassosa che è diventata la scena musicale italiana degli ultimi anni. Gestire con disinvoltura i Social, corteggiare i brand e curare la propria immagine sono competenze che sembrano divenute molto più importanti del sapere scrivere belle canzoni e del risultare convincenti dal vivo, a maggior ragione in questo ultimo anno in cui la pandemia ha azzerato i concerti e costretto gli artisti a trovare altri modi per continuare la loro esistenza.
A Rugo in realtà piace andare al sodo. Per lui la creatività musicale non è mai stata qualcosa di razionalizzato o programmabile, piuttosto un’illuminazione improvvisa, un’urgenza a cui rispondere. Sarà per questo che dopo “Panta Rei”, il suo Ep d’esordio uscito nel 2016, sono dovuti passare così tanti anni per poterlo rivedere in azione.
“Affondo” colma il gap in maniera più che convincente, un songwriting di livello che abbandona le soluzioni più leggere dell’It Pop contemporaneo per abbracciare una formula più adulta, che riflette sulle asperità dell’esistenza attraverso immagini fulminee, istantanee di vivida concretezza, che non disdegnano la modalità della narrazione e una buona dose di autoironia.
Lo abbiamo sentito al telefono per farci raccontare qualcosa di più su di lui e su questa nuova uscita.
Hai già ascoltato il disco? Come ti sembra?
Mi è piaciuto, le canzoni sono belle e l’ho trovato in generale diverso dal tuo esordio, dove eri più vicino agli stilemi dell’It Pop…
Sì, mi sono un po’ allontanato da quella mentalità lì…
All’inizio eri più leggero, c’era come una dimensione di innocenza che adesso non c’è più, anche i testi sono più sofferti: si sente che c’è stata una certa maturazione…
Sono almeno quattro anni che non pubblico qualcosa di nuovo, nel mezzo ci sono state diverse cose che sono successe. Ho finito l’università, ho iniziato a lavorare, mi sono trasferito a Lucca da Firenze, nella casa che era dei miei nonni. Qui ho maturato i brani che sono entrati nel disco, tranne uno che era stato scritto ancora prima dell’Ep. Sono brani che hanno avuto molto più tempo per crescere ed evolversi, rispetto ai precedenti, che sono stati fatti invece molto più di getto.
I quattro anni di attesa sono dovuti al fatto che stavi studiando?
Non mi impongo mai di scrivere un pezzo, non riesco a farlo a comando. Le mie canzoni nascono sempre dall’urgenza di dire qualcosa, serve a me per analizzare determinate situazioni, diciamo. Questo silenzio dunque è dovuto al fatto che non ero ancora arrivato a qualcosa di soddisfacente dal punto di vista personale per cui ho lavorato su questi pezzi più a lungo.
Per questo disco hai lavorato con due produttori diversi: Ciulla (che apprezzo molto come autore, tra l’altro) e Andrea Pachetti. In che misura hanno contribuito a far prendere a queste canzoni la loro forma definitiva?
Innanzitutto occorre dire che sono entrati nel processo di lavorazione in due momenti differenti. Ciulla l’ho conosciuto prima che avessi l’idea di fare il disco. Eravamo durante un concerto dove dovevamo suonare entrambi, ci hanno chiamati assieme e ci siamo trovati sotto al palco con le nostre chitarre, senza sapere chi dovesse andare per primo (ride NDA). Il suo live mi è piaciuto molto, dopo la serata ci siamo messi a chiacchierare e da lì è nata subito una grande intessa. Pochi mesi dopo ho iniziato a fare le pre produzioni e mi è risultato quasi naturale mandare ad Antonio (Ciulla NDA) le prime demo. È rimasto molto colpito e da lì in avanti è stato un processo naturale, è riuscito a capire le canzoni ed è stato quasi lui a chiedere a me di potermi dare una mano. Per circa un anno ci siamo trovati qui a casa mia a scadenza regolare e abbiamo lavorato. Ha inserito parecchie cose dal punto di vista melodico, dico sempre che ci ha “messo le settime” (ride NDA) perché io ho un modo di suonare abbastanza diretto, diciamo che ho uno spirito punk rispetto a lui, mi ha addolcito alcune melodie, ha fatto quadrare un po’ di cose. Con questo pacchetto poi siamo andati da Andrea Pachetti al 360 di Livorno. Contrariamente al suo aspetto, che è molto burbero, mi sono trovato benissimo, è riuscito ad inserire l’aspetto cristallino, vaporoso e brillante del sound. Le pre produzioni erano più impastate, lui le ha ripulite e abbiamo fatto anche un gran lavoro con le voci: ci sono molti cori, se noti, tante linee che si sovrappongono. Tra l’altro sembra che sulla voce non sia stato fatto nessuno studio ma perché non ha filtri, non abbiamo messo vocoder o effetti particolari. È stata una scelta nostra: con questo album ho deciso di mettermi parecchio a nudo, sia come concetti espressi nei testi, sia come soluzioni musicali.
Come osservavo prima, la tua proposta è particolarmente diversa dal modo di suonare tipicamente It Pop che va oggi per la maggiore, però allo stesso tempo sei diverso anche da quello che può essere il cantautorato classico. Se dovessi situare da qualche parte quello che fai, dove ti metteresti?
Faccio sempre fatica a rispondere a questa domanda perché, soprattutto ultimamente, non ho un punto di riferimento. Quando sono partito, nel 2016, era il periodo del primo Indie, quello che mi ha fatto scattare la molla è stato un po’ quel mondo lì: Dente, Brunori, Carnesi, quella generazione di artisti. Al momento di scrivere questo disco però non ascoltavo più niente di particolare, se non Giorgio Poi, che soprattutto con “Smog” mi aveva colpito molto. Quindi, se dobbiamo indicare dei riferimenti all’interno di quel mondo ti direi lui, al momento non mi riconosco in altri personaggi. Se invece vogliamo parlare del risultato finale, di come lo classificherei all’interno di quel che c’è ora in giro, non saprei. Io personalmente lo percepisco come un prodotto Pop, sento una differenza sostanziale col suono che passa su “Scuola Indie” e quelle cose lì. Non sono andato alla ricerca di qualcosa che funzionasse, bensì di qualcosa che esprimesse al meglio l’onestà di tutto il pacchetto: doveva piacere a noi e basta!
Adesso che nomini Giorgio Poi si capisce bene: nella tua musica c’è quella ricerca melodica che in lui ritrovo molto, ma anche nell’ultimo disco di Franco126, in realtà…
Guarda, te lo stavo per dire io! Se dovessi fare un altro nome, farei il suo: per quanto faccia un genere diverso, (non riuscirei mai a scrivere in quel modo lì), ha una proposta che mi stimola molto.
Nelle tu canzoni ci sono melodie bellissime. In particolare “Giada un po’”, col suo cantato dimesso, in contrasto con le aperture degli arrangiamenti. Il testo mi pare metta in evidenza una certa critica alla società odierna, con la sua ossessione di incasellare e massificare a tutti i costi, e anche questa illusione che molti hanno di sentirsi a posto, sistemati, quando in realtà sono prigionieri di un sistema…
Sì, è esattamente quello. È nata a Milano, durante l’unico concerto che ho fatto in quella città. Andavo in giro, mi guardavo attorno, c’erano questi palazzoni enormi, tanta gente che correva, tantissimi attaccati al cellulare. Poi sono finito nella metro e lì, oltre alla calca, mi ha colpito la percezione che si trattasse di elementi singoli: ciascuno faceva capo a sé stesso, non considerava minimamente chi lo circondava. In quel momento mi sono posto la domanda: “ma vale davvero la pena correre ed affaticarsi per raggiungere un obiettivo, quando in realtà poi ti perdi un sacco di cose importanti?” Non è che voglia dire cos’è giusto e cosa è sbagliato, ognuno è libero di fare quello che vuole. Però ci sono tanti modi di affrontare la vita, dobbiamo cercare di capirci l’un l’altro. Nel racconto di Giada, si parla di una coppia che vive in una casa simile a quella dove sto io, in campagna, col giardino, isolata, senza niente attorno. La ragazza vuole inseguire il suo successo e per farlo parte e va a Milano. Andando lì però non si accorge che una parte di lei e già morta, perché rinuncia a tante cose che aveva nella situazione di partenza. Da qui l’idea che forse la fortuna, quella che si va sempre cercando, quella che prima era l’America, per dire, non va inseguita in quel modo, va accalappiata e tirata verso di sé, per non plasmarsi in funzione del risultato ma per portare il risultato a qualcosa di più adatto a quello di cui si ha bisogno.
E invece “Don Bosco”? Mi incuriosisce molto il nesso tra il titolo e la storia che racconti…
Anche questa è una storia non autobiografica, è nata da un verso che sta all’inizio: “Quando mi dici vado a ubriacarmi, io non ci credo”. Ho assistito a questa scena: stavo parlando con un mio amico, passa la sua ragazza e gli fa: “Io mi vado ad ubriacare!”. E lui mi dice: “Non ci credo, quando fa così è perché vuole farmi ingelosire!”. Una situazione del genere, insomma. Da qui ho sviluppato tutta una storia dove c’è un inseguimento tra due persone e il ragazzo ad un certo punto impazzisce, fa una rissa con questo Claudio e finisce in carcere. “Don Bosco” è il carcere di Pisa, ecco perché il pezzo si chiama così. Poi però chiede scusa, capisce di avere perso il controllo, chiede scusa anche a Claudio, che nel mentre ha un braccio girato al contrario perché si è fatto male in quella rissa (ride NDA)!
Mi pare che la tua scrittura sia alquanto impressionistica, che viva di una sorta di flusso di coscienza. Un po’ anche la musica è così: ad esempio, “In solitaria” o “Morositas”, vivono di questa scrittura di getto, non si riesce tanto a prevedere quel che accadrà dopo e spesso ci sono sviluppi inattesi…
È così, mi è stato detto da tanti. Su di me faccio poca analisi perché scrivo in maniera diretta, scrivo così, queste cose, nel giro di un giorno bene o male è concluso, è difficile che io ritorni indietro a cambiare qualcosa, mi affido sempre alla prima stesura, alla prima sensazione che ho avuto. È per questo che ti dicevo che ho un’attitudine punk, più nel risultato che nella modalità. Questa è una raccolta di tutto quello che è stato scritto in questo periodo di silenzio, non è nato come album anche se poi, a posteriori, mi sono accorto che tutte le canzoni sono collegate da un unico filo conduttore, che è il tema dell’abbandono. Si parla di abbandono fisico ma anche sentimentale, reale o immaginato perché alcune storie le ho inventate, come ti ho detto. Si parla di abbandonare o di lasciarsi abbandonare, di subire qualcosa o di attaccare.
Il disco s’intitola “Affondo”…
È venuto fuori dopo questa analisi, infatti. È una parola ambivalente perché si può leggere come “attacco”, in particolare nella scherma, che è anche un tema che ritorna molto a livello concettuale. Ora usciranno anche dei video, incentrati su questo.
Da dove viene questo interesse per la scherma?
L’ho praticata da piccolo, mio nonno era Azzurro, qui a Pisa abbiamo la scuola Di Ciolo che è molto forte e manda molti atleti alle Olimpiadi. Ho fatto scherma fino a 14 anni circa, poi ho smesso ma è uno sport che bene o male ti rimane dentro. Contrariamente agli sport di squadra, che sono belli per altri motivi, qui sei da solo con te stesso e il tuo avversario da battere, non c’è altro. Butti giù la maschera e parti. Questa attitudine l’ho riconosciuta forse anche all’interno della musica che faccio. È tutto un flusso non premeditato, non gestito, quando mi sento ispirato, quando ho quella sensazione, butto giù la maschera, parto e scrivo, poi viene fuori quello che viene fuori. Allo stesso tempo però la parola affondo potrebbe voler dire “annegare”, quindi c’è sempre questa doppia valenza tra l’attacco e la difesa.
Parlando di abbandono, il testo di “Morositas” è molto forte: dire ad una persona che deve morire è una condizione per dimenticarla?
La forza della canzone è proprio quel “devi morire” nel ritornello perché effettivamente non può non colpirti quando la ascolti. Però non si augura di morire a nessuno, non è una morte fisica, è più una morte sentimentale. Dice: “Io sono morto dentro, vorrei che lo provassi anche te per capire quanto sto male”.
Nel testo parli di Tabù e Morositas, due caramelle che veicolano un immaginario decisamente vintage…
Sono un tentativo di esprimere la canzone a livello cromatico. La Morositas è viola scuro, il tabù invece è nero. Questo mood nella mia testa che c’era al momento di scrivere il pezzo si è palesato a livello visuale in un colore viola scuro, per cui le due immagini descrivono a livello visivo la sensazione emotiva della canzone.
Sei originario di Pisa, hai studiato a Firenze, vivi a Lucca e hai registrato un disco a Livorno: praticamente hai avuto a che fare con mezza Toscana, cosa che contraddice un po’ il carattere campanilistico degli abitanti di questa regione…
Partiamo dal presupposto che io non ce l’ho con nessuno (risate NDA)! Per quanto riguarda la mia storia, io sono nato e cresciuto a Pisa, in zona stazione. Poi il periodo universitario l’ho passato a Firenze e da questa città ho preso tutto quello che si può prendere, tutto l’amore per l’arte e per gli artisti in generale, questo sentirsi liberi di approcciarsi alle situazioni e alle persone che fino a quel momento non avrei mai fatto perché lo avrei reputato stupido. La simpatia, le battute, questo modo quasi spudorato di attaccare discorso… spesso e volentieri le battute che facciamo non vengono capite, vengono prese come offese.
Parli dei fiorentini o dei toscani in generale?
Un po’ tutta la Toscana è così, però questa esperienza l’ho vissuta soprattutto a Firenze, anche perché ero circondato da studenti fuori sede. Dopo l’università mi sono trasferito in provincia di Lucca, proprio al confine con quella di Pisa, in un paesino dove non c’è niente ma a dieci minuti da Pisa e a dieci minuti da Lucca. In questa casa enorme ci sono sempre stati i miei nonni e ha quindi un valore affettivo grande per me, era il posto dove venivo portato durante le estati per passare le vacanze, mi trasmette una tranquillità e una pace veramente forti. È una situazione che mi sono andata a cercare, volevo allontanarmi il più possibile dal centro. Alla comodità di avere tutto sotto casa preferisco la tranquillità di quando torno a casa.
Come va sul fronte live? Immagino che ti starai preparando per ripartire…
Ci stiamo muovendo per organizzare più date possibili, non so a cosa arriveremo però la volontà c’è tutta. Nel frattempo stiamo provando con la band, quindi…
Non sarai tu da solo, quindi…
Saremo in quattro: basso, batteria e tastiera, io poi suonerò la chitarra. La volontà è quello di portare in giro l’album nel modo più completo possibile, con gli arrangiamenti e tutto. Poi sai, ovviamente non sono cose che dipendono da noi…
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