I N T E R V I S T A


Articolo di Andrea Notarangelo

Mosè Santamaria torna con il suo nuovo singolo Festivalbar, un viaggio nei ricordi, una macchina del tempo emozionale che ci riporta col pensiero ai tempi andati e al ricordo nostalgico di qualcosa che manca e che forse non tornerà più. In questo mare emozionale abbiamo contattato il cantautore per saperne di più.

Ciao Mosè, grazie per l’intervista, vorremmo iniziare con un po’ di ironia. L’estate, più che una stagione è un mood, una liberazione, e una richiesta di libertà. Secondo te quando ce la ridaranno l’estate?
Quando ci ridaranno il Festivalbar, questo è poco ma sicuro! 

“Non avere paura”, “capitano mio capitano”, “solo un’altra avventura”, sono frasi chiave di Festivalbar. Si tratta di rimandi a sensazioni e canzoni del passato. La seconda, ad esempio, può far pensare al poeta Walt Whitman, ma anche a Facchinetti con la sua Capitan Uncino. Quanto c’è di intenzionale nell’andare a colpire uno spettro così ampio di pubblico? 
Hai centrato con Walt Whitman! Facchinetti proprio no. L’intenzione di dare un senso internazionale al brano è quella di osservare il mare percependo un invito a partire.

Il tuo percorso artistico sembra iniziare con una ricerca introspettiva, fino all’approdo a qualcosa di universale, con rimandi alla società attuale e a ciò che ci circonda. Sei d’accordo con questa descrizione?
In parte sì, in parte no. Perché la ricerca introspettiva è sempre il tema preponderante delle canzoni che scrivo: nei rimandi alla società in realtà c’è tantissimo della condizione nella quale il singolo è e vuole essere “incasellato” da essa. Sentirsi parte e sentirsi accettati più che come in un branco direi in una sorta di gregge ipnotizzato “libero” di vivere al sicuro dentro ad un recinto soprattutto illusorio e mentale.

Festivalbar potrebbe essere per te l’inizio di un nuovo approccio di far musica? Una nuova fase di Mosè Santamaria?
Ogni canzone del prossimo disco è una mia nuova fase. Ognuna di esse ha come voce propria un’espressione musicale e tocca il tema della felicità e della libertà come filo conduttore. Festivalbar è la fine dell’estate che si vede quando i bagnini liberano la spiaggia mentre alla radio esplode ancora il tormentone. Un misto di emozioni e riflessioni che settembre porta con sé.

Tornando al testo nostalgico, Festivalbar potrebbe rappresentare, in nuce, la crescita dell’individuo? Ti faccio un esempio: quando sei ragazzo hai molto tempo disponibile ma pochi soldi, successivamente passi a una vita incentrata sul lavoro e la produzione dove ricerchi quella spensieratezza, quell’estate ormai andata…
O alla ricerca di chi sei perché sei ancora troppo giovane per esserne cosciente. Oppure l’essere adulto che non si riconosce nella vita costruita fino ad oggi. “Ma ti ricordi quanto era bello il Festivalbar” non è solo una frase in apparenza buttata lì, è una via di fuga, una macchina del tempo, il bisogno d’amore, è una sorta di “Forever Young” ma degli Alphaville.

Per concludere, a proposito di festival, quanto è importante partecipare, essere visibili e quanto invece vincere?
Dopo diverse esperienze che ho vissuto, direi che l’importante è mettersi a disposizione della vita. Per me l’unica vera vittoria è sentirmi dire grazie da chi mi ascolta.