I N T E R V I S T A


Articolo di Lucia Dallabona e James Cook

Barzin è un cantautore canadese di origine iraniana. Il debutto del suo progetto risale al 1995, ma è nel 2014, con l’uscita del quarto lavoro in studio To Live Alone In That Long Summer, che noi di Off Topic ci siamo davvero accorti di lui. L’ascolto del disco ci ha regalato bellissime sensazioni, ma è stato con l’incontro dal vivo a Varese (raccontato qui) e il successivo a Milano (dove lo abbiamo intervistato) che siamo riusciti a comprendere meglio il suo spessore sia umano che artistico. Dietro a quel sorriso malinconico abbiamo scoperto un ragazzo gentile, raffinato, modesto al punto di risultare quasi poco consapevole del talento che possiede. Il suo approccio riflessivo e spirituale riflette una spiccata sensibilità che ci ha decisamente affascinati. Dopo un ulteriore tour italiano effettuato nel 2015, per qualche anno ne avevamo in gran parte perso le tracce. Finalmente, è arrivato il momento della pubblicazione di un suo nuovo disco, Voyeurs in the Dark. Con grande curiosità abbiamo perciò pensato di riallacciare i rapporti per realizzare un’intervista a proposito di quello che, per noi, si prefigura come un imperdibile ritorno…

Sono passati otto anni dall’ultimo album, come si è evoluto nel frattempo il tuo percorso artistico?
Mi sono dedicato a diversi progetti. In questo periodo ho lavorato alla composizione di colonne sonore per due film. Uno si chiama Viewfinder di Jason Yeomans (del quale al momento non è prevista la distribuzione in Italia) e l’altro The Shadow of my Life, un corto di animazione di Hajar Moradi. È stata una bella esperienza. Il lavoro sulla musica da film è qualcosa che mi ha sempre stimolato, quindi sono molto grato per l’opportunità avuta di soddisfare la mia curiosità.
Ho prodotto anche un album per un’artista di nome Set Feux. Anche quella è stata un’esperienza parecchio gratificante. È una cantautrice meravigliosa e ha realizzato un disco bellissimo. Uscirà il prossimo anno. Inoltre ho scritto una nuova raccolta di poesie intitolata Playboys in the Holy Land. Durante tutto questo, stavo abbozzando l’album che ho appena pubblicato. Lavoro molto lentamente. Quindi, gestire tutte queste cose in movimento mi ha davvero rallentato. Ma sono molto felice di averle fatte tutte.

Ci ha incuriositi il titolo, Voyeurs in the Dark. ‘Voyeur’ di solito come termine si riferisce all’osservare qualcuno segretamente. Il testo della title track dice: “We’re all voyeurs in our hearts / We’re all voyeurs in the dark”. Puoi spiegarci meglio a cosa ti riferisci con questi concetti?
Credo che, in fondo, siamo un mistero per noi stessi. La persona che pensiamo di essere è davvero un enigma. Alcuni potrebbero non essere d’accordo con me, ma penso che ci siano molte fantasie, desideri, pensieri in tutti noi che non si allineano con chi riteniamo di essere. Quindi, per non diventare consapevoli, finiamo col rinnegare queste cose o spingerle fuori dalla nostra coscienza. È il nostro modo di dirci che siamo conoscibili e prevedibili. Ma le immagini, le idee, i sentimenti che abbiamo sconfessato continuano a tornare. C’è tutta una vita interiore che si svolge al di fuori della nostra consapevolezza e influenza i nostri pensieri, sentimenti e azioni. Ogni cosa si svolge in un paesaggio impercettibile. È come stare all’ingresso di una grotta e guardare nell’oscurità. Se approfondiamo molte delle grandi storie e dei miti della cultura occidentale possiamo conoscere il percorso che tutti dobbiamo fare dentro di noi per crescere e realizzarci. L’Inferno di Dante ne è un esempio. La storia di Gesù Cristo un altro. Ho preso l’idea del voyeurismo e l’ho applicata al nostro paesaggio interiore. L’atto di guardare ciò che non è visibile al nostro interno è un requisito se vogliamo affrontare tutti i demoni che dobbiamo uccidere.

Nella sequenza d’ascolto, le canzoni si alternano a cinque tracce strumentali molto suggestive. A noi quest’ultime sembrano fare da ponte fra i differenti stati d’animo esplorati dal pezzo che li precede e quello che li segue. Abbiamo intuito giusto?
Sì. Poiché c’erano lievi differenze nell’umore e nelle sensazioni delle canzoni, ho sentito il bisogno di brani di transizione per aiutare ad entrare nelle atmosfere successive. Ho pensato semplicemente che potessero non funzionare se riprodotti uno dopo l’altro.

Altrettanto particolare è la copertina del disco, che raffigura un solo corpo ma con tre figure differenti. È il tuo io ad essere così frammentato?
Ho trovato questo dipinto molto suggestivo. L’idea del centauro (metà umano, metà animale) mi ha sempre intrigato. Cattura la tensione che esiste dentro di noi: gli impulsi animali che sorgono e i nostri tentativi di cercare di domarli attraverso norme sociali che ci vengono tramandate culturalmente. Penso che il motivo principale per cui ne sono stato attratto sia perché ha catturato il concetto di multi-sé a cui mi sono interessato negli ultimi anni. La mia concezione di chi siamo ha subìto un cambiamento. Sono davvero arrivato ad abbracciare l’idea che ci appartengono molti aspetti diversi fra loro. Mi aiuta a dare un senso a tutte le contraddizioni che vedo in me e negli altri. Trovo che in noi ci sia il desiderio di cercare di imporre una narrazione del nostro modo di essere per convincerci che siamo quella cosa prevedibile e unificata. Spesso cancelliamo i molti strati diversi che conteniamo perché creano troppo contrasto al nostro interno. L’immagine di copertina ha davvero catturato il modo in cui vedo il Sé e ciò che stavo cercando di fare in questo album, ovvero provare a scrivere partendo da parti diverse di me stesso.

Nel disco emerge limpida un’attitudine cinematografica; quanto ha influito in questo senso dedicarti alla composizione della colonna sonora di Viewfinder?
Penso molto. Sono sempre stato attratto dalla musica ambient per il modo in cui celebra i suoni materici minimali; ho scoperto che lavorare alla colonna sonora mi ha davvero aiutato ad espandere il mio palato sonoro.

Knife in the Water affascina fin dalle prime note delicate, avvolgenti, sensuali: “There’s the knife in the water / You’re the knife in the water”. Durante l’ascolto, ci siamo divisi circa l’interpretazione di queste due frasi: nell’acqua il coltello potrebbe non riuscire a ferirti, oppure essere stato gettato proprio da chi ti ha ferito e poi rigetta qualsiasi responsabilità… Qual è il senso che hai inteso dare tu a queste parole enigmatiche?
Il ‘Coltello nell’acqua’ è un’immagine molto potente. Ci sono due simboli contrastanti: la durezza di un coltello e la morbidezza dell’acqua. Mi piace la contrapposizione di questi due elementi che lasciano grande spazio all’interpretazione. Mi sono addentrato nella canzone attirato dal mistero di una tale rappresentazione; ho sentito che era appropriato usarla senza avere un’idea chiara di cosa significasse, lasciando libera l’immaginazione dell’ascoltatore di fare le proprie associazioni. È la stessa cosa che accade con i sogni. Hai queste visioni che ti visitano di notte e puoi adottare diversi approcci per decifrarne il significato. Ciò che è interessante è il modo in cui la persona stabilisce collegamenti con le immagini che sono all’interno del sogno. I sentimenti e i pensieri che ne derivano le permetteranno di avere una migliore comprensione del senso del suo mondo. Vorrei che fosse lo stesso con l’immagine che ho scelto.

‘Watching’, nonostante il testo sia emotivamente impegnativo (“I burned what I know / I burned what I owned”) crea un’atmosfera dolcissima, lieve, quasi ballabile. Corrisponde ad una scelta precisa alleggerire il senso delle parole tramite le note? La canzone è impreziosita dalla presenza di Set Feux. Come nasce la vostra collaborazione?
In generale sento che la mia musica può donare un po’ di luce. I testi e l’atmosfera delle canzoni sono sempre inclinati verso il lato pesante, quindi penso che un tocco di dolcezza e ballabilità possa produrre qualcosa di buono, creare un equilibrio tra la serietà e l’oscurità. Mi è davvero piaciuto cantare con Set Feux. L’ho conosciuta più di 15 anni fa, mentre stavo cercando una cantante per fare delle armonie su uno dei miei pezzi; l’ingegnere del suono di quell’album, David Hermiston, mi disse che aveva la persona adatta. Quindi, ci presentarono e successivamente siamo diventati anche partner nella vita. È una cantautrice estremamente talentuosa. Sta per pubblicare il suo nuovo disco, ed ogni canzone è una gemma.

I Don’t Want to Sober up’ ci offre un delizioso valzer lento spruzzato di languida elettronica e cori eterei. Il protagonista si sente fortemente diviso. In grandissima difficoltà a fare pace col passato, sogna la sua grande fuga. Il brano, particolarmente introspettivo, è anche altrettanto autobiografico? 
Per molto tempo, il mio obiettivo nei testi è stato quello di catturare esattamente ciò che provavo. Volevo che le parole fossero precise e chiare. Ma con questo album, e in particolare con questa canzone, ho voluto abbandonare il mio desiderio di precisione. Volevo scrivere da un luogo in cui non ero sicuro se quello che stavo dicendo fosse vero. Non fraintendetemi, volevo comunque puntare alla verità, ma non mi interessava sapere se ero davvero io a dirla. Quindi, mi sono permesso di sperimentare proponendo prospettive diverse. Volevo mescolare la realtà con la finzione. Mi piace pensare che ci sia un po’ di verità anche nelle bugie che diciamo, perciò c’è del vero in quello che ho scritto, e forse della finzione. Non volevo che nessuna di queste cose interferisse con ciò che mi stavo permettendo di scrivere.

‘It’s Never too Late to Lose Your Life’ è forse la migliore traccia dell’album, di certo la più sperimentale. La sua melodia sorprende, suoni in urgente movimento danno vita a un jazz metropolitano arricchito da uno splendido sax in primo piano; poi, sul più bello, arriva quel finale tronco… La musica è perfetta per accompagnare parole del testo particolarmente determinate e cariche di amara consapevolezza come: “It’s never too late to lose your life / You throw away your hope”. Ci racconti come sei arrivato alla composizione di questo inedito e riuscitissimo mix sonoro?
Sono felice di sentire che la pensiate così. Questa traccia sembra diversa da ciò che scrivo normalmente. Sicuramente ho impiegato molto tempo per vestire questo brano. Ho iniziato con un semplice loop di batteria per le percussioni. Mi ci è voluto un po’ per trovare i pattern ideali della drum machine da aggiungere. Sentivo, però, che mancava ancora una certa dinamica. È stato il mio batterista, Marito Marques, a dare vita alla canzone, dopodiché è diventato più facile per me trovare la direzione finale. Adoro le parti di chitarra che Nick Zubeck ha creato. Cercavo qualcosa che non suonasse come tale e lui mi ha dato più di quanto gli avevo chiesto. Le parti di sax eseguite da Karen Ng e Joseph Shabasogli hanno aggiunto gli ultimi ritocchi di cui la traccia aveva bisogno.

‘To be Missed in the End’ è una ulteriore deliziosa occasione per ballare, ma sempre con vena malinconica; torna una ipnotica nube di sax, la splendida coda strumentale ne accentua il carattere cinematico e dona valore aggiunto ad un testo che analizza a fondo il senso di perdita. Con che spirito vivi questo delicato stato d’animo?
Descriverei la prospettiva che ho preso in questa canzone pari ad un lutto celebrativo. È come se mi fossi concentrato, in modo riverente, su gran parte delle cose che sono andate e venute nella mia esistenza. La perdita, la mancanza, sono associate a quanto è accaduto; sento che è necessario accettare e riconoscere l’importanza di queste esperienze “passeggere”. La nostra assenza è ciò che può farci notare dagli altri. A volte è allora che le persone finalmente si fermano e ci prestano attenzione. Penso che nel profondo tutti noi portiamo dentro una domanda: cosa accadrà quando non saremo più qui? Credo che questo sia il motivo per cui un film come “It’s a Wonderful Life” (‘La vita è meravigliosa’ di Frank Capra) tocca così tanto la cultura popolare. Non solo permette di sperimentare questo tipo di immaginazione, ma ci mostra anche ciò in cui vogliamo credere, ovvero che anche quando “saremo lontani” da tempo, resterà il senso del nostro esserci stati nel presente, tramite le molte vite che avremo potuto toccare lasciando in loro una traccia profonda. 

Negli ultimi anni hai lavorato ad una nuova raccolta di poesie, ‘Playboys in the Holy Land’. Vuoi raccontarci qualcosa di Barzin poeta? Quanto influenza la scrittura di Barzin cantautore?
Il mio lato poetico è sempre rimasto nell’armadio. Lo tiro fuori quando devo scrivere dei testi, non è mai qualcosa di continuativo come accade con la musica. Il mio amore per la letteratura e la scrittura risale a molto tempo fa. Ho studiato la prima e segretamente ho continuato a dedicarmi alla seconda. Ho pensato che avrei potuto diventare uno scrittore, ma di fatto non mi sono mai sentito a mio agio in questa attività, quindi ho fatto pace con me stesso riguardo a un tale aspetto contraddittorio della mia personalità. La scrittura sarà sempre una parte importante della mia vita. Le devo molto. È un modo di risolvere il disordine del mio pensiero e dei miei sentimenti. Scrivo sempre sui miei taccuini e, ad essere sincero, è molto bello non preoccuparmi se le persone leggeranno mai i miei scritti.  

Naturalmente a questo punto siamo impazienti di poterti rivedere e riascoltare dal vivo. La partenza del tuo tour, per complicazioni legate alla pandemia, sappiamo che verrà posticipata al prossimo autunno. Saranno previste tappe italiane?
Anch’io non vedo l’ora di venire in Italia. Italia e Spagna sono i due paesi che mi assicuro facciano sempre parte del mio tour. Amo le persone e il paesaggio. Sono entrambi molto vicini al mio cuore. Mi sono rattristato quando il tour primaverile è stato cancellato a causa della pandemia, ma stiamo lavorando per spostarlo all’autunno del 2022. Quindi, spero di poter venire allora.
Grazie Lucia e James per le domande molto accurate. Apprezzo particolarmente il vostro interesse e l‘opportunità che mi avete dato di parlarvi a proposito del mio nuovo album. Spero che potremo vederci quando sarò in Italia.