Intervista di James Cook
Barzin Hosseini è un cantautore canadese le cui canzoni, lente e struggenti, esplorano il lato tranquillo del pop. Dopo la pubblicazione del suo quarto album, ha intrapreso un lungo tour europeo, che gli ha consentito di suonare anche in diverse date italiane. Lo abbiamo incontrato in una calda serata di maggio, prima del suo concerto al Gattò di Milano. Ci ha colpito per l’estrema disponibilità e naturalezza con cui si è raccontato. Seduto ai tavolini esterni al locale, inizialmente rimane sorpreso alla vista del foglio con l’elenco delle domande e sorridendo chiede se preferiamo risposte lunghe o corte, ma poi si scioglie aprendosi con delicatezza e sincerità…
Sei di origini iraniane. Quanto la cultura Persiana ha influenzato il tuo modo di comporre?
Sono nato in Canada ma mi hanno portato in Iran quando ero molto piccolo. Ci sono rimasto da quando avevo 1 anno fino ai 10. In realtà dall’infanzia ho iniziato ad ascoltare esclusivamente musica americana ed europea, artisti come Michael Jackson, gli Abba…
Se proprio devo pensare ad una possibile influenza della cultura persiana nel mio lavoro, credo abbia a che fare con la passione che provo per la poesia, parte integrante della stessa. Musicalmente non saprei quanto la cultura delle mie origini abbia influenzato il mio modo di comporre. Di sicuro, la profonda malinconia che si ritrova sia nella musica, che nella letteratura del mio paese, è una nota caratteristica che mi appartiene.
Contemporaneamente al cd hai pubblicato un libro di poesie “Something I have not done is following me“. Sembra che le parole siano un aspetto importante della tua arte espressiva…
Ho studiato per diventare uno scrittore, quando frequentavo l’università aspiravo a specializzarmi nella composizione di poesie. Dopo il primo anno di studi ho iniziato a pensare a tal punto alla musica da farne un’ossessione, che mi ha spinto a mollare la scuola per diventare musicista a tempo pieno.
Personalmente ho imparato alcuni aspetti della recente storia iraniana grazie a Marjane Satrapi e alle sue graphic novels, soprattutto “Persepolis”. La conosci? Cosa ne pensi della possibilità di parlare di temi così “importanti” attraverso uno strumento “leggero” come il fumetto?
Domanda interessante, si la conosco. Mi ricorda “Maus”, la graphic novel sull’olocausto di Art Spiegelman, La conosci? Quando l’ho letta la prima volta, mi ha aperto gli occhi sulle possibilità di conoscenza che offrono le graphic novels. Inizialmente era un’espressione artistica che non veniva presa sul serio, ma, gradualmente, le cose stanno cambiando. Sono cresciuto leggendo fumetti “non seri” come Superman, Spiderman, (sorride). E’ molto bello constatare che l’arte delle graphic novels riesce ad affrontare temi importanti come quello legato alla storia di un popolo, ed è incredibile come molte persone conoscano questo libro. Penso che sia un approccio vincente scegliere una graphic novel e trasformala in un film, sostengo pienamente questo tipo di scelta.
Nelle tue melodie le note si dilatano, diventano dolcemente ipnotiche e la voce si fa a sua volta strumento. Come nasce questo particolare approccio?
E’ una domanda difficile, fammi riflettere un attimo! (sorridiamo tutti)
E’ interessante che tu dica che la mia voce diventa uno strumento, ne sono felice. Credo che chi canta molto bene sia in grado di realizzare questa trasformazione ma, per quel che mi riguarda, sono convinto che più canto, meno sia facile che ciò accada. La mia preoccupazione è cantare meno e parlare di più. Lo sai, mi sento in imbarazzo quando canto, trovo davvero strano farlo. Questa perplessità credo provenga dalle mie origini di scrittore, per me quando hai qualcosa da dire ha molto più senso parlare, piuttosto che cantare.
In quasi vent’anni che ti occupi di musica hai pubblicato solo 4 album. Il tuo processo creativo è piuttosto complesso o ti dedichi anche ad altre passioni?
Dedico me stesso solo alla musica e alla scrittura. Ci metto molto tempo per scrivere canzoni, non ricordo quando ho scritto l’ultima, sento come se fosse successo qualche anno fa. Provo a scrivere le canzoni “giuste” da inserire in un album, quindi a volte ci vogliono anche 2 anni. Tanti cantautori sono in grado di scrivere molto velocemente. E’ incredibile, possono creare un disco in pochi mesi. Pensano che impiegare troppo tempo potrebbe uccidere il loro spirito creativo, per cui preferiscono ridurre al minimo i tempi. A me occorrono da uno a due anni per scrivere lo stesso loro numero di canzoni. Ognuno ha una velocità diversa, capisci? Io sono molto lento.
Il titolo del tuo nuovo album “To Live Alone in That Long Summer” è la citazione di un verso del poeta israeliano Yahuda Amachai. La solitudine è però anche un tema del disco. Ci sono spunti autobiografici?
Vuoi che ti dica il mio segreto?
Yesssssss
Lo sai, gli artisti non rispondo mai a queste domande. (risata)
Arrivo dalla scuola di scrittura Hemingwayiana, secondo la quale racconti solo quello che hai sperimentato personalmente. Ecco perché non posso scrivere ciò che non ho vissuto, quindi c’è molta autobiografia nel mio album. (sorriso)
Scrivi dei tuoi sogni?
C’è una canzone che si chiama “Dream song”, ma non scrivo molto dei miei sogni perché non li ricordo. Mi auguro che questo accada, prima o poi, in quanto sarebbero una buona fonte d’ispirazione. Non capisco perché li scordo sempre…
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia? Mi riferisco soprattutto alla reperibilità, alla necessità di essere connessi attraverso i social media
Penso che la tecnologia sia incredibile. La mia vita è cambiata da quando possiedo un iphone. Lo amo e ti dico perché: adoro la fotografia, con il mio telefono faccio foto come voglio, prima non potevo. Posso registrare le mie idee molto velocemente. C’è un accordo di chitarra nel mio telefono. Ho una videocamera. Non ho internet, ma sono connesso.
Ricordo che durante il tuo recente concerto di Varese ti sei espresso in termini molto positivi nei confronti dell’Italia, soprattutto per quanto riguarda il clima e il cibo. Il tuo disco ha una versione italiana pubblicata dalla Ghost Records. Hai veramente un rapporto speciale con il nostro paese?
Amo l’Italia, penso sia un posto davvero speciale. Ho detto a Giuseppe della Ghost Record che stavo pensando di smettere di girare dopo questo tour. Poi sono venuto in Italia, c’è qualcosa in questo paese che mi spinge a pensare di continuare a fare musica. Qualcosa legato al supporto, alla positività che le persone riescono a trasmettere. E’ molto bello, quasi come in Francia e in Germania. Penso che gli italiani siano molto simili ai Persiani. Sono molto calorosi e passionali, sapete? I canadesi non sono cosi estroversi, non esprimono le loro sensazioni. Amo sentire le emozioni delle persone, così riesco a capire se piaccio o no.
Il tuo sguardo sembra rivelare una certa timidezza. A volte non deve essere semplice creare il clima ottimale per ascoltare la tua musica…
Penso che la situazione perfetta per suonare la mia musica si crei in un luogo con un buon impianto acustico, come può essere un teatro. Non mi sono mai sentito a mio agio ad esibirmi nei locali. Penso che la musica che scrivo non è stata concepita per essere suonata così, quindi è un’esperienza molto difficile da affrontare, ma devo farlo. Questo è il motivo per cui preferisco registrare in studio, dove posso creare l’atmosfera giusta per far “arrivare” la mia musica come voglio io. Nelle perfomance live il suono non è mai come lo vorrei.
Inoltre la mia voce non mi convince del tutto. Quando penso ad artisti con una voce meravigliosa non mi sento alla loro altezza.
Credo che con la voce esprimi fino in fondo la tua anima e che già per questo sia bella
Penso che la percezione della mia voce sia del tutto personale. Ad esempio quando ascolto la voce di Mark Kozelek (Sun Kil Moon) penso sempre sia bellissima, speravo di avere una voce così… Non ce l’ho, ma sono contento di quello che hai detto, grazie davvero.
Come ti vedi in un prossimo futuro? Sarà sempre la musica la tua compagna più fedele?
La musica è stata una buonissima compagna per 20 anni, ma penso che dovrei “chiudere” con lei. Sai, alcuni matrimoni giungono al termine e si rimane solo amici. So che ci sono persone che hanno un lavoro duro e sognano di fare i musicisti. Io sono stato fortunato ad esserlo per molto tempo, ma penso che sia altrettanto duro vivere di musica. Devi fare un sacco di sacrifici, specialmente quando diventi grande e senti il desiderio di crearti una famiglia, ti ritrovi a dover scegliere. Ho saputo di molti musicisti che hanno dovuto fermarsi, e’ molto triste. Se continuo poi ho anche il timore di finire per ripetermi. Artisti che amo molto, quando escono con un nuovo album a volte mi deludono, perché tutte le canzoni suonano uguali. Forse, se non hai niente di nuovo da dire, è meglio non pubblicare nulla. Sono affascinato dalla psicologia, e quindi sto pensando di iniziare a studiare per diventare uno psicologo, così da poter conoscere i segreti di tutti. O forse voglio cercare nuovo materiale per la mia musica. (sorride)
Ringraziamenti:
a Paola Calovi per la traduzione e l’assistenza
a Carme Ripollés, Seronda Estudio e Lino Brunetti per le foto
a sottovoce | concerti fatti in casa per il video
a Ellebi per il grande aiuto
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