C I N E M A


Articolo di Barbara Guidotti

Amo Pupi Avati, la grazia con cui sa affrontare i temi del nostro vivere – nei film più intimisti – come pure le altre sfaccettature di un narratore che ha saputo attraversare con efficacia molti stili, compreso l’horror (ricordiamo il recente Signor diavolo).
Con La quattordicesima domenica del tempo ordinario torna in uno scenario ideale, la sua Bologna, per una storia autobiografica in cui troviamo tutti gli ingredienti con i quali potrebbe dar vita a un ottimo film: nel rimando continuo fra presente e passato, nostalgia e rimpianto, speranza e disillusione, sogno e fallimento, gioventù e vecchiaia la sua storia conserva tuttavia qualcosa di incompiuto, come un tentativo non pienamente riuscito, un’emozione che non riesce a dispiegarsi.

Il bianco e nero delle foto in apertura suggerisce un’atmosfera nostalgica che si ancora all’infanzia, ma l’esordio della vicenda è tutt’altro che rasserenante. Marzio, musicista fallito (alter ego del regista, clarinettista mancato), tenta di ritrovare l’antica complicità con l’amico Samuele, ma si percepisce che la vita li ha inesorabilmente divisi, e nel giro di poche scene si consuma una tragedia che lascia Marzio solo e annichilito, in preda alle proprie allucinazioni. Dai flashback ricostruiamo la storia di tre vite che si sono intrecciate: quelle di Marzio stesso, Samuele e Sandra, che incontriamo giovani e pieni di speranze; i primi impegnati a cercare di successo nel mondo della musica, la seconda come indossatrice.
L’unica canzone famosa del duo fa da colonna sonora a una vicenda che vede il progressivo frantumarsi non solo di tutti i sogni dei protagonisti, ma anche dell’amore fra Marzio e Sandra, che soccombe alla patologica gelosia di lui e alla disillusione di lei. Si ritroveranno entrambi, ormai anziani, uniti dalla solitudine e dal bisogno.

La ricostruzione d’ambiente accurata, che proietta negli anni ’70, fa da cornice a una storia che, attingendo al patetico, non riesce a trasmettere un vero pathos, coagulato interamente nel grido disperato di Marzio che realizza la fine del proprio amore con Sandra (l’unico momento realmente intenso e toccante della storia). Il naufragio delle vite dei protagonisti assume tratti a volte – forse volutamente – grotteschi, che però impediscono di renderne pienamente credibile la sofferenza, così come la recitazione risulta giocata fra minimalismo ed esagerazione, con forzature fini a se stesse (le pareti blu del finale). Questo nonostante la presenza di attori consumati, da Cesare Bocci, Edwige Fenech, Gabriele Lavia e Massimo Lopez (in un’inedita apparizione drammatica) ed esordienti dal notevole potenziale (Camilla Ciraolo, Nick Rossi, Lodo Guenzi dello Stato sociale nella parte del protagonista). Alla fine, il film più autobiografico di Avati ha il sapore un po’ amaro di un’occasione mancata. E quello che rimane dentro, quando passano i titoli di coda, è soprattutto la voce di Sergio Cammariere a ricordarci che “Ovunque nella stanza ci son sogni irrealizzati / Le cose belle son fuggite via…”.