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Seeyousound – Al via la nona edizione (dal 24 febbraio al 2 marzo)

A N T E P R I M A


Articolo di Claudia Losini

È a Torino, città del cinema, brulicante di vita notturna, underground e da sempre connessa a stretto filo con la musica che risuona(va) lungo le sponde del Po sui Murazzi, che nasce nel 2015 Seeyousound, il primo festival in Italia che unisce cinema e musica. Seeyousound mette in mostra quindi i due migliori aspetti della capitale piemontese, che dovrebbero e anzi devono essere valorizzati e promossi a livello internazionale.
Anteprime nazionali e internazionali compongono quattro sezioni in concorso: “Long Play Doc” (documentari), “Long PLay Feature” (lungometraggi di finzione), “7 INCH” (cortometraggi), “Soundies” (videoclip). Alla competizione si aggiungono due sezioni in mostra: “Into the groove”, che spazia dalle nuove tendenze musicali ai nomi cult della storia della musica mondiale, e “Rising sound”, dove la musica si intreccia con questioni globali.
Nel 2020 Seeyousound si rivoluziona con l’aggiunta di “Frequencies”, un concorso rivolto a giovani musicisti e compositori riguardante la musica applicata alle opere del cinema muto. Una residenza artistica, inserita all’interno delle giornate del festival, che si conclude con un contest che premia la migliore sonorizzazione composta dai partecipanti al laboratorio.

Ma non solo: il programma di Seeyousound include anche live set, ospiti internazionali e anteprime.

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dEUS – How To Replace It ([PIAS] Recordings, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

Il ritorno sulle scene dei dEUS è sempre una buona occasione per raccontare una storia. Nello specifico, la trama si svolge ad Anversa, città portuale di origine medievale, crocevia di commerci e di influenze tra le più disparate. È in questa cornice che muove i primi passi l’ensemble di Tom Barman, un musicista dai lineamenti specifici, ben marcati che è già nato vecchio. All’epoca quella band portò una ventata di freschezza nella musica così detta ‘alternative’, attraverso un misto di influenze che spaziavano dal buon Captain Beefheart, presente nella cura dei patchwork e della cacofonia, dalla voce profonda fino al midollo à la Leonard Cohen e da un’attitudine funk particolare che li fece definire in un primo momento dei “Red Hot Chili Peppers, solo un po’ più grunge”. Da qui si evince come le etichette andrebbero abolite per lasciar spazio all’ascolto e, proprio da questo sentire sincero, un orecchio vergine o semplicemente scevro da preconcetti, non potrà che percepire la bellezza e la genuinità di una proposta che ha saputo rinnovarsi di capitolo in capitolo. La recensione potrebbe concludersi qui. Acquistate l’album nelle sue forme, o rifugiatevi nel vostro negozio di dischi preferito e chiedete al proprietario di preparare la puntina e basta. Il viaggio sonoro che vi aspetta sarà ben ripagato.

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Little North – Wide Open (April Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Dove e quando è cominciato tutto questo? Voglio dire, chi ha iniziato questa tendenza del jazz scandinavo – o comunque sarebbe meglio definirlo nordico – a proporsi con degli stigmi riconoscibili quanto insoliti, tanto da creare due antagoniste fazioni a riguardo, una di sostenitori ad oltranza e l’altra di oppositori accaniti? C’è infatti un gruppo di paesi nordici, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Islanda in cui il jazz è stato preso, filtrato e riproposto in una veste estetica ben diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare, in genere, nel resto dell’Europa e in America. Qualcuno afferma che l’etichetta di Manfred Eicher, la ben nota ECM, insieme alla meno famosa Rune Grammofon, abbiano sortito da spartiacque, innescando una frattura all’interno della maniera classica d’intendere il jazz, imponendo un loro modo personale di tradurre questa musica, costruita attorno a temi più rarefatti, quasi mai frenetici ed infarciti spesso di elementi tradizionali che talora però si trovano a scivolare verso il rock o, per contro, ad indirizzarsi verso influenze di musica classica. Ma i paesi scandinavi, a monte del gran numero di jazzisti che essi stessi hanno prodotto, forse qualche preciso nume tutelare a questo riguardo ce l’hanno, indipendentemente dalle etichette discografiche che hanno fatto e fanno tendenza. Ad esempio, per quello che riguarda la musica incentrata sul pianoforte, il nome dello svedese Jan Johansson, pianista eccellente che purtroppo morì in un incidente stradale nel 1968, è un punto di riferimento accertato presso il nuovo jazz nordico. Per farsi un’idea di questa continuità possiamo facilmente reperire in streaming alcune sue originali incisioni, sia in solitudine che in gruppo, come Nusik Genom Fyra Sekler del ’68, oppure quello che fu il più grande successo di vendite personale, Jazz Pa Svenska, uscito nel’64.

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Green Day – Nimrod. – 25th Anniversary Edition (Warner Music, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

Nimrod compie venticinque anni e i Green Day, per l’occasione, decidono di fare le cose in grande proponendo una versione speciale in cofanetto. La nuova uscita include l’album originale, un CD con demo inedite e un live set all’Electric Factory di Philadelphia registrato il 14 novembre 1997, un mese dopo l’uscita del disco. Perché oggi è importante parlare di quest’album? Perché ci soffermiamo su quest’uscita? Non si tratta solo per l’evento in sé, ma perché Nimrod, quinto disco della storia dei Green Day, ha significato tanto per Billie Joe Armstrong, ma anche per tutto il punk rock. Si tratta di una conferma, dell’acme di un sottogenere e la punta dell’iceberg delle occasioni mancate. Facciamo un piccolo excursus storico. Nel 1994, a Seattle si celebrava l’inizio della fine del grunge e di una musica tanto bella e grezza, quanto pesante e ossessiva. In questo contesto, poco più sotto in California, i Green Day uscivano con Dookie, terzo patinatissimo album, che li fece esplodere definitivamente come fenomeno mondiale. Dopo Dookie niente fu più lo stesso e tutto divenne più semplice. In quegli anni il revival punk segnò un nuovo picco, con il lancio e il rilancio di nuove band che seppero sfruttare fino in fondo il successo dei tre ragazzi di Berkeley.

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The Brian Jonestown Massacre – The Future Is Your Past (A Recordings, 2023)

R E C E N S I O N E


Articolo di Sabrina Tolve

È di venerdì 10 febbraio Your Future Is Your Past, ventesimo album del gruppo psichedelico The Brian Jonestown Massacre, scritto interamente tra 2020 e 2021 dall’eclettico cantante e leader della band, Anton Newcombe.
Più che gruppo, i Brian Jonestown Massacre sono una leggenda: la loro formazione risale al 1990, il loro primo album Methadrone è del 1995, hanno una loro etichetta – la A Recordings, appunto -, gestiscono da anni il loro catalogo, e i loro show sono ancora seguitissimi. E non parlo solo di persone di una certa età, parlo anche di generazioni più giovani, ventenni che conoscono a menadito i loro brani.
Lo show di Dublino all’Academy tenutosi giovedì 9 febbraio mi dà ragione. Ovviamente il copione è sempre un po’ quello: si rischiano risse, ci sono interruzioni durante il concerto, Newcombe insulta i membri della band che non suonano come dovrebbero, non ci sono encore. Lo show dura quasi tre ore e si conclude con un muro di suono che investe l’intera platea in estasi, dopo momenti di chiaro imbarazzo e un po’ di disagio.

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Fred Hersch & Esperanza Spalding – Alive at the Village Vanguard (Palmetto Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi ero fatto un’idea, evidentemente balzana, che alcuni musicisti reagissero ad una eventuale stage fright, cioè a quella paura da palcoscenico che impedisce a volte di ricordare le parole d’una canzone, altre volte di azzeccare gli accordi giusti o una melodia nel suo corretto sviluppo. Non sapevo ancora che una coppia artisticamente collaudata del livello di Fred Hersch ed Esperanza Spalding, invece, quando sale sul palco non solo è piuttosto rilassata, ma non si preoccupa nemmeno di organizzare un arrangiamento definito al pianoforte né di non aver nessuna linea guida da seguire. Anzi, accade anche, come in questo album, che la Spalding si trovi a modificare spontaneamente il testo di una canzone durante la sua esecuzione, magari inserendovi delle osservazioni polemiche o spiritose, come appunto vedremo tra poco. Se dunque d’improvvisazione si tratta – e nel jazz ciò è assolutamente vitale – improvvisazione sia, persino nel modo un po’ avventuroso che Hersch & Spalding propongono al loro pubblico. In realtà, secondo quanto i due artisti dichiarano pubblicamente, il bello di collaborare insieme da una decina d’anni sta soprattutto nell’aspetto poco formale del gioco, nella possibilità di far musica senza necessariamente dover inquadrare il tutto in un contesto seriosamente professionale. La verità è che questa coppia si diverte nell’esibirsi senza rete e tutto questo lo si percepisce dal clima che si crea durante il concerto live, col pubblico talora divertito dalle battute della Spalding ma che nel contempo ascolta attentamente la musica performata. Naturalmente si parla di un mood particolare che si può cogliere solo in piccoli locali, meglio ancora se si tratta di luoghi storici come il Village Vanguard di New York che Hersh conosce bene per avervi suonato già parecchie volte e per averci inciso sei concerti. In questo vero e proprio tempio del jazz si è realizzato questo concerto dal vivo, Alive at the Village Vanguard, registrato nell’Ottobre del 2018, anche se pubblicato solo quest’anno. In realtà questo evento è stato organizzato durante un periodo piuttosto drammatico in concomitanza di problemi personali di natura fisica e professionale che avevano interessato entrambi i musicisti. Nulla di drammatico emerge, però, da questa sessione live che ci restituisce un umore solido ed eclettico, accogliente e informale come se ci si trovasse ad una serata tra amici.

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James Brandon Lewis Trio – Eye of I (ANTI- Records, 2023)

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Recensione di Mario Grella

È stato detto, quasi sempre in tono dispregiativo, che il jazz è un genere musicale per intellettuali, anzi per “intellettualoidi”. Antonio Gramsci in uno dei suoi più noti passi dei “Quaderni dal carcere”, scriveva che “tutti gli uomini sono intellettuali, ma non tutti svolgono la funzione di intellettuali”. Essendo io di stretta osservanza gramsciana, non posso che condividerne il pensiero. Se poi qualche dubbio in proposito vi resta e lo volete fugare al più presto, non dovrete far altro che acquistare Eye of I l’ultimo disco di James Brandon Lewis, uscito da qualche giorno per l’etichetta ANTI- Records e che vede, oltre che Brandon Lewis al sax tenore, Chris Hoffman al violoncello e Max Jaffe alla batteria e  percussioni. Certo che chi avesse ancora nelle orecchie le storie dell’agronomo George Washington Carver, raccontato in Jesup Wagon, probabilmente penserebbe che si tratti del disco di un altro musicista, sia per sonorità che per tematiche, ma questo ribaltamento di obiettivi poetici e musicali, questa concezione diversa della musica, insomma questa versatilità multiforme, non sono segno di debolezza, ma anzi punto di forza di James Brandon Lewis. E non solo questo, poiché Eye of I è anche la dimostrazione teoretica che il jazz, non è affatto esclusivamente cibo per la mente contorta di eccentrici “intellettuali”, ma una prova di forza della musica stessa e delle capacità dell’uomo di crearla e veicolarla.

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Joe Chambers – Dance Kobina (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Arrivato agli ottant’anni sembra che Joe Chambers, anche a giudicare dalla posa un po’ guascona con la quale appare in copertina di questo nuovo Dance Kobina, mantenga un atteggiamento sufficientemente spavaldo senza avere alcuna intenzione di recedere dai suoi progetti creativi. Da questo punto di vista Chambers è un musicista che pare sempre sospeso in uno stato perdurante di grazia e tutto ciò lo dimostra annunciandosi in un nuovo album ricco di ritmi ma leggero come una nuvola. Questo suo procedere, pragmatico nel non disperdersi in superflue evoluzioni strutturali e costantemente vitalistico nelle linee espressive, viene giustamente premiato da un lavoro formalmente perfetto anche se non compare, in assoluto, niente di particolarmente nuovo. Ma da un batterista come lui, uno di quelli che hanno fatto la storia del jazz e se vogliamo pure della Blue Note – la recensione del suo precedente lavoro Samba de Maracatu e ulteriori informazioni sulla sua identità artistica potete rintracciarle qui – non ci si aspetta uno spavaldo orizzontismo di frontiera ma piuttosto proprio un album come questo, generoso nella sostanza, con un’identità locativa centrata sul jazz ma non fossilizzata in territori risaputi. Così com’era accaduto per il suo lavoro precedente, il titolo di quest’album può trarre in inganno, dato che il termine congolese Kobina significa “ballare”. Chi si aspetta quindi un lavoro dance infarcito di percussioni esotiche resterà ovviamente deluso. Non che in questo disco manchino aspetti ritmici e percussivi a suggerire l’influenza di matrici africane o latine – del resto la tecnica di Chambers, in questo album, coaudiuvata o meno da altri percussionisti, è in grado di assorbire e rielaborare qualsiasi stimolo poliritmico – ma l’impronta definitiva che si avverte è quella di un jazz che pare bastare quasi a sé stesso, focalizzato ma non sclerotizzato nella tradizione e inoltre alieno da qualsiasi nomadismo etnico.

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Fabrizio Poggi – Basement Blues (Appaloosa Records / IRD, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Furlan

“Il mio incontro con il blues ha avuto luogo molti anni fa, alla fine degli anni settanta, quando vidi per la prima volta in un piccolo cinema italiano The Last Waltz, il film d’addio di The Band e rimasi colpito dal carisma di Muddy Waters e dall’incredibile suono dell’armonica di Paul Butterfield” (Fabrizio Poggi)

L’ispirazione per Basement Blues, il 25° album di Fabrizio Poggi, è nata dopo aver ricevuto in regalo da Angelina, la sua compagna di vita, una perfetta riproduzione in miniatura della Big Pink (in bella mostra in copertina), la famosa casa rosa dove Bob Dylan e The Band si rifugiarono per registrare i leggendari The Basement Tapes.

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