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Lonnie Holley – Oh Me Oh My (Jagjaguwar, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

La bellezza della musica sta nel fatto che quando ritieni di aver scoperto tutto e quando pensi che difficilmente proverai una particolare emozione, ecco spuntare qualcosa di nuovo ad attenderti dietro l’angolo. A volte hai a che fare con una bella sorpresa, altre meno, ma non è questo il punto. La musica è quel tipo di arte che ti fa immaginare colori e sfumature là dove ci sono solo note e che ti mostra paesaggi paradisiaci o sobborghi disagiati di una metropoli ad ogni cambio di melodia. La musica è il viaggio più lungo che potrai mai fare nella tua vita senza esserti mosso di casa o dalla scrivania del tuo ufficio. Ed è in questo modo che ho abbracciato la proposta di Lonnie Holley, un artista anomalo e completamente fuori dagli schemi. Non voglio fare l’esperto dai gusti ricercati, mi piacerebbe raccontarvi che circa dieci anni fa ascoltai il suo esordio e ne rimasi folgorato, ma in verità, fino ad oggi non ero a conoscenza di questo portento e per questo motivo mi limito solo a introdurvi nel suo mondo. Desidero infatti raccontarvi la storia di un settantatreenne che solo nel 2012 è arrivato al traguardo del suo primo disco e che oggi presenta il settimo lavoro in studio dopo aver passato una vita come artista concettuale dedito alla creazione di opere di assemblaggio realizzate con materiali di recupero. Mister Holley ha visto di tutto, da bambino quando è stato venduto per una bottiglia di whisky, per passare a lavorare come scavatore di tombe fino al dedicarsi alla raccolta del cotone nel suo Alabama. Tutta l’esperienza l’ha concentrata nei suoi dischi e azzarderei dire che questo nuovo Oh Me, Oh My corrisponde alla summa e all’essenza del suo messaggio.

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Angel Olsen – Whole New Mess (Jagjaguwar, 2020)

R E C E N S I O N E


Articolo di Antonio Sebastianelli

La musica di Angel Olsen è stata in grado di catturarmi sin dal primo ascolto. Era il 2012 e il disco lo splendido Half Way Home. In quelle canzoni sembrava rivivere l’intensità e lo spirito di Roy Orbison e una certa tradizione americana, rivista però con una sensibilità fuori dal comunque, figlia anche di quello che era accaduto nei ‘90 e nel primo decennio di questo secolo. Con il disco del 2019 All Mirrors la maturazione di questa giovane sirena giungeva a compimento. Un disco una volta ancora intenso, ma anche poliedrico, sfaccettato, in grado di inglobare momenti folky ad altri più elettronici e sperimentali e raggiungendo la quadratura del cerchio con la splendida Chance, senza se e senza ma una delle canzoni più belle degli ultimi venti anni. All Mirrors era anche un viaggio doloroso ma necessario verso la solitudine intesa come riscoperta di sé.

Moses Sumney – Græ – part 2 (Jagjaguwar, 2020)

R E C E N S I O N E


Recensione di Antonio Sebastianelli

But morality is grey” (Moses Sumney)

Tre mesi separano la prima parte di Grae dalla seconda. Tre mesi in cui è accaduto di tutto. Il mondo si è risvegliato preda di una pandemia, ha rallentato, si è quasi arrestato, per poi timidamente ripartire proprio in questi giorni. Le otto tracce della parte due rappresentano molto bene questo momento. I ritmi rallentano notevolmente e spesso l’impressione è quella di essere immersi in una sorta di sacco amniotico in cui Moses ha disciolto la propria anima, la linfa vitale della sua musica in costante mutamento.


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Moses Sumney – Græ – part 1 (Jagjaguwar, 2020)

R E C E N S I O N E


Articolo di Antonio Sebastianelli

I insist upon my right to be multiple. I insist upon the recognition of my multiplicity”. (Moses Sumney)

Viviamo strani giorni”, cantava il poeta. Scrivo queste righe battendo con frenesia sopra i tasti del mio portatile. Gli occhi ancora colmi di immagini che fatico a comprendere. Si rincorrono freneticamente come uccelli impazziti. Parlano di zone rosse e stazioni prese d’assalto, neanche fossimo prossimi all’Apocalisse. Nelle orecchie, ad alleviare l’ansia del momento, il canto di un giovane uomo con l’anima divisa, intento con disarmante incanto, a cesellare e ordinare suoni, parole, colori. Moses Sumney.


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Angel Olsen – All Mirrors (Jagjaguwar, 2019)

R E C E N S I O N E


Articolo di Alessandro Berni

Questo disco è lo sviluppo imprevisto di come le intime connessioni di Angel Olsen con il patrimonio di cinque decadi di musica, siano state in grado di produrre – dati i precedenti della cantautrice statunitense – un effetto sorpresa difficilmente immaginabile. Ennesima esponente della trafila sterminata delle eroine maudit dall’apparenza scontrosa, con il surplus di imbronciato caro alla revisione indie di questi anni, la Olsen riesce a liberarsi dagli esercizi di stile di un canzoniere folk rock dal pilotatissimo gusto retrò, per tentare la carta estrema dell’epica esistenzialista. E i fatti sembrano darle ragione a giudicare da ispirazione e varietà che sprizzano dal nuovo All Mirrors.

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Bon Iver – i,i (Jagjaguwar, 2019)

R E C E N S I O N E


Articolo di Letizia Grassi

Il 9 agosto è arrivato l’autunno, con ben 21 giorni di anticipo sull’anticipo. Già, perché il quarto album dei Bon Iver, previsto in uscita per il 30 agosto, conclude le stagioni cominciate dodici anni fa con l’inverno di For Emma, Forever Ago. L’autunno è la stagione più introspettiva delle quattro, caratterizzata da un repentino cambiamento nei colori e dal mutare costante dei sentimenti, per raggiungere la perfetta malinconia che rende accessibile l’esistenza. E la chiave di lettura dell’intero album si trova proprio nel titolo, da analizzare ancor prima di iniziare l’ascolto. Infatti, la reiterazione del pronome personale i,i potrebbe sottolineare la natura intima del lavoro della band, quel viaggio introspettivo attraverso la musica dei rumori a cui Justin Vernon ci ha sempre abituato.

Photo Credit: Graham Tolbert / Eric Carlson

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Sharon Van Etten – Remind Me Tomorrow (Jagjaguwar, 2019)

R E C E N S I O N E


Articolo di Alessandro Berni

Che Sharon Van Etten fosse già un nome percepito da molti in questi anni come esempio di alta qualità a livello musicale nel cantautorato contemporaneo, è vicenda nota. Non più di cinque anni fa una tappa cruciale, un album di pregevole fattura come “Are We There” riscuote consensi pressoché unanimi quale ulteriore tassello alla lunga stagione del folk-rock revival rivisto in codice millennial. Melodie grondanti musicalità e malinconia, ora pulite ora squarciate di elettricità. Liriche che ne assecondano il mood tra sofferenza e rivisitazione esistenzialista, mix smagliante di arrangiamenti pronunciati e produzione forbita.
Il ritorno agognato e meditato a lungo, sorprende una Van Etten riveduta e ridefinita nel suo sistema di pensiero dagli studi di psicologia e dalla nascita del figlio, evento incisivo e non casuale nella stesura della trama del disco e delle visioni che lo accompagnano sin dall’immagine di copertina. “Remind Me Tomorrow”. Cos’è questo domani evocato e rappresentato dal titolo? Il pretesto, come suggerito dall’autrice, è l’uso scherzoso dell’avviso di aggiornamento del software “ricordamelo in seguito”, ma la Van Etten lo rigioca nel suo lato profondo ovvero “dare la priorità a quello che è veramente importante per te”.

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