R E C E N S I O N E
Articolo di Antonio Sebastianelli
“I insist upon my right to be multiple. I insist upon the recognition of my multiplicity”. (Moses Sumney)
“Viviamo strani giorni”, cantava il poeta. Scrivo queste righe battendo con frenesia sopra i tasti del mio portatile. Gli occhi ancora colmi di immagini che fatico a comprendere. Si rincorrono freneticamente come uccelli impazziti. Parlano di zone rosse e stazioni prese d’assalto, neanche fossimo prossimi all’Apocalisse. Nelle orecchie, ad alleviare l’ansia del momento, il canto di un giovane uomo con l’anima divisa, intento con disarmante incanto, a cesellare e ordinare suoni, parole, colori. Moses Sumney.
Mi sono imbattuto nel suo primo disco circa tre anni fa, nei consuntivi di fine anno di una nota rivista rock. Mi colpì subito, perché lo si definiva capace di evocare il fantasma di un certo Jeff Buckley e invero in sede di ascolto la cosa veniva in parte confermata. Si avvertiva, pur nella diversità di tempi e modi, una tenera radice comune: una voce duttile capace di passare dal falsetto a un tono più virile e gli arpeggi di elettrica come un pennello nel buio a colorare gli spogli scenari di alcune tracce. Dal punto di vista commerciale il disco si rilevò un flop, nonostante il nostro fosse già padrone di un importante cifra stilistica e artefice di collaborazioni con gente come Thundercat, Solange e James Blake.
A tre anni di distanza, ritorna con un ambizioso album in due parti; la prima, uscita nel mese di febbraio solo in digitale è quella che vedremo a breve; la seconda che completerà il tutto, in maggio. Lo stesso mese vedrà la release di entrambe anche in forma fisica. Difficile parlare di singole canzoni (anche se di canzoni si tratta e nessuna meno che pregevole), il secondo lavoro sulla lunga distanza pare quasi un lungo flusso di coscienza tra soul, elettronica moderata, sincopi jazz e accenni cameristici. Il modo migliore per predisporsi all’ascolto di un’opera simile è lasciarsi trascinare in questo viaggio di scoperta senza preconcetti di sorta. Emergono a tratti piccole oasi di piacere da cui è bello farsi cullare, frammenti, riverberi di suono, intuizioni nuove e vecchi ricordi si fondono e si confondono in quel magma, quel fiume che scorre selvaggio e inquieto che è la musica e l’arte di Moses.
Fa piacere citare l’apripista Cut Me: la voce in falsetto, tanto figlia di Prince quanto pregna di soul meravigliosamente 70’s, fa da cornice a una ballata dai ritmi indolenti e sornioni; come un gatto sonnacchioso che saluta un nuovo sole. Il languore e l’estasi si dispiegano anche nella successiva In Bloom dalle pregevoli fragranze marvingayeiane. Gagarin, voce distorta, andamento jazz, una brezza di vento che trascina grappoli di note di piano; il passato e il futuro che si tengono stretti per mano. E improvvisi pindarici synth che sembrano erigere ghiacciai di suono, la voce aliena che si tramuta in umanissima preghiera. Soprattutto spicca Colouour, dopo quasi due minuti di introduzione di fiati, il nostro riesce a evocare contemporaneamente sia il Buckley di Live at Sin-è sia (non paia irriverente) Nina Simone. Per poi congedarsi con le inquietudini acustiche di Polly e Neither/Nor.
Siamo dalle parti dell’Hunter di Anna Calvi che partendo dal personale giunge a parlare a tutti. Là c’era la scoperta e l’accettazione del proprio corpo e della propria sessualità, qui Moses rivendica la sua molteplicità; il bisogno di scrivere e riscrivere la propria identità. Nella ricerca forse di quella “sfumatura”, di cui parlava Tony Pagoda. La forza di queste preziose tracce che danzano, si trasformano e svaniscono davanti a noi. In attesa della seconda e ultima parte che a questo punto si annuncia imperdibile.
Tracklist:
01. Insula
02. Cut Me
03. In Bloom
04. Virile
05. Conveyor
06. boxes
07. Gagarin
08. jill/jack
09. Colouour
10. also also also and and and
11. Neither/Nor
12. Polly
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