R E C E N S I O N E
Recensione di Andrea Notarangelo
La bellezza della musica sta nel fatto che quando ritieni di aver scoperto tutto e quando pensi che difficilmente proverai una particolare emozione, ecco spuntare qualcosa di nuovo ad attenderti dietro l’angolo. A volte hai a che fare con una bella sorpresa, altre meno, ma non è questo il punto. La musica è quel tipo di arte che ti fa immaginare colori e sfumature là dove ci sono solo note e che ti mostra paesaggi paradisiaci o sobborghi disagiati di una metropoli ad ogni cambio di melodia. La musica è il viaggio più lungo che potrai mai fare nella tua vita senza esserti mosso di casa o dalla scrivania del tuo ufficio. Ed è in questo modo che ho abbracciato la proposta di Lonnie Holley, un artista anomalo e completamente fuori dagli schemi. Non voglio fare l’esperto dai gusti ricercati, mi piacerebbe raccontarvi che circa dieci anni fa ascoltai il suo esordio e ne rimasi folgorato, ma in verità, fino ad oggi non ero a conoscenza di questo portento e per questo motivo mi limito solo a introdurvi nel suo mondo. Desidero infatti raccontarvi la storia di un settantatreenne che solo nel 2012 è arrivato al traguardo del suo primo disco e che oggi presenta il settimo lavoro in studio dopo aver passato una vita come artista concettuale dedito alla creazione di opere di assemblaggio realizzate con materiali di recupero. Mister Holley ha visto di tutto, da bambino quando è stato venduto per una bottiglia di whisky, per passare a lavorare come scavatore di tombe fino al dedicarsi alla raccolta del cotone nel suo Alabama. Tutta l’esperienza l’ha concentrata nei suoi dischi e azzarderei dire che questo nuovo Oh Me, Oh My corrisponde alla summa e all’essenza del suo messaggio.

Se artisti quali Bruce Springsteen raccontano storie di riscatto, qui si ha a che fare con la realtà statica americana, quella disperata ma che riesce a sorridere nonostante tutto. Il titolo stesso, procede in questa direzione attraverso l’espressione Oh Me, Oh My che a noi italiani dice poco ma che può essere tradotta come “Oh mio dio / wow” e che ha il duplice significato di qualcosa che può sorprenderci o scioccarci. Testing, da vera intro parte proprio con il test di un microfono e una voce forte che ti entra dentro come radici alla disperata ricerca di un po’ d’acqua. A seguire, una I Am a Part of the Wonder sofferta e intensa, con un ritmo funky e interventi di tromba delicati che riportano alla memoria sonorità ormai dimenticate e che hanno fatto la fortuna degli album della discografia classica di David Sylvian. La title track è un gioiellino a sé stante, nella quale il nostro Lonnie si fa accompagnare da Michael Stipe (R.E.M.), in un viaggio di passione e piccoli accordi di piano accennati. Imperdibile la coda, dove uno Stipe angelico crea un effetto stridente dolce amaro mentre si fonde al timbro duro di mister Holley. Earth Will Be There è quasi una preghiera con la voce del nostro artista innalzata a strumento portante fino a quando un ritmo di chiara matrice soul / hip hop cambia totalmente ambientazione e prepara l’ingresso del recitato passionale di Moor Mother (poetessa e musicista che rappresenta metà del collettivo Black Quantum Futurism). Questo pezzo è sicuramente uno dei vertici del disco, ma forse non l’apice definitivo. La successiva Mount Meigs è una canzone dura e aspra come solo l’Alabama sa esserlo. Qui la sperimentazione jazz va a briglia sciolte in un crescendo continuo nel quale solo Davide Rossi prova a mettere ordine attraverso i suoi arrangiamenti degli archi. Il risultato è un caos organizzato di notevole fattura. Menzione particolare va sicuramente a Jacknife Lee, produttore californiano a cui si dovrà gran parte della fortuna di questo disco e a tutti gli ospiti invitati a questa sarabanda sonora. Se infatti c’è una ricchezza che non manca nella vita di Lonnie Holley, è quella degli ‘amici’ che rispondono “presente!” alla sua chiamata; infatti, oltre ai sopracitati artisti, all’interno dell’opera troviamo la cantautrice Sharon Van Etten nella delicata None of Us Have But a Little While (forse la canzone più bella del disco), Jeff Parker, chitarrista dei mitici e (giustamente) osannati Tortoise, oltre che Bon Iver, il quale impreziosisce con il suo falsetto la dolce Kindness Will Follow Your Tears. Il cornettista Rob Mazurek dona invece il suo contributo nella penultima traccia I Can’t Hush giusto un attimo prima che il viaggio sonoro si concluda nella follia di Future Children.
Oh Me, Oh My non può lasciare indifferenti. Potrebbe non essere il miglior disco che ascolterete, o il vostro preferito in assoluto, ma sicuramente vi sorprenderà e in questi tempi provare un sussulto, un’emozione non è cosa di poco conto. Buon ascolto.
Tracklist:
01. Testing (3:25)
02. I Am A Part Of The Wonder (5:49)
03. Oh Me, Oh My (5:50)
04. Earth Will Be There (5:47)
05. Mount Meigs (4:26)
06. Better Get That Crop In Soon (4:22)
07. Kindness Will Follow Your Tears (4:37)
08. None Of Us Have But A Little While (4:30)
09. If We Get Lost They Will Find Us (4:25)
10. I Can’t Hush (4:51)
11. Future Children (2:21)
Photo © Phil Sharp
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