Articolo di Mauro Savino.
I The National si sono fatti riprendere prima di salire sul palco. Così quando sono entrati, la suspense non c’era più. Palco sconsacrato. Come giocatori prima di una partita hanno offerto la loro immagine del pre-ingresso in campo. La loro è stata una partita di contatto e distacco dal pubblico. Il distacco era nell’aura d’inquietudine assorta che circondava il cantante e nel grigio come colore di sfondo. La partecipazione c’è stata, da ambo le parti. Berninger è andato nel pubblico, col pubblico ha cantato, ha gettato vino per aria e ne ha bevuto troppo (se è un’esigenza è umano, troppo umano, se è per sentirsi rock è un po’ démodé, anche perché i The National non fanno rock).
Ma della comunicazione gruppo-pubblico si può occupare la cronaca. Il fattuccio del concerto con la gente sotto al palco è affare di chi c’era e di chi racconta di chi c’era.
È dell’espressione che ci si deve occupare, in questo secolo, sia detto per inciso, di cronisti e selfie e vite in vetrina, che ci hanno allontanato dagli occhi del nostro prossimo.
I The National forniscono, e lo hanno fatto anche in questa occasione, la loro versione del tramonto dell’Occidente. I toni baritonali di Berninger si confanno a questo quadro di critica della ragion occidentale. È vero che la versione strumentale (visto che il testo non è proprio patriottico: la politica ha anche di queste contraddizioni) di Fake Empire ha fatto da intro alle uscite elettorali di Obama, ma Obama è parte di quel tramonto: il Presidente nero non è Kennedy, non ha concetti di frontiera da proporre e la Crisi è peggio del Vietnam. I The National, che hanno riferimenti culturali solidi lo sanno, ma il calco della speranza, almeno quello, può ben essere coltivato.
Il grigio delle proiezioni è quello che ci portiamo dentro dall’11 settembre: dopo aver fatto la guerra al terrorismo, portato la democrazia e la libertà in Iraq e visto gente della California senza casa per la recessione internazionale (partita comunque dagli USA, si leggano i reports degli economisti non politically correct) e visto gente di questa generazione andare a raccogliere frutta in Australia pur di non morire di tristezza nella valle desolata d’Occidente e visto laureati pulire piastre del MacDonald con il loro bel pezzo di carta in pergamena.
E allora le atmosfere sono sommesse, salvo poi esplodere in urla liberatorie di tanto in tanto, perché è inutile gridare col vento in bocca.
C’è posto per demoni e piagnoni e gente che si lascia nei loro testi. E un bisogno estremo di trovare una ragione per continuare a resistere in un mondo in cui la quotidiana resistenza è l’unica forma di eroismo rimasta.
Alla fine, una prova acustica ha creato l’atmosfera del tutti intorno al fuoco.
“Vivo in una città che il dolore ha costruito”, dice un loro testo (Sorrow).
Continuiamo a sposarci e ad accendere mutui, è vero.
Ma l’umanità sta acquisendo irrevocabilmente la consapevolezza di vivere in un mondo che si avvia verso un lungo, prolungato e ignoto finire. Nel frattempo si ride poco, ci si vede ancora meno e si vanno a sentire i The National.
[Foto di Musacchio & Ianniello]
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