Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Starfooker

Sale sul palco per ultimo, dopo che i tre musicisti che lo accompagnano hanno già occupato le loro posizioni. Indossa un maglione tra il verde scuro e il blu, non si vede molto bene nel buio del locale; un paio di jeans sgualciti, la barba bianca ispida come da foto promozionali, i capelli spettinati, un paio di occhiali da intellettuale che ripone con cura nella loro custodia appena prima di imbracciare la chitarra e far partire la magia.

Flavio Giurato è questo tipo qui. Uno che se lo incontrassi in giro per strada non gli daresti una lira, passerebbe inosservato come uno dei tanti passanti che affollano quella Roma dove vive e lavora da sempre. Neppure ti immagineresti che fa il musicista, con quell’aria assorta e trasandata tipica di chi è immerso nel suo mondo, ci si trova benissimo e intende restarci, noncurante di quello che nel frattempo può accadere di fuori.
Verrebbe tradito dagli occhi, però. Quelli sì, rivelerebbero la verità sulla sua natura. Lo sguardo di Flavio, è questione di istanti, di lampi, si accende di una luce viva, curiosa, insaziabile. Guarda i suoi musicisti quasi con timidezza, mentre definiscono rapidamente qualche dettaglio prima di passare al prossimo brano; a volte sembra addirittura disorientato; ma è solo questione di attimi: quando quello sguardo si accende, non ce n’è per nessuno. È lo sguardo con cui molto probabilmente è stato scritto e registrato “Le promesse del mondo”, che è stato semplicemente il disco italiano più importante di tutto il 2017, almeno per chi scrive, anche se non proprio tutti se ne sono accorti.
Raccontare il presente drammatico dell’immigrazione attingendo all’esperienza del passato, facendo incrociare e sovrapporre epoche storiche differenti, unite solamente da quella scia di sangue, violenza, speranza e amore che gli uomini si sono sempre portati dietro, mentre lottavano per affermare il loro desiderio di felicità, mentre arrancavano per non essere uccisi, per non essere dimenticati.

Lo ha raccontato usando quelle tecniche di narrazione che ci sono note da tempo: melodie semplici e scarne, come se esistessero da sempre, un linguaggio tagliente e a tratti disturbante, dove la crudeltà di una Murder Ballad incrocia la scura narrativa di un De Cataldo, dove l’utilizzo del romanesco, del napoletano, dell’inglese, conferisce un senso di universalità a storie che già di per sé appartengono a tutti.
Niente di nuovo, dirà chi lo conosce: sono decenni che il cantautore romano ci delizia con dischi che ci parlano della vita senza nessun abbellimento; sono decenni che scrive canzoni che siano al servizio della verità.
Questa volta però è andato oltre: non solo perché le canzoni sono nel complesso meglio riuscite, più scorrevoli di quelle, pur meravigliose, del precedente “La scomparsa di Maiorana”. Ma anche perché il tema scelto è un tema del nostro tempo, un tema che ci tocca tutti, un tema da cui non si può scappare. E Flavio ha saputo raccontarlo magnificamente, senza la minima ombra di sentimentalismo o retorica, senza il timore di apparire scomodo e disturbante (provate ad ascoltare la title track senza provare un senso di fastidio, se ne siete capaci) ma riuscendo allo stesso tempo a trasmettere speranza e positività, nella consapevolezza che certe cose sono sempre avvenute, che l’uomo rimane costantemente uguale a se stesso e che, per fortuna, esiste anche gente che lavora per il bene: da questo punto di vista “In mezzo al cammino”, dedicata alla figura di Papa Francesco, appare quasi fuori posto in mezzo a tanta oscurità ma proprio per questo risulta emozionante e commovente come poche.

Ecco, un concerto di Flavio Giurato tiene conto di tutto questo e lo mette in scena con serietà ma allo stesso tempo con noncuranza; si parla della vita, della morte, del cuore delle aspirazioni dell’uomo; nello stesso tempo, però, si tratta di un concerto, di gente che è venuta qui per divertirsi. C’è questa serietà, c’è questa urgenza ma c’è anche il divertimento, l’intrattenimento. E Giurato, da questo punto di vista, è un ottimo performer, pur limitandosi a cantare da seduto, con la sua chitarra acustica.
Il nuovo disco si prende tutta la prima parte del concerto e viene suonato quasi tutto, più o meno in ordine di scaletta. Manca “Snuff Song”, l’unico brano cantato interamente in inglese e sorprende un po’ questa assenza perché in una recente intervista ricordo che il suo autore ne aveva parlato come di un episodio importante. Le altre ci sono tutte (tranne “Agua mineral” ma perché è stata lasciata per i bis) e pur eseguite in versioni più ruspanti e vagamente trasandate rispetto a quelle ascoltate in studio (che comunque avevano già un certo feeling di improvvisazione live) riescono ugualmente a fare il loro dovere e a trasmettere quel senso di potenza e di drammaticità che ce le hanno fatte amare.
I musicisti che lo accompagnano sono gli stessi che hanno suonato sul disco e si vede che c’è una bella sinergia, nonostante sul palco non accadano poi chissà quali cose e i brani siano arrangiati in modo tutto sommato semplice, con gli strumenti che fungono soprattutto da accompagnamento per le melodie portanti. Il chitarrista Mattia Candeloro (che tra una cosa e l’altra svolge anche il ruolo di tecnico, visto che approfitta delle pause per accordare gli strumenti) si occupa soprattutto di punteggiare le ritmiche di Flavio con fraseggi, armonici ed effetti vari, prodotti sia con un po’ di elettronica, sia in modi più improvvisati (per esempio con un cacciavite) rimanendo comunque sempre molto discreto sullo sfondo. Federico Zanetti al basso (unico strumento elettrico in un concerto prevalentemente acustico) è il motore ritmico della band mentre il batterista Daniele Ciucci Giuliani tiene il tempo ed è responsabile dei crescendo e di tutti i cambi di ritmo che vanno ad arricchire le narrazioni, punteggiandole di umori differenti.

A tenere unito il tutto, a catalizzare l’attenzione, la voce e il carisma di Flavio, che fa riaccadere i brani con semplicità e potenza, tanto che è praticamente impossibile staccargli gli occhi di dosso. Difficile, da questo punto di vista, indicare un brano piuttosto che un altro, tanto alta è stata l’intensità emotiva. Vero comunque che, se proprio dovessimo scegliere, allora la “Digos” eseguita in solitaria vincerebbe a mani basse, complice un’esecuzione da brividi che ha valorizzato ancora di più un racconto poliziesco che si muove come un film condito di surrealismo noir.
Terminato il disco, dopo una “In mezzo al cammino” davvero intensa, c’è una breve pausa che dura qualche minuto più del necessario ma durante la quale il pubblico, variegato per età e sempre molto partecipe e composto, non ha smesso un istante di chiamare i quattro musicisti e di urlare a gran voce i titoli delle canzoni più datate.
La seconda sezione, in effetti, è organizzata sul vecchio repertorio. Si comincia con “Centocelle” per proseguire poi con una meravigliosa “Marco e Monica”, dal capolavoro “Marco Polo”. Poi, inevitabile, “La scomparsa di Maiorana”, affascinante nel rileggere alla sua maniera le vicende misteriose del celebre fisico. C’è spazio anche per una bellissima “Marcia nuziale” che, a quanto ci viene detto, è una di quelle che gli chiedono di più e che viene eseguita per la prima volta nel Nord Italia. “Mauro” e “Il rondone” arrivano invece dall’esordio “Per futili motivi” mentre la chiusura è affidata ad “Agua Mineral”, con Flavio che racconta la genesi del pezzo, concepita da bambino mentre si trovava in Argentina a seguito del padre, impegnato come diplomatico in Sudamerica. “È una canzone che mi ha accompagnato per tutta la vita, praticamente ci ho messo sessant’anni a scriverla, adesso posso dirvi che quel bambino dagli occhi azzurri che guarda la bottiglia d’acqua ero io.” ha detto in quello che è stato uno dei pochissimi scambi col pubblico.

Sarebbe finita qui e infatti i quattro lasciano il palco ma Flavio ritorna poco dopo, richiamato dagli applausi dei presenti, che non hanno nessuna intenzione di lasciarlo andare via. Il nostro ritorna, recita la parte in inglese che racconta la storia di “Marco Polo” e si lancia ne “Il tuffatore”, che è il suo brano simbolo e che probabilmente nessuno avrebbe rinunciato ad ascoltare.
È di qualche mese fa la notizia che La Salumeria della musica chiuderà al termine della stagione. Troppo alti i costi di gestione, a fronte di un pubblico che ultimamente non rispondeva benissimo ad una programmazione un po’ troppo di nicchia. Rimane la consolazione di avervi visto uno dei migliori artisti italiani, in un contesto bellissimo e con una partecipazione comunque discreta. Difficile dire quale sarà il futuro della musica dal vivo in Italia ma rimane necessario che uno come Flavio Giurato resista il più possibile, a portare in giro la bellezza, sempre e comunque.