Ci sono album che ti cambiano la vita, album che ti entrano così prepotentemente dentro che ti accompagneranno per tutta la tua esistenza e che, anche quando penserai di essere andato oltre, saranno lì ad aspettarti pazientemente in un angolino della libreria, pronti a sbucare di nuovo fuori in un momento di nostalgia per il passato o di ilarità durante una cena tra amici…
Metti ad esempio dieci persone appassionate di musica che si incontrano in una pizzeria, si ride, si scherza, ci si prende in giro sui gusti musicali dell’uno o dell’altro e, all’improvviso, qualcuno pronuncia la fatidica domanda: qual è stato il primo Lp che hai acquistato?…di qui l’idea di creare Never Say Goodbye, una rubrica dedicata alle perle musicali del passato, perché per quanto ci si possa allontanare lungo la strada, non bisogna mai dimenticare da dove si viene.
Articolo di Stefania D’Egidio
Il primo album che ho amato alla follia e di cui vi parlerò nella rubrica Never Say Goodbye è stato Arena dei Duran Duran, una raccolta live registrata durante il tour mondiale del 1984 e pubblicata dalla casa discografica Emi.
Arena rappresenta il capitolo finale della prima vita dei Duran Duran, ma allora non lo sapevo ancora, avevo appena nove anni e tutti a scuola andavano matti per loro, i tre album precedenti (Duran Duran, Rio e Seven and the Ragged Tiger) avevano fatto di loro i leader incontrastati di tutto il movimento New Romantic e Arena sembrava rappresentare l’apice del successo, non l’inizio di un lento declino durato fino alla fine degli anni ‘90. Copertina futuristica, blu, con disegnato il mirino di una macchina fotografica e al centro una foto di loro cinque con il look che li ha sempre contraddistinti, dentro una serie di fotoritratti dei miei beniamini e sul retro la tracklist su sfondo rosso.
L’inizio è da brividi con la grancassa di Roger Taylor che fa da intro a Is there something I should know?, apre agli arpeggi di Andy, e in sottofondo, ma sempre onnipresenti, il basso funky di John e il sintetizzatore di Nick, il Deus ex machina della band. Sul finale, come una ciliegina sulla torta, l’assolo di sax di Andy Hamilton.
Il secondo brano è uno dei più famosi del loro repertorio: Hungry Like the Wolf, uno dei singoli tratti dal fortunatissimo album Rio, il tormentone dell’estate 1982, accompagnato da un video di altrettanto successo, diretto da Russell Mulcahy, che vedeva Simon impegnato in una serie di avventure alla Indiana Jones in terra di Sri Lanka. Brano veloce, molto orecchiabile, ancora adesso scelto per la colonna sonora di diverse serie televisive.
Anche il successivo, New Religion, è tratto da Rio ed è tra i miei pezzi preferiti per il ritmo incalzante di basso e batteria, per la chitarra tagliente sullo sfondo, per il crossover con il rap che nel ’82 in Italia era un oggetto misterioso, solo un paio di anni dopo avremmo conosciuto Run DMC e Beastie Boys. Il ritornello è di quelli che ti martellavano in testa per ore e ore (I’m talking for free/ I can’t stop myself, it’s a New Religion).
Il quarto pezzo non ha bisogno di presentazioni: Save a Prayer è stata la colonna sonora della mia infanzia e di tutto il decennio, il lento per eccellenza, quello che tuttora non manca mai nei loro live; un brano di una potenza tale che ancora oggi quando lo riascolto in radio mi viene la pelle d’oca, esattamente come trent’anni fa. L’arpeggio di synth è inconfondibile, l’assolo di chitarra, nella sua semplicità, tra i più belli che abbia sentito, il ritornello, indimenticabile, da cantare a squarciagola con gli accendini rivolti al cielo.
Wild Boys è la traccia più tribale dell’album, non presente negli album precedenti e l’unico dell’album Arena a essere stato registrato in studio, con produttore un certo Nile Rodgers degli Chic, di cui i DD erano grandi fans. Il brano era ispirato al romanzo di William S. Burroughs del 1971 da cui Russel Mulcahy voleva trarre un film, propose così alla band di curarne la colonna sonora, ma in realtà non si andò mai oltre il videoclip della canzone. Fu un successo planetario, ricordo ancora quando la presentarono a Sanremo, con Simon che cantava con la gamba ingessata per una frattura e orde di ragazzine impazzite ad aspettarli fuori, con un livello di isteria collettiva che non si vedeva dai tempi dei Beatles. Anche la realizzazione del video fu un’impresa epocale: si presentarono alle audizioni oltre 6.000 aspiranti ballerini, con una scenografia postnucleare alla Mad Max, con Simon che, legato ad una ruota, veniva torturato facendolo girare a testa in giù nell’acqua e gli altri componenti della band intrappolati in gabbie da un misterioso nemico.
Dopo il ritmo scatenato di Wild Boys, le lentissime The Seventh Stranger e The Chaffeur, i pezzi dove si nota di più il particolare timbro di voce di Simon, sicuramente non una voce rock, non tra le voci più belle del panorama musicale mondiale, se paragonata a quella di Freddie Mercury o di Robert Plant, ma originale nel suo stile e che è migliorata costantemente negli anni; del resto anche Lou Reed e Bob Dylan non hanno delle voci straordinarie eppure hanno segnato un’epoca…
Dopo il sound rassicurante di The Seventh Stranger e The Chaffeur, di nuovo una tempesta di suoni con Union of the Snake, dove la fanno da padrone le tastiere di Nick, e la ritmata Planet Earth, dal primo album del 1981, con il suo ritornello inconfondibile (this is planet earth/you’re looking at planet earth bop bop bop bop bop bop …): ho sempre pensato a questa canzone come all’evoluzione naturale di Space Oddity di David Bowie di cui i cinque di Birmingham sono stati fin da ragazzini ammiratori..
Chiude l’album Careless Memories, sempre dal primo album, il pezzo più punk in assoluto della discografia duraniana, dove Andy, che era quello meglio dotato dal punto di vista tecnico, poteva dare sfogo alla sua indole rock.
Etichettati spesso come boy band, i Duran Duran hanno segnato una svolta: è vero, erano giovani e belli, ma sono stati capaci di influenzare con la loro musica, a metà tra rock, funk e pop, e il loro look ricercato, un’intera generazione di ragazzi, sono stati pionieri di un nuovo genere musicale, sono stati la prima band inglese a essere trasmessa su MTV, per l’audacia dei loro video che raccontavano delle vere e proprie storie: sono stati in un certo senso gli inventori del cortometraggio, con cifre da capogiro anche per i tempi moderni, hanno portato con i loro videoclip i fans in giro per il mondo, quando ancora non era così facile muoversi da una parte all’altra, dalle Antille francesi allo Sri Lanka, e poi ancora a Parigi dentro la Tour Eiffel per la colonna sonora di James Bond. Hanno messo per la prima volta l’immagine sullo stesso piano della musica: non dobbiamo dimenticare che il sogno degli hippies era appena tramontato, erano gli anni del capitalismo sfrenato e i Duran Duran incarnavano una generazione che avrebbe solo voluto avere tanti soldi, belle donne e yacht favolosi, non è cambiato molto da allora a ben guardarsi in giro…in fondo facevano la vita che tutti sognavano di fare, ma che solo loro potevano permettersi, dobbiamo fargliene una colpa?
I puristi storcono il naso quando si parla di Duran Duran, ma poi comprano i dischi di Blur, Franz Ferdinand, Kaiser Chiefs e Suede, che altro non sono che una versione 2.0 dei cinque di Birmingham.
La prossima volta vi parlerò di un album storico per l’hard rock mondiale!
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