Articolo di Eleonora Montesanti
Ho incontrato Camilla in un caldo pomeriggio d’autunno in un parco di Milano, tra le Colonne di San Lorenzo e la Darsena. Nei giorni precedenti ho ascoltato molto il suo disco, Sentimento Popolare, e avevo la necessità di trasformare questo ascolto in un’esperienza totalizzante, entrando nell’universo di Camilla anche attraverso i suoi racconti.
Ne è uscita un’intervista densa e ricchissima di storie magnifiche e riflessioni importanti.
Da leggere tutta d’un fiato!
Camilla, partiamo proprio dall’inizio. Ricordi un momento preciso in cui hai capito che la musica e il canto avrebbero avuto un ruolo così importante per te?
Partendo proprio dalle origini, posso dire di avere avuto la fortuna di essere stata molto incoraggiata da bambina, sia a scuola, sia dalla famiglia. Ho iniziato dal disegno: avevo una maestra molto esigente che però ci faceva lavorare bene sulla creatività a tutto tondo. Fin dall’asilo, quindi, tutti davano già per scontato che avrei intrapreso un percorso artistico. Anche in famiglia ho trovato degli stimoli, anche se ovviamente sono sempre stati un po’ spaventati da questa scelta.
Per quel che riguarda la musica, ho iniziato a cantare con alcune band a quattordici anni, quando ero timida a livelli incredibili. Al contempo, al liceo, facevo un corso di teatro, dove ho avuto incontri preziosi e anche un po’ matti che mi hanno stimolata molto. All’interno del laboratorio di teatro ho iniziato anche a cantare.
Più avanti, con un amico, che fra l’altro è il fratello di Raffaele Kohler (che poi ha fatto scelte diversissime nella vita) cantavo in una band in una cantina sgarruppatissima, facevamo una cover di Jimi Hendrix, Wild thing, e poi facevamo blues, qualche pezzazzo così.
Lo studio vero è iniziato dopo, verso i diciotto anni, quando ho iniziato canto lirico e jazz alle scuole civiche, però non mi sono mai diplomata in canto.
Come ha avuto inizio, invece, il tuo grande amore nei confronti della musica popolare e del sud del mondo?
Questa cosa la devo soprattutto alla mia esperienza artistica e umana con l’Africa. Ho avuto la fortuna di fare questo viaggio pazzesco con il Teatro del Sole di Milano e la mia maestra Serena Sartori (a cui è dedicato il mio disco Sentimento popolare). Lei, figlia d’arte di Amleto Sartori (grande mascheraio e scultore di maschere) era un pezzo importante del teatro di ricerca, a partire dagli anni ’70 (è stata a lungo nella compagnia di Dario Fo). Prima di quell’incontro, come tutte le persone della mia generazione, io ascoltavo molto rock inglese e americano (tutt’ora lo ascolto). Al Teatro del Sole, invece, ci facevano ascoltare Moni Ovadia, Le Mistere de Voix Bulgares, Philipp Glass, Diamanda Galas, … E poi ci hanno portati in Africa: quando avevo vent’anni ho fatto la mia prima esperienza di festival a Bamako in Mali e lì, va beh, già ero sciroccata di mio e lì sono andata fuori strada proprio definitivamente! Ho vissuto esperienze incredibili in questo progetto in collaborazione con l’Istituto Nazionale d’Arte di Bamako. Poter vedere cos’è la musica per loro, poter scoprire che non c’è l’esibizione ma la ritualità. Da quel momento ho iniziato ad ascoltare tantissima…
[un cane ci corre incontro, sale sulla nostra panchina e si siede sul registratore, ascolta Camilla per qualche secondo e poi se ne va]
Dicevo, da quel momento le mie zone di grandissimo amore e conoscenza sono quelle lì: prima l’Africa subsahariana, poi la musica nordafricana, medio orientale, balcanica, e poi anche quella italiana.
Parliamo di Sentimento Popolare, il tuo disco. Si può dire che sia proprio un sentimento il filo conduttore che unisce tutte le canzoni? Che sentimento pensi che sia?
Ho una visione rispetto a questo disco che ho individuato nei colori primari. Mi spiego: per esempio il cantautorato, secondo me, esprime dei grigi e delle zone intermedie, mentre la musica popolare è una gamma di colori accesi, rappresentati dalle passioni più rudimentali: l’allegria più sfrenata, la gioia, il lutto, … Parlando della musica tradizionale, essa scandisce momenti salienti della vita delle persone e delle comunità. Quindi l’amore, il corteggiamento e la relazione in tutte le sue sfumature (noi come italiani siamo ultra produttivi in questo senso). Poi l’amore filiale, l’esilio. Questo ho trovato nelle canzoni che mi piacevano.
Qui non c’è il male di vivere, in Africa non ci sono canzoni che si piangono addosso, anzi, dato che molto spesso si tratta di Paesi dove fai la fame, la morte ce l’hai come compagna, come presenza continua e, proprio per questo, ad essa c’è una reazione molto vitale. E’ una festa, non intesa come leggerezza, ma come festeggiamento della vita stessa.
Il potere di questo disco è racchiuso nella pluralità. Molti paesi, molti strumenti, molti musicisti. Tutto è fluido, tutto è meticcio e non esistono confini. Ascoltandolo si ha davvero la sensazione, meravigliosa, di appartenere al mondo. Questo per te ha un’importanza?
Cavoli, sì, tantissimo! Se è così, io sono molto felice, perché è una risposta ad un mondo che si è un po’ ristretto. La mia grande fortuna è stata proprio l’incontro con l’Africa (ma poteva essere qualsiasi altro luogo extra-occidentale), perché ho sempre vissuto la cultura africana a orecchie basse, come al cospetto di una grande opportunità per vedere, imparare e abbeverarmi da una meraviglia assoluta. Mi ricordo di essere stata a questa festa tradizionale dove mi sentivo proprio in estasi. Suonavano e ballavano in stato di grazia. E’ stata un’esperienza collettiva, ho capito che era come un organismo che viveva felicemente il fatto di essere lì tutti assieme, in un momento di bellezza e di poesia.
Quindi, rispetto alle altre culture, ho scardinato lo schema per cui noi andiamo là a insegnare qualcosa o ad aiutare (ride). A me ha aiutato l’Africa! Rispetto a queste culture, io ho la sensazione di ricevere aiuto e nutrimento. E’ un’opportunità incredibile.
Il fatto del meticciato, sì, mi piace tantissimo, anzi, spero che la musica e il mondo lo diventino ancora di più!
Anche nel mio disco ci sono dei musicisti con origini diverse che sono dei compagni di strada da molto tempo. Uno di questi è Baba Djarra, un griot burkinabè che ho incontrato in Burkina vent’anni fa. Suoniamo insieme in un progetto che si chiama Metrobrousse, che mescola canti italiani di tradizione rurale e ritmiche appartenenti al suo mondo, quello del griottismo.
E, a proposito di musicisti… il valore aggiunto della tua famiglia di musicisti qual è stato in questo disco?
Effettivamente anche qui, tra i musicisti, ci sono molte proveniente diverse. Ci sono i musicisti italiani come me, che non posso credere di avere al mio fianco perché sono musicisti eccezionali, sia come strumentisti, sia proprio umanamente.
Ma mi trovo molto bene anche quando suono con musicisti che provengono da altri mondi. Nel disco c’è Nabil Hamai, violinista algerino che vive a Torino, poi c’è Rufin Doh, anche lui africano. Con Naby Eco Camara, invece, abbiamo fatto un baratto: di solito non collaboriamo frequentemente, ma io ho fatto i cori nel suo disco e lui è venuto a suonare il balafon nel mio. E poi, appunto, c’è Baba Djarra, di cui ho già parlato prima. Ciò che mi dispiace, però, è che magari non ci sono molte donne, solo la violinista Eloisa Manera. Purtroppo questa volta è andata così, è che forse nell’ambito della musica etnica le donne sono ancora una minoranza. Peccato.
Ci tengo molto a ringraziare tutta la squadra. In particolare Fabio Marconi, mio partner musicale da tanti anni, macchina da guerra e uomo della provvidenza. Dovrei fargli un golem, altro che una statua! Non è solo un bravissimo chitarrista, è un mastino del pragmatismo, è un pilastro, e in più, negli anni, i nostri ascolti sono diventati sempre più comuni. E poi, va beh, tutti gli altri musicisti, alcuni più protagonisti del progetto: Alberto Pederneschi alla batteria, Ivo Barbieri al basso, Guido Baldoni alla fisarmonica e sicuramente anche Raffaele Kohler alla tromba. E ovviamente anche tutti gli altri!
Speriamo di riuscire a fare un po’ di concerti con enseble allargato, ma in realtà questo è un progetto fisarmonica che va dal duo al trio in avanti. E’ molto cangiante ogni volta il colore cambia rispetto a chi c’è.
Oltre ai musicisti, ringrazio molto anche Diego Cattaneo, mixatore straordinario a cui questo disco deve molto. Ha fatto un lavoro pazzesco, molto empatico. Ci ha messo del suo e io ne sono molto felice, perché ha saputo creare equilibrio tra suoni, spazi ed estetica. E poi Roberto Zanisi, che si è occupato del master, ha confermato e rispettato molto il lavoro di Diego. Infine dovrei ringraziare anche Renzo Pognant dell’etichetta Felmay, personaggione incredibile della storica etichetta Felmay, che ha sposato il progetto con molta passione.
Il disco è caratterizzato anche da un’identità vocale forte e precisa. Cos’è, per te, l’interpretazione?
La voce è uno strumento particolare, molto duttile, che dà molta scelta nel cantare. Per risponderti, però, mi muoverei su due fronti. Il primo è un senso di gratitudine nei confronti dei maestri che ho avuto (tutti trovati nel teatro, gli insegnanti di canto devo dire che non hanno lasciato nessuna traccia). Loro mi hanno insegnato ad ascoltare e a vivere la prestazione con presenza. Ovviamente c’è bisogno di tanto, tanto studio, perché la musica è anche fatta da devozione e dedizione. Bisogna dedicarsi a cercare di creare le condizioni tecniche per cui lo strumento voce ti segue come desideri. Per me, sia che mi trovi davanti a tre amici o su un palco, quello che conta è il rito. Non so, forse ho sempre cercato di riprodurre quello che ho visto in Mali, dove il pubblico era parte integrante della performance, nel senso che le persone non sono lì perché devono passare una serata, o scappare dai loro pensieri. Lì ho imparato che chi ascolta è altrettanto importante di chi si sta esibendo. Per me vale lo stesso: l’esito di quello che provo su un palcoscenico è diverso se qualcuno davanti a me si sta emozionando.
L’altra cosa riguarda più da vicino l’interpretazione. Penso agli ascolti e alle voci che ho venerato, per cui tutt’ora sono genuflessa, che ho sempre cercato di tenermi stretta. Il nostro Paese, culturalmente parlando, è una colonia dove la musica anglofona e il jazz sono i generi più diffusi. Col tempo, pur ascoltando molta musica inglese e americana, ho capito che il mio abito preferito è un altro. Ci sono voci, musiche e stili più vicine a me anche se, diciamolo, io ad esempio sento molto mie canzoni balcaniche anche se non sono balcanica. Forse tutto questo è una grande contraddizione, ma mi sento più connessa con la musica del Mediterraneo e del sud del mondo.
Mi interessava molto fare un piccolo viaggio attraverso tre brani del disco:
– Chaje shukarje
E’ una canzone di una grandissima cantante macedone, Esma Redzepova, che senz’altro io connetto alla mia bellissima esperienza di cinque anni accanto a Jovica Jovic. Facevo parte del suo enseble e abbiamo fatto una caterva di concerti. Poi ognuno è andato per la sua strada, ma è stato un pezzo di percorso molto importante per me. Tornando al brano, è un pezzo slavo che abbiamo arrangiato in maniera un po’ più gitana e spumeggiante. Devo dire, poi, che sono molto felice anche della presenza dei cori di Toni Deragna, un ragazzo rom attivista e molto in gamba. Così, la canzone è benedetta. E in questo modo anche i rom la apprezzano di più. E io per questo sono orgogliosissima. Puoi immaginare, gongolo!
– Ven Muerte
Mi fa molto piacere che ti sia piaciuto, perché è l’unico pezzo originale. L’ho composto io qualche anno fa per lo spettacolo del Teatro delle Moire intitolato Songs for Edgar. Per il disco l’ho riarrangiato insieme alla magnifica Eloisa Manera, che al violino fa dei numeri incredibili, e Fabio Marconi al bombardino.
Il testo è di Santa Teresa d’Avila e ha un forte aspetto carnale, dove Cristo viene vissuto come un amante, uno sposo. E’ un tema abbastanza sfizioso e interessante, non isolato nella canzone popolare, che sfiora anche l’erotismo. Santa Teresa in sostanza fa un discorso di languore e struggimento, dice: vieni, vieni morte, ma vieni piano, perché se capisco che sto per raggiungere l’amato mio Cristo, mi risveglio dalla gioia.
Il tema delle sante e delle mistiche (soprattutto del Medio Evo) che vivevano con questa dedizione incredibile mi appassiona molto, tant’è che quasi quasi mi aveva sfagiolato l’idea di fare un lavoro su di loro. Mi interessa molto esplorare queste cose, quasi aberranti, al limite della pazzia e del disagio psichico. Perché ne combinavano di tutti i colori!
Santa Teresa è più gioiosa, ma ad esempio Caterina da Siena compieva delle follie di auto-abnegazione e di mortificazione di sé quasi da non raccontarle per quanto sono vomitevoli, tipo leccare il pavimento della cella. Una serie di cose agghiaccianti.
Però, questa cosa dello stato di alterazione, a me interessa soprattutto nell’estasi e nella trance, che per me sono due cose opposte. Il mondo delle mistiche, e dunque dell’estasi, porta quasi a un’assenza dal corpo. Mentre la trance è un’iper-presenza del corpo, come può essere il ritmo. Venendo dal teatro di ricerca, sono molto interessata all’aspetto antropologico delle cose.
– I mangues the iparhoun pia
Anche a me piace molto questo pezzo! Non ho la pretesa di essere la perona giusta per spiegarne il contesto, ma ho potuto capire che dentro a questo pezzo blues c’è un senso di nostalgia per un mondo che va tutelato. Il significato della canzone riguarderebbe appunto queste figure locali, in Grecia, che erano anche un po’ dei reietti, con un codice d’onore ma anche molto diffidenti. A un certo punto della storia il rebetiko era stato perseguito e se suonavi musica rebetika magari finivi in galera e quindi si era creata, giustamente, una patina di diffidenza. In sostanza la canzone parla del momento in cui, con l’urbanizzazione e lo “sviluppo”, molte realtà popolari sono state fatte fuori.
Come è successo anche a Milano, per dire. Io ho amici più agé di me che mi raccontavano di come via Torino e Piazza Duomo erano quartieri normali e popolari. A partire dagli anni ’80, invece, sono diventati luoghi non luoghi, dove ci sono solo maledette catene e multinazionali che fanno vestiti schifosi sfruttando i poveri cristi del terzo mondo.
Io sento molta coerenza, perché anche in Grecia un certo tipo di sviluppo ha spazzato via molte realtà locali.
Inoltre mi sono ispirata al fatto che la musica rebetika degli anni ’80 era fortemente psichedelica. E io adoro tutto ciò che è psichedelico, soprattutto nei Paesi extra-occidentali: una chitarra elettrica in mano a un tuareg o a un azero dell’Azerbaijan… io vado matta per queste cose!
Se questo disco avesse un colore?
Al di là del fatto che è verde per via della copertina, è molto verde perché c’è molto tema vegetale. Umido, lo sento molto umido. E quindi da un lato mi verrebbe da dire il verde della foresta, di questo giardino meraviglioso dove abitiamo e che trattiamo malissimo. Però poi la verità è che lo sento più rosso. Sono tutti un po’ dei picchi sbudellosi e il colore rosso del sangue è quello che in verità sento più giusto.
Un odore?
Di certo è un odore molto forte. Mi vengono in mente certi odori che senti quando sei nei viaggi in questi luoghi del mondo: cibi, fognature a cielo aperto, ma anche meraviglie come certi incensi d’uso molto comune. Sento anche odore di terra, però più un sottobosco un po’ marcescente.
E un sapore?
Wow! Lo sento vicino alla frutta. Forse a una melagrana, come quella di Garcia Lorca. La melagrana è un po’ drammatica, però è anche croccante e anche un po’ sessuale. E poi è rossa!
Sempre a proposito di pluralità e meticciato, si può dire che anche tu, nei tuoi mille modi di essere artista, non sei da meno. Ti va di fare un breve viaggio fra i vari progetti e alter ego di Camilla Barbarito?
Ma sì, caliamo le braghe sulle mie identità multiple! All’inizio ho sempre pensato che questo fosse il mio grosso problema. Pensavo che il fatto di avere più cose mi avrebbe fregata e non sarei riuscita a farne nessuna perché avrei dovuto puntare su una soltanto. Invece, col cavolo! La vita per ora, e mi ritengo fortunata, mi ha dimostrato esattamente il contrario. Credo che se avessi un progetto solo, alla fine andrei a saturare, invece passare da una cosa all’altra mi aiuta molto a fare piccoli reset mentali e tornare poi con più entusiasmo. Inoltre, banalmente si lavora di più. E questo non l’avrei mai detto! Mi dicevano: scegliendo sei più efficace! Invece così ho molte più occasioni.
Comunque, la differenza più grande è data dal mio progetto con Nina Madù, personaggio che è nato per un progetto di quartiere con un amico drag queen che si chiama Cassandra Casbah. In breve, vivevamo nello stesso posto di Milano, in zona Darsena, che un tempo era un luogo di porto e di frontiera, dove c’erano i primi migrati, le prime travestite, il primo locale di esibizioni drag queen, e insomma volevamo fare un omaggio a questa miscela di personaggi un po’ sregolati ma che vivevano in modo pacifico. Ci hanno raccontato che era un quartiere operaio e che c’era la prima casa delle bambole con le prime trans, che erano napoletane e pugliesi, le quali di giorni controllavano i bambini se marinavano la scuola, per esempio. Un bell’ecosistema in cui si conviveva nella diversità.
Essendo la Darsena zona di porto, come tutte le zone di porto si porta dietro l’atmosfera e il fascino della trasgressione e del vivacchiare inventandosi modi di mettere insieme il pranzo con la cena. Poi, con l’arrivo dell’eroina negli anni ’80, tutto è cambiato. E’ arrivata la delinquenza dove prima c’erano la malavita, la ligera e il contrabbando, che erano modi anche per scappare dalla fabbrica.
Nina Madù è una parodia, lei appare come una iper vamp, ma in fondo è un rifiuto urbano, una specie di signora della pattumiera. E’ un omaggio alle meravigliose bambole della casa delle bambole di via Gaudenzio Ferrari che si è trasformato in un racconto grottesco di Milano.
Ci sarebbero poi anche altri progetti e altre cosucce, come i cori e varie incursioni nel teatro. In quanto alla musica, ho fatto anche cose più contemporanee di sperimentazione, non necessariamente popolari. Mi piace molto anche la musica improvvisata, perché posso pensare alla voce come uno strumento, che può lavorare esattamente come tutti gli altri strumenti musicali.
Ecco quali sono i prossimi appuntamenti in cui potrete sentire dal vivo Sentimento Popolare di Camilla Barbarito:
24 novembre Garage Moulinski, Milano
21 dicembre Arci La Scighera, Milano
Photo Credits:
[1] Umberto Corni
[2] murale di Silvia Moro
[3] Andrea Bordoni
[4] cover disco di Germana Soldano
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