Articolo di Gianluca Porta

Ogni volta che Maggie Rogers fa uscire una nuova canzone, io metto in pausa tutto quello che sto facendo e inizio ad ascoltarla, e continuo ad ascoltarla fino a quando non ne esce una nuova.
Con questa premessa ci tengo a dire che sono totalmente di parte, che lei come artista mi piace molto e che ho perso qualunque velleitario tentativo di oggettività nel momento in cui ho ascoltato Alaska. C’è qualcosa nelle canzoni di questa ragazza di poco più grande di me (nata nel ’94) che mi tiene incollato, che mi fa aggiungere sempre Light On nella coda di Spotify e che, continuamente, mi stupisce.

Ma andiamo con ordine: nata nel 1994 nella parte più contadina e rurale del Maryland, si trasferisce per studiare musica a NYC. È una studentessa abbastanza brava, per tre anni non compone nessun pezzo e poi, in un vortice di creatività, scrive Alaska. Poco dopo, come da tradizione alla NYU’s Tisch School of the Arts, un musicista famoso tiene, a fine anno, una masterclass dove tutti gli studenti possono fargli ascoltare un loro brano e ascoltare i suoi suggerimenti. Quell’anno l’host è Pharrell, Maggie è verso la fine (il video dell’incontro si può recuperare qui), e il professore le chiede di raccontare chi è e da dove viene perché «she has an interesting path». E così è: le sue radici «rural» hanno fatto si che si appassionasse alla musica folk e che imparasse a suonare il banjo ma, durante un viaggio di studio in Francia, scopre la musica dance, l’idea di ritmo, e al contempo una certa musicalità ripetitiva, ossessiva, come dei bastoncini di legno battuti all’unisono intorno a un fuoco. Le sue radici folk e country (nel senso geografico del termine) emergono da tutta una serie di suoni naturali campionati e messi in loop nel pezzo, Alaska. Pharrell è ammutolito. Lei continua a muoversi (sobriamente) a ritmo e a sorridere. Pian piano anche il produttore americano è convinto, mormora «amazing» e inizia a lasciarsi andare. «I have zero notes for that. You’re doing your own thing»: è fatta. Da questo momento in poi per Maggie Rogers inizia un percorso incredibile.

Dopo pubblica un album (ne aveva già pubblicati un paio, uno nel 2012 e uno nel 2014) Now That The Light Is Fading (2017): 5 tracce, tra cui la famosissima Alaska in cui l’intuizione di Pharrel si riconferma. In nuce si vedono queste due anime, antitetiche, che lavorano assieme in perfetta simbiosi, creando qualcosa di selvaggio. Qua e là affiorano chitarre metalliche ed elastiche (come in On + Off, dove la chitarra arriva a sostenere l’impeto dance, portando di volta in volta la canzone al suo culmine ritmico), retaggio della tradizione folk dalla quale è partita, che si innestano su un corpo che deve più agli LCD Soundsystem che a Willie Nelson. Ed è davvero come tornare nella natura (come il cinguettio degli uccelli in Dog Years), sembra davvero di essere nei boschi, ma è come se tutto fosse, nuovamente, percorso da una scossa elettrica, un rush di adrenalina e all’improvviso vorresti correre, vorresti trovarti in questi immensi spazi verdi di montagna a contemplare il panorama e la bellezza dei monti, dei laghi e degli alberi. In questo disco si sente, si tocca, si annusa il profumo fresco della pioggia nella pineta, un gioia ingenua (ma non meno autentica) di stare insieme e di divertirsi, di un’amicizia tanto semplice quanto profonda.

Dopo questo esordio esplosivo l’attenzione è puntata su di lei, e inizia a scalare le classifiche. Le seguenti Fallingwater e Give A Little riaffermano tutti gli spunti che, in fieri, erano già nell’EP precedente: il suono si fa più maturo, le percussioni ancora più ritmate e trascinanti. Basta guardare l’esibizione di Give A Little live a Reading di quest’anno per capire tutta la forza di questa ventitreenne (questa), in grado di trascinare la platea di uno dei festival più importanti al mondo in un ballo gioioso solo grazie alla sua gioia e alla sua voglia di ballare. Come diceva nel video della masterclass, le piace fare musica dance per la possibilità di condivisione (e di unione) che questi ritmi, questi suoni le permettono, proprio come se si ballasse intorno al fuoco

L’ultimo pezzo ad essere stato pubblicato è Light On, che merita un discorso a parte. Se in tutte le canzoni precedenti a conquistarci era questo mix insolito di dance e folk e venivamo vinti dalla forza dirompente della canzone e della cantante, qui accade qualcosa di diverso. Si fa strada, ed emerge chiaramente tra le pieghe delle canzone, uno struggimento ed un lirismo nuovo. «Would you believe me now/ If I told you I got caught up in a wave?», ci crederesti se ti dicessi che sono stata intrappolata da un’ondata, da un turbinio di eventi che mi ha portato ad essere così famosa? Ad essere messa in primo piano è la sua stessa fragilità, la sua stessa vulnerabilità («Can you feel me now/ That I’m vulnerable in oh-so many ways?»), e la musica serve ad esprimere questa nuova condizione esistenziale. Questo sound, questa «singularity» che Pharrell notava in lei, può essere piegata, e viene piegata, a fini espressivi ed espressionistici, colorandosi di volta in volta della sfumatura che le dà alla sua voce e ai suoi strumenti. Ascoltandola anche solo di sfuggita si percepisce un’attenta ricerca dei suoni, che in ciascuna strofa si adattano, mutano, per seguire quello che lei sta cantando. E la voce non è da meno: pur rimanendo salda e conservando intatta una freschezza timbrica, qual e là traspare qualche sussulto, qualche respiro più prolungato che toglie volume sonoro alla voce, e sembra quasi che siano questi silenzi (intesi come mancanza di voce) ad essere determinanti, che siano loro a dare spessore al pezzo.

«Oh, I couldn’t stop it/ Tried to slow it all down/ Crying in the bathroom/ Had to figure it out/ With everyone around me saying/ “You must be so happy now”»: non sono riuscita a smetterla, ho provato a rallentare tutto, piangendo nel bagno […] con tutti che mi dicevano “dovresti essere così contenta adesso!”. Si sente, ma forse è un paragone un po’ ardito, la frase che Cesare Pavese scrisse nel suo diario dopo aver ricevuto il premio strega nel 1950: «A Roma, apoteosi. E allora?». È ovviamente diverso il contesto, completamente diversa la consapevolezza e la drammaticità delle parole, ma è giusta l’intuizione: adesso che tutto sembra essere a posto, che sembra che io ce l’abbia fatta, quando dovrei essere felice, non mi vedo felice. Ed è assurdo il fatto che a dirlo sia una ragazza che ha da poco iniziato fare un tour mondiale, che fa milioni di ascolti su Spotify dopo solo un EP e una manciata di singoli. La grande forza di Maggie Rogers, che ci sta mostrando man mano che pubblica nuove canzoni, è la sua onestà, il suo essere trasparente e disponibile a lasciarsi provocare dalla realtà. Non si perde in ricordi o in una scontata nostalgia del passato, in un generico rimpianto delle cose andate ma, calandosi nel concreto della sua vita, non nasconde niente e regala a tutti quelli che scelgono di ascoltarla la sua umanità.

E delle canzoni davvero belle, ovviamente.