A R T E – M O S T R E
Articolo di Mario Grella
Solo qualche mese fa, in questo stesso ambiente, la prima campata dell’immenso spazio del Pirelli Hangar Bicocca, era installato un celebre igloo di Mario Merz. Anche oggi, in questo luogo, che sarebbe banale definire “magico”, ma che si è molto vicini al vero definendolo mistico, ancora un rifugio, una “shamiana”, una tenda della tradizione indiana, liberamente interpretata dalla grandissima artista Sheela Gowda, della quale l’hangar ospita una incantevole esposizione, Remains.
“Remains” significa rimanere, ma anche perdurare nel tempo e le opere di Sheela Gowda perdurano da sempre, dalla notte dei tempi, in una terra antica e misteriosa, per noi quasi incomprensibile.
L’artista indiana, classe 1957, ha studiato pittura alla Ken School of Art di Bangalore e al Royal College of Art di Londra, ma dal 1984 è tornata in India e dall’India ha tratto, non già o non solo la forza ideatrice, lo spirito, ma qualcosa che molto spesso e in maniera un po’ neoidealista, si considera poco importante: la materia. Sterco bovino, bidoni per catrame, stoffe, capelli, incenso, eccoli i materiali che provengono tutti dalla sua terra, considerati in tutta la loro consistenza, odore, sostanza. Allora percorriamolo tutto questo spazio mistico che promette meraviglie.
A completamento cromatico ed ideale della “shamiana”, rossa come il fuoco, ecco i teli, il giallo e il blu di “Kagebangara” del 2008, ai quali viene dato risalto dalla costruzione di lamiera arrugginita e che vanno meravigliosamente a ricomporre la radice della nostra concezione percettiva del colore (ricorderete che i colori primari sono definiti dall’acronimo RGB, ovvero rosso, giallo e blu ). Con “Stopover” si entra direttamente nelle storia popolare dell’India: una serie di pietre-mortai, in uso un tempo in tutte le case di Bangalore, ormai abbandonati, alle quali Sheela restituisce dignità facendone oggetti di grande impatto estetico.
I materiali sono utilizzati non già per la loro valenza simbolica, ma piuttosto per la loro funzione e per le loro caratteristiche astratte; ecco quindi che “Mortar Line” (1996), una serie di mattoni di sterco, diventa una allusione alla concettualità dell’arte, sposata con la funzionalità materica dei manufatti. “What Yet Remains” del 2017 sembra essere il centro topografico e simbolico di tutta la grande mostra, sagome metalliche residuali dalle quali sono stati ritagliate le forme per i cosiddetti “Bandli”, ovvero i recipienti usati in India per il trasporto dei materiali per l’edilizia come sabbia, terra, cemento. Anche qui la magica formula RGB sembra definire uno spazio fatto di forme circolari, ma anche di colore, smunto e residuo.
Tra le tante opere esposte difficile non parlare di “Margins” del 2011, installazione realizzata con telai di vecchie porte rimaneggiate, ma dai colori che ebbero in origine, appesi al carroponte della gigantesca navata dell’hangar. Ma se c’è un’opera che non può non essere ricordata, questa è certamente “Collateral” (2007), materiali solitamente utilizzati per la fabbricazione degli incensi, così importanti nella tradizione indiana, arsi e trasformati in composizioni di cenere che il tempo della combustione ha combinato in forme che raccontano del trascolorare del tempo, della bellezza della materia, e dell’importanza della contemplazione. Visitare questa mostra può essere una intensa esperienza interiore, ma mai dissociata dalla possibilità di esistere data alle cose, attraverso la persistenza della materia.
La mostra è visitabile gratuitamente fino al 15 settembre 2019.
Per informazioni Pirelli Hangar Bicocca
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