I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Non so come ricorderemo questo particolare periodo di tempo quando finirà ma di sicuro adesso la sensazione prevalente è lo straniamento. Se da una parte è giusto non indulgere troppo nel ricamare la tragicità del quadro (perché al netto dei morti e della situazione oggettivamente difficile di alcune province, in passato abbiamo vissuto ben di peggio), dall’altra è innegabile che essere strappati alla nostra quotidianità per essere proiettati in una prospettiva di incertezza economica e sociale, con poche speranze di una ripartenza a breve termine, è un’esperienza facilmente destabilizzante. Forse ancora di più per noi, figli di un benessere e di una comodità che neppure l’ondata brutale del terrorismo islamico ha saputo mettere davvero in discussione, abituati sempre come siamo a guardare le tragedie da lontano, come fossero una cosa che non ci riguardasse.
Adesso che un’emergenza la stiamo vivendo anche noi, adesso che siamo in qualche modo costretti a ripeterci che cosa c’è di veramente importante nelle nostre vite, un disco come quello di Alessandro Rocca potrebbe aiutarci a fare chiarezza. In primo luogo perché non è allineato alla schiera (pur valida, in certi casi) dei nuovi artisti da cameretta tutti hashtag e social network, spesso autoreferenziali anche nel racconto delle proprie ansie e paranoie. Al contrario, Alessandro ha trovato un modo per parlare di sé che suoni veramente diretto e accessibile a tutti, intimo e personale ma allo stesso tempo ostinato e chirurgico come solo la vera realtà sa essere. Oddio, probabilmente chi ha meno di trent’anni farà un po’ fatica ad entrare dentro un linguaggio così inesorabile e a tratti spigoloso, declinato all’interno di una proposta musicale che, per quanto melodicamente appetibile, non è esattamente la cosa più immediata della terra.
E poi c’è il fatto che “Transiti” ti sbatte la vita in faccia senza troppi compromessi, ti avvisa che crescere è un’avventura affascinante ma anche faticosa, che ci sono battute d’arresto, che si perdono affetti per strada, che alla fine si muore e che non è poi così scontato che si venga ricordati.
Un disco per pochi, forse ma allo stesso tempo un disco per chiunque ami confrontarsi davvero con l’arte, che per la sua stessa essenza non potrà mai essere davvero accomodante.
Detto molto brevemente, Transiti è per il momento il mio disco italiano dell’anno. Poi c’è pure il fatto che Alessandro è di Varese, città nella quale sono nato e cresciuto e che ho ancora profondamente nel cuore, nonostante l’abbia mollata definitivamente subito dopo il liceo. E Varese, per chi ama la musica, è stata teatro di una scena di primissimo livello, che ruotava accanto a La Sauna di Andrea Cajelli, alla Ghost Records e al Twiggy, in un intreccio di produttori, discografici e musicisti che per anni ha prodotto dischi di altissimo livello e la cui creatività non si è al momento ancora esaurita.
Con tutte queste premesse, Alessandro dovevo intervistarlo per forza. E così, in un pomeriggio di questa lunga quarantena, ci siamo sentiti al telefono ed abbiamo approfondito un po’ i contenuti di questo lavoro sorprendente…

Transiti è il tuo primo disco vero e proprio ma sono abbastanza sicuro di avere orecchiato il tuo nome anche in precedenza. Al di là del fatto che abbiamo frequentato la stessa scuola, ricordo che ci incrociavamo nei corridoi…
Sì, avevo fatto un demo anni fa con una decina di canzoni, ma roba molto più tranquilla di queste, avevo anche un profilo Myspace, all’epoca…

Nelle note stampa hai scritto che questo disco è il frutto di un lavoro decennale: come mai ci hai messo tanto?
Ci pensavo proprio oggi e non è facile ricostruire tutto questo tempo, ho molti buchi in mezzo. Innanzitutto la scrittura dei testi è stata lenta, mi ha preso circa 2-3 anni. Non ho forzato nulla, ho lasciato che le canzoni uscissero da sole un po’ alla volta. Me le sono portate dietro per parecchio tempo, le ho composte a pezzi seguendo il senso. La mia scrittura funziona così, procede molto per immagini: una cosa che mi piace fare quando scrivo è cercare di fare in modo che anche le singole frasi possano essere estrapolate dalla canzone e funzionare bene anche da sole, oltre che nell’insieme. Quindi è stato un lavoro lungo, per forza di cose. Inoltre sono molto autocritico: non volevo, anni dopo, quando mi sarei scoperto a riascoltarle, trovarvi qualcosa che mi avrebbe disturbato. Questo per quanto riguarda la prima fase: poi sono subentrate diverse insicurezze che hanno prolungato molto il discorso…

In che senso?
Sono andato a registrare da Andrea Cajelli, a La Sauna. Sono stato spinto anche da lui, eravamo amici, mi aveva convinto a registrare. Però, nonostante tutto, non ero preparato, quindi quella prima session di registrazione chitarra e voce, non è venuta bene. Ai tempi poi non avevo una band, non c’era ancora l’idea di far arrangiare le canzoni. Riascoltandole non funzionavano, erano troppo lunghe e con solo la chitarra ad accompagnarlo erano davvero pesanti. Così ho messo da parte tutto, ho lasciato perdere. A Cajo però non è mai andata giù questa cosa. Ci siamo visti per diverso tempo, abbiamo continuato la nostra vita e per molto non ne abbiamo parlato. Finché un giorno mi ha “convocato” e mi ha detto: “Senti, io non riesco a non pensarci, secondo me questo disco lo devi fare!”. Nel frattempo avevo conosciuto Luca Gambacorta, che mi aveva accennato alla sua disponibilità di arrangiare le canzoni. Per cui, quando Andrea mi ha detto quella cosa, io avevo già questa ulteriore spinta ed è stato più facile accettare.

Da lì hai ripreso a registrare, quindi?
Mi ha creato una situazione ad hoc: aveva preso una casa dove aveva messo in piedi un piccolo studio, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto affiancare La Sauna, occupandosi di produzioni più cantautorali. Per me si trattava di una situazione ottimale: andavo a casa sua, cenavamo insieme, facevamo due chiacchiere, poi mi portava al piano di sopra, accendeva, settava i microfoni, tornava giù a guardarsi un film o una serie tv e io suonavo. Poi, quando avevo finito, lo richiamavo. Devo dire che senza questa sua spinta non sarei mai riuscito ad andare avanti. Poi però è successo quel che è successo (Andrea è purtroppo scomparso nel gennaio del 2017, nda) e mi sono bloccato ancora.

Però Luca era già della partita, a quel punto…
Sì, gli ho chiesto di non pensare al disco come ad un semplice lavoro, un contributo esterno ma, se gli fossero piaciute le canzoni, di provare a sentirle come proprie, di metterci del suo. E così è iniziata la fase di arrangiamento, che è durata un anno perché ovviamente anche lui, come me, ha un altro lavoro e tanti progetti da portare avanti. Il risultato, comunque, mi ha lasciato a bocca aperta: è stato strano sentire queste canzoni fatte così, dato che io per anni le avevo sempre suonate chitarra e voce; è stato davvero molto bello…

Gran parte del fascino del disco, secondo me, al di là del fatto che le canzoni funzionavano perché c’è davvero una grande potenzialità in quei brani, è che il lavoro di Luca ha permesso a tutti gli episodi di risultare più scorrevoli, più fruibili. Quelle piccole orchestrazioni, quelle aperture melodiche che lui ha creato con l’inserimento dei vari strumenti, sono fondamentali per far decollare i brani…
Ha scritto le partiture di tutti gli strumenti, compreso il contrabbasso, gli archi… ha fatto proprio un arrangiamento completo…

Invece gli altri musicisti dove li hai recuperati?
Paolo Grassi, che suona il clarinetto, lo conosco da tanti anni. Suonava nei Midwest e adesso suona con Luca nei Ropes of Sand, quindi era proprio a portata di mano. Cecilia Santo l’ho conosciuta tramite un’amica e devo dire che ha avuto subito l’entusiasmo giusto. Poi fa strano che una persona possa provare dell’entusiasmo nel suonare queste canzoni così deprimenti (ride NDA) però è stato così: mi ricordo che la prima volta che ci siamo incontrati, quando le ho accennato alla possibilità di suonare dal vivo queste canzoni, mi ha proprio colpito il piacere che ho provato nel leggere nei suoi occhi la voglia di volerlo fare. Non è scontato ed è sempre una grande gioia che altri vogliano essere parte di una cosa che hai fatto tu. È il motivo per cui, nonostante queste canzoni siano scritte da me, non sarei mai riuscito a vederle suonate da gente che non le sentisse proprie. Da questo punto di vista sono stato fortunato perché ho sempre incontrato persone splendide che, pian piano, mi hanno sollevato da questo peso che io sentivo sulla mia vita, di avere questi pezzi e di dovere in qualche modo buttarli fuori…

E invece Marco Di Francesco, al contrabbasso?  
È un musicista di Varese che conosco da svariati anni, anche con lui non ci sono stati problemi… poi cos’altro? Terminate le registrazioni, per il missaggio sono tornato in Sauna, che continua ad andare avanti anche senza Andrea, con Enrico Mangione, anche lui un vecchio amico, e con lui abbiamo lavorato in maniera splendida. Forse perché ci conosciamo da tempo, mi anticipava sempre, non ho mai avuto bisogno di spiegargli come volevo che suonasse il mix. E questo è quanto: ed è durato dieci anni, in tutto!

Però, come ho già scritto in sede recensione, non si nota affatto, il disco suona davvero molto omogeneo…
Questo perché le canzoni sono state scritte in un lasso di tempo relativamente breve. Ti dirò che al momento, per fortuna, nonostante la distanza, sono brani che sento ancora molto miei.

Al di là dei riferimenti che si possono indicare, da Mark Kozelek a Elliott Smith, ad un certo cantautorato italiano come potrebbe essere Piero Ciampi, quello che poi emerge è che si tratta di un lavoro molto personale, nel senso che sei riuscito a declinare i tuoi ascolti e le tue influenze in un insieme molto coerente…
Penso che questo sia anche il risultato del fatto di non essermi mai limitato negli ascolti. Senza dubbio mi sento più un ascoltatore che un musicista, nella mia vita ho ascoltato di tutto e continuo ad ascoltare di tutto. Poi chiaro, ci sono riferimenti al cantautorato americano, ai grandi italiani ma non sono mai definiti, fanno parte di tutta una serie di cose che ho amato ma poi ne ascolto anche tante di diverse, anche perché ascoltare solo Kozelek alla lunga potrebbe fare molto male (risate NDA)! Quindi sì, direi che il risultato finale è un miscuglio di tutti i miei ascolti. Ed è una delle cose di cui sono più contento: è venuto esattamente come doveva essere e non è semplicemente lo scimmiottamento di un unico artista per cui ho una venerazione. Amo i cantautori oscuri come Matt Elliott o come anche Leonard Cohen però se mi porti ad un concerto dei Goat sono contentissimo, eh (risate NDA)!

Che poi è anche l’unico modo di fruire veramente della musica, secondo me. Purtroppo invece in Italia siamo sempre molto chiusi, molto settoriali; difficile trovare ascoltatori veramente trasversali…
Vero, però bisogna dire che abbiamo anche un sottobosco incredibile, ci sono tantissime cose valide che devi andarti a cercare e a volte, pur cercandole, fai anche fatica a trovarle. Poi non so cosa dire: è evidente che se ascolto alcune delle canzoni che vanno di moda adesso, faccio fatica a farle mie. Però ho più di 40 anni, ci sta che non mi ritrovi nei testi o in tutti gli ammiccamenti moderni! Non mi viene neanche da puntare il dito contro, però. Chi ascolta queste canzoni proverà sicuramente delle emozioni quindi va bene così. Ognuno ha i propri gusti, è giusto che sia così. È vero anche che oggi c’è in giro troppa roba per cui si è perso un po’ il gusto dell’ascolto. Io stesso, le cose che trovo belle le ascolto pure poco rispetto a quanto potrei. Per fortuna noi da ragazzi abbiamo vissuto un altro modo di ascoltare: non vedevamo l’ora che arrivasse il sabato, andavamo a comprarci il disco di turno e poi lo consumavamo…

Parlando di testi, se anche non si può parlare di concept, si può dire che siamo di fronte ad una sorta di dicotomia: da una parte l’dea della morte, intesa proprio come scomparsa fisica dal mondo, dall’altra la consapevolezza che una qualche traccia, vestigia, la si lascia sempre; questo viene fuori in Nessuno, che potrebbe anche essere preso come punto rappresentativo dei contenuti del disco…
È il primo che ho scritto, è partito tutto da lì.

Lo dici anche in Mosche e in Fossili, il fatto che noi lasciamo dei residui e non per questo sono sempre piacevoli…
Direi che ci hai preso. Non è un concept come lo potrebbe essere Storia di un impiegato, per esempio, ma c’è indubbiamente un filo conduttore. L’input iniziale della scrittura è avvenuto in un momento della mia vita in cui ho forse smesso di guardare avanti per girarmi indietro e tirare un po’ le somme su tutto. Partendo dalla disillusione del presente ho cercato, guardando indietro, di capire quanto di buono avevo fatto e di analizzare le varie fasi della mia vita, i rapporti con le persone, con la società… anche se non c’è stata una vera progettualità, mi sono reso conto che il tema è quello, è ben riconoscibile. È partito tutto dall’ossessione che si può avere nel momento in cui ci si fanno delle domande sul perché siamo qui e allora, subito, la conseguenza è quella di capire che cosa lasceremo nel momento in cui non ci saremo più. Partendo da Nessuno, ho cercato di spiegare questa ossessione che si ha…

Parli anche molto di un lascito artistico, in alcuni brani emergono immagini di scrittori o aspiranti tali…
Sì, perché alla fine questa urgenza può tradursi anche in invidia verso chi invece ce l’ha fatta, a lasciare qualcosa di significativo di sé. Parlo soprattutto di romanzi perché in quel periodo ne ho letti veramente tanti, al punto che nei testi è uscito fuori. Poi sai, non viviamo più in un’epoca dove gli step erano ben definiti. C’era un momento in cui ci si rendeva conto che non si era più giovani e che era venuto il momento di mettere da parte i sogni per dedicarsi a qualcosa di serio, la famiglia, il lavoro… oggi noi facciamo parte di una generazione dove queste cose si possono ancora coltivare; quindi, se anche sei arrivato a 40 anni, non è detto che non ci sia più nulla da seguire, da poter lasciare. Penso sempre agli scrittori, che sono una categoria senza età. Per assurdo, un giovane scrittore oggi sarebbe nostro coetaneo! Che poi se uno ha vissuto in maniera giusta, con il giusto bagaglio di esperienza, certe cose dovrebbe riuscire a farle meglio, soprattutto nel modo di comunicare.
In effetti questo è un disco da quarantenne…

È vero, lo si sente nel linguaggio dei testi, che pur senza essere volutamente o eccessivamente ricercato è di un livello quasi del tutto inaccessibile alle giovani generazioni di artisti che, come tutti i loro coetanei, hanno oggettivamente un livello di scolarizzazione di parecchio inferiore rispetto a quello che potevamo avere noi. Prima hai detto che scrivi molto lentamente: da dove parti? in che modo scegli le parole?
Di solito parto dall’immagine più adatta per quello che voglio raccontare. Poi il lavoro più lungo è far stare quell’immagine all’interno della metrica della canzone; e diventa difficile perché una volta trovata l’immagine, deve essere per forza quella. Le parole in alcuni casi sono meno scontate di altre ma in generale è merito della nostra lingua: l’italiano è molto bello, se si usa senza esagerare, può aiutare le immagini più riuscite a venire fuori meglio.

Che poi a me non dispiacciono le cose di oggi, assolutamente; però è bello che ogni tanto qualcuno scriva un testo che sia davvero in italiano
Non mi piacciono molto i riferimenti al contemporaneo, a Facebook, alla vita di tutti i giorni. All’inizio potevano anche essere degli ammiccamenti divertenti, utili per catturare l’attenzione, oggi sono talmente abusati che non sono nemmeno più quella roba lì; e poi c’è proprio poco contenuto, credo. O forse è semplicemente che certe parole mi disturbano perché mi richiamano ad un’epoca che per forza di cose non è la mia.

Ma poi il problema più grande, secondo me, è che se sei troppo dentro alla tua epoca, finisci che invecchi prima. A meno che tu non abbia dentro un afflato universale ma non mi pare sia da tutti…
La storia dell’umanità ci dice che le emozioni sono sempre quelle e chi le ha raccontate bene lo ha fatto in modo che è sempre contemporaneo. Per dire, se leggi Madame Bovary non hai nessun problema a trasportare i pensieri e gli stati d’animo della protagonista a quelli di una qualsiasi donna di una provincia italiana o del mondo; il malessere che ha lei è lo stesso che si può provare adesso. Faccio fatica a pensare che in futuro una canzone che parla di Social Network possa essere ascoltata con la stessa attualità che ha adesso…

Entrando nello specifico dei testi, in Mosche dici che “si può prescindere dalle certezze diventate cliché…”
Si parla di un rapporto sentimentale. I cliché diventati certezze sono quelli relativi alla costruzione di una famiglia, quelle dinamiche di cui parlavamo prima, che per i nostri genitori erano scontate e che a noi invece non piacciono tanto o comunque non siamo abituati a vivere allo stesso modo. Il senso di quella frase ma più in generale di quella canzone è proprio che non per forza bisogna seguire questo cliché: non è perché ti è stato inculcato da qualcuno che devi farlo per forza…

Mentre in Topi, quando dici che “L’antagonista adesso è buono causa sovrapproduzione della malvagità”, credo che tu abbia fotografato alla perfezione un tratto caratteristico della nostra epoca, che mentre divide in maniera moralistica il bianco dal nero, ha però una grossa difficoltà a comprendere la differenza tra il bene e il male; lo vedi molto nelle produzioni cinematografiche e televisive recenti, pensa a Joker, a Gomorra, cose così.
È vero. Sono soprattutto le serie tv a trasmettere quest’idea: nelle sceneggiature si assiste ad un continuo processo di rivalutazione dei personaggi e quindi anche noi, che siamo abituati a vederle, lo abbiamo trasportato nella realtà. Che so, il cattivo che diventa buono è un’immagine molto comune. Ma poi in quella canzone c’è anche un discorso di rifiuto generale di tutto quello che arriva, c’è un elenco di categorie, di situazioni che non mi piacciono, per poi arrivare allo sfogo del ritornello. Sono comunque tutte immagini negative, associate ai topi del titolo.

“Non voglio avere il mio ruolo nella società”, appunto. Sembra quasi un manifesto anarchico ma poi sappiamo che nella vita è una posizione impraticabile, giusto?
Ma certo! Anch’io ho il mio ruolo: ho la mia famiglia, il mio lavoro. Più che altro, essendo un disco molto introspettivo, è un messaggio che, quando ho scritto quella canzone, lanciavo a me stesso: più che “non voglio avere il mio ruolo”, il vero messaggio è: “non voglio avere solo quello, non voglio identificarmi con quello”. Cioè, posso avere il mio ruolo nella società ma poi ci deve essere anche altro. È stata una resa dei conti coi miei demoni, in quel periodo, tutto il lavoro dei testi è stata un’analisi che ho fatto su me stesso… tra l’altro, c’è una cosa che mi sono dimenticato di dirti: due canzoni le ho scritte in un secondo momento, dopo quella registrazione andata male.

Quali sono?
Mare e Fossili, che sono poi le due canzoni che parlano della mia infanzia. L’immagine del mare è proprio questo, per me.

Ecco, giusto. Grazie per avermela citata perché me ne stavo dimenticando: c’è in effetti, in quel pezzo ma anche un po’ in tutto il disco, questa idea sottesa per cui l’infanzia sia l’unico momento dove realmente si può essere felici…
L’unico stato di grazia, sì.

Esattamente. Io non la vedo così, sinceramente. Anzi, pensando alla mia infanzia non mi vengono in mente troppe cose positive…
Capisco. Ma per me, quello che rende l’infanzia un periodo bello, indipendentemente dal fatto che si sia stati felici o meno, è la sua dimensione di purezza. Che è quella che manca all’adulto, ormai segnato dalla vita, dalle delusioni, dalle consapevolezze, tutte cose a cui quando sei bambino non pensi. È un po’ come se volessi dire che è stato bello essere così, anche se poi alla fine ci è costato caro.

Ed è anche interessante che Mare sia una delle più aperte, melodicamente parlando…
Sì, poi lì avevo anche l’altro demone di dover assolutamente cercare di rielaborare quel lutto (la canzone è dedicata al padre NDA) e l’ho fatto in quel modo. Alla fine, c’è tutta quella parte finale che suona come un urlo, uno sfogo. Da questo punto di vista, Luca ha capito davvero l’idea di fondo, creando questo arrangiamento molto azzeccato, che ti culla come fanno le onde…

È uno dei momenti in cui si capisce di più che la componente strumentale ha un ruolo notevole. Il cantautorato classico a cui, anche un po’ per luogo comune, siamo abituati, mette normalmente la voce in primo piano e il resto funge da accompagnamento; qui non succede così.
Mi rendo conto che questo non sia un disco facile: probabilmente c’è troppa roba, sia nei testi che nelle musiche, le canzoni sono lunghe… probabilmente gli ascoltatori verranno scremati in base ad un processo spontaneo: chi resiste a quell’arpeggio iniziale da oltre un minuto probabilmente sarà destinato ad arrivare alla fine! Credo sia normale: quando ho parlato con Alberto (Nemo NDA), il ragazzo di Dimora Records (l’etichetta che ha pubblicato il disco NDA), mi ha detto che, tra le cose che lo avevano colpito, c’era proprio questa, che avevo voluto iniziare in un modo che, non dico da darti la zappa sui piedi ma quasi (ride NDA)! Eppure Stipiti racconta proprio il momento dell’inizio delle riflessioni, per cui quella parte strumentale è assolutamente necessaria, ti porta verso la prima frase e ti dice come sarà il disco, ti dice che questa persona sta guardando dentro sé stessa, cosa che poi è arricchita dall’immagine del pozzo putrido, che fa capire che non sarà un viaggio piacevole, che ci sarà un’oscurità a pervadere tutto quanto.

Io trovo che sia giusto così. Ci vuole che qualcuno alzi l’asticella. Francamente, tutti questi dischi da 24 minuti hanno un po’ stufato. Non è perché adesso la gente ha il tempo d’attenzione di un pesce rosso, che la si deve per forza assecondare…
Sì, poi nel mio caso è stato anche diverso perché io ho scritto tutto prima ancora di decidere di condividerlo quindi certi calcoli a priori non li ho proprio fatti.

Spendiamo due parole sulla copertina, che è veramente meravigliosa…
L’ha realizzata Andrea Tomassini. Tra l’altro tu hai visto solo la copertina, vedrai quando ti arriverà il cd! Ha fatto davvero un lavoro incredibile ma lui è un talento cristallino, nato anch’egli in questo giro magico che c’è stato attorno alla Sauna e in generale in questa provincia. Poi io lo conosco perché siamo amici ma credo che al di fuori di Varese quasi nessuno sappia della sua esistenza. Ed è un peccato perché è una persona incredibile. Innanzitutto a livello umano, perché penso sia l’ultimo galantuomo rimasto sulla faccia della terra; in più ha questo talento da autodidatta, da illustratore incredibile. Era da tempo che sognavo una sua copertina! Lui ha questo gusto un po’ gotico quindi non c’è stato bisogno di dirgli cosa fare…

Gli hai lasciato mano libera, dunque?
È partito tutto da un quadro che mi aveva regalato, intitolato Bancarotta, che avevo nella casa in cui ho scritto il disco e che è praticamente la versione precedente della copertina: c’è anche lì un uomo seduto ma lui lo ha voluto attualizzare, realizzando una cosa apposta per il disco, visto che il quadro è di una decina di anni fa. Ha fatto un lavoro splendido, con degli echi anche di Bacon ed è riuscito ad illustrare tutte quelle atmosfere e sensazioni a cui uno andrà incontro ascoltando il cd. Negli altri disegni invece abbiamo seguito il flusso di pensieri di questa persona, quindi si parte da quella stanza per poi spostarsi; per dire, nel retro copertina c’è l’immagine della casa in cui si trova quest’uomo, poi ci si allontana, sfruttando il potere della mente, che ti permette di uscire da te stesso anche senza muoverti. Ma devi vederlo per capire, ti assicuro che merita!

Senti, quando finirà tutto questo, immagino che ti vedremo dal vivo…
Essendo io un tipo ansioso, ti dirò che mi manca di più il non poter andare ai concerti, piuttosto che il non farli (ride NDA)! Il desiderio di salire sul palco comunque c’è, ho voglia di condividere queste canzoni con altri. Vorrei preparare un bel live coi musicisti che ci hanno suonato sopra ma ho bisogno dei miei tempi, per poterlo fare. Di sicuro non ci metterò dieci anni, questa volta (risate NDA)! Ho voglia di scoprire che cosa un ascoltatore esterno ha elaborato di suo, ascoltando il disco ma da un lato c’è tutta l’ansia di doverne parlare, di dover suonare questi pezzi davanti a un pubblico. Sai, a volte uno ha paura di svilire coi racconti o con le parole il lavoro che ha fatto…