I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini 

Marco Parente è uno dei più grandi autori di canzoni che abbiamo in Italia ma sappiamo come vanno queste cose, se ne sono accorti sempre troppo in pochi. Un po’ è anche “colpa” sua, che non ha mai amato troppo stare sotto i riflettori, che ha diradato le apparizioni pubbliche prendendosi sempre parecchio tempo tra un disco e l’altro. Life, per esempio, è il suo primo lavoro “di canzoni” dai tempi de La riproduzione dei fiori, uscito nel 2011. In questi nove anni l’artista napoletano (da anni trapiantato a Firenze) non è stato fermo, realizzando tutta una serie di progetti “alternativi”, non tutti particolarmente fruibili, che forse in qualche modo hanno alimentato questo senso di mancanza che il pubblico legato soprattutto al suo lavoro di cantautore stava sperimentando. Ad ogni modo Life è un disco splendido, un ritorno folgorante che da solo è in grado di azzerare il tempo e di ristabilire, se mai ce ne fosse stato bisogno, il posto di Parente all’interno del nostro panorama musicale. Alla vigilia dell’uscita, l’ho chiamato per telefono e mi sono fatto raccontare un po’ di cose sui pezzi e sulla loro genesi.

Innanzitutto ti faccio i complimenti per il disco, che mi è piaciuto veramente tantissimo e che trovo sia assolutamente all’altezza dei tuoi lavori migliori…
Guarda ti ringrazio molto e ti dico che magari non sarà il mio più bello ma di sicuro è il più importante! Per la fatica che ho fatto, per il tempo che mi sono preso (e me ne sono preso parecchio!), e prendersi del tempo vuol dire anche difendere quello che fai, soprattutto in questo periodo…

In realtà non ci sarebbe niente di male neppure nel definirlo il più bello: dopotutto, se un artista ha appena registrato un disco, è normale che ne sia soddisfatto…
È vero, va da sé che se il disco l’hai appena fatto tu dica che è bello! Ma in questo caso non è solo una questione di bellezza, anche perché alla fine poi è soggettivo e ci vuole anche tempo per giudicare…

Questo è il tuo primo album di canzoni da “La riproduzione dei fiori”, che è del 2011…
Se parliamo di disco lungo sì, dopo quello c’è stato Sweet Love ma si trattava di un Ep…

La domanda infatti voleva essere quella: in questi nove anni sei stato molto attivo ma ti sei dedicato ad altri progetti: “American Buffet”, il disco tributo a Dino Campana, lo spettacolo “Lettere al mondo” con Paolo Benvegnù… in tutto questo è un po’ venuto meno il tuo lavoro di cantautore vero e proprio… da dove esce fuori “Life”?
Life nasce dalle ceneri di un esperimento di qualche anno fa che si chiamava Disco pubblico, non so se te lo ricordi…

Temo di essermelo perso…
Se lo sono perso in tantissimi, anche perché è stato un esperimento abbastanza estremo. Avevo elaborato un disco di canzoni assieme ad una band ma non ho voluto registrarlo, bensì farlo vivere solo nel momento in cui fosse stato suonato dal vivo. Chiedevo anche al pubblico di avere una parte attiva, di registrare il disco e quindi in qualche modo di divenire essi stessi dei produttori. Unica condizione: se avessero voluto caricarlo sul Web, chiedevo loro di mettere un hashtag, in modo che rimandasse ad un sito apposito dove si sarebbero riversate tutte queste versioni, ai fini di creare un vero e proprio archivio. Era un progetto decisamente estremo, soprattutto per l’Italia, probabilmente se l’avesse fatto Thom Yorke avrebbe avuto tutt’altro genere di consensi (ride NDA). Purtroppo l’ho fatto io e quindi dopo un po’ è naufragato, la cosa è finita abbastanza velocemente. Le canzoni però sono rimaste ed erano anche canzoni per me molto importanti: dopo un po’ mi sono accorto che mi stavano chiedendo di tornare a casa, di andare in un luogo a loro più congeniale, vale a dire assieme alle altre canzoni, in un disco vero e proprio. Ho fatto quindi la cosa opposta di Disco pubblico e ho realizzato un album di quelli che si facevano una volta, irripetibile, insuonabile, fine a se stesso. Volevo semplicemente fare un bel disco, con tutte le possibilità che oggi offre lavorare in uno studio di registrazione. Da lì è iniziato un lavoro molto approfondito, ho iniziato a lavorare completamente da solo, proprio come quando ho fatto i primi provini del mio primo disco! Ho usato mezzi piuttosto elementari ma adatti allo scopo e ho iniziato così a vestire queste canzoni, che comunque partivano già da una base molto solida. Sai, col fatto che non le avremmo mai registrate in studio, ci dovevamo affidare molto alla struttura e la struttura infatti era solida. In questo senso è stato anche divertente perché mi sono sbizzarrito anche nell’approccio ludico alla musica. Per il 90% ho suonato tutto io…

Ho visto che c’è Enrico Gabrielli…
Ci sono delle piccole ospitate, sì: ad Enrico ho chiesto di mettere un quartetto d’archi in un pezzo, un contrabbassista mi ha messo una parte di contrabbasso che avevo scritto io in precedenza e poche altre cose.

I pezzi sono molto diversi tra loro ma c’è come un libero fluire che attraversa tutto il disco. Tu hai sempre avuto una scrittura particolare, piuttosto fuori dalla struttura canonica del brano ma mi pare che in questo lavoro ti sia lasciato andare di più, mi sembra un disco più “sperimentale”, passami il termine, sicuramente se paragonato al precedente…
Dal punto di vista dell’arrangiamento e delle strutture, assolutamente sì. È un disco molto prodotto, nonostante fossi da solo (ho comunque condiviso il missaggio e la produzione con Paolo Favati). Volevo fare un disco senza l’idea di doverlo suonare dal vivo perché quelle canzoni già avevano retto in forma essenziale e poi, se avessi voluto riportarle sul palco, avrei potuto farlo in qualsiasi modo. Proprio per il fatto che stavo fermando per sempre un’opera, ho voluto dare libero sfogo a tutte le cose che mi venivano in mente. In questo senso è iper prodotto. C’è anche qualche concessione alla tecnologia, che mi sono messo a studiare, e che ho però utilizzato in maniera sempre molto “suonata”. Si è creata una piccola molecolarità di dettagli, per molti dei quali è difficile risalire a come e a quando sono nati. È un qualcosa che si è composto via via su un’architettura e in questo senso ti direi che è sperimentale. Di diverso però c’è che i pezzi sono semplici, i testi soprattutto hanno meno orpelli, puntano all’essenziale, ho preferito mettere una parola di meno che una in più. Ho voluto che ciascuna canzone fosse come un piccolo quadro, indipendente e autosufficiente.

È un album certamente iperprodotto ma non è carico di suoni, è snello. Voglio dire, c’è dentro un sacco di roba ma sei stato bravo ad equilibrare il tutto…
Mi fa piacere che tu abbia avuto questa percezione, perché doveva dare proprio l’idea di qualcosa che scorre, fino ad arrivare alla fine dell’ascolto e dire: ”Che bello, adesso ricomincio da capo!”. Non avrebbe dovuto impegnare più di tanto, almeno ad un primo livello. Poi, andando avanti, si potrebbero scoprire tutta una serie di piccoli dettagli, che non sono però fondamentali: possono aumentare il piacere dell’ascolto ma non sono necessari per la comprensione dell’insieme.

Il titolo “Life” è in sé abbastanza semplice…
Quasi generalistico.

Esatto. Però poi c’è questa copertina con questo scorcio con il palazzo, l’albero, come se volessi mettere in primo piano le due dimensioni della vita, quella della natura e quella antropizzata, dell’uomo… non so se avevi avuto specificamente questa idea… Sono tutte osservazioni che mi danno degli input che mi permettono di chiarire a posteriori quello che ho fatto, quindi direi che è giusto quello che dici. “Life” in questo senso è una parola esemplare: è talmente vaga ma allo stesso tempo talmente universale da permettere ad ognuno di trovarci dentro qualcosa ed è sempre tutto giusto, qualunque cosa si dica. L’analisi che hai fatto tu ora ha un grosso valore perché per la prima volta ho curato io stesso la copertina. Quell’immagine lì l’ho fatta io e in questo momento, tra l’altro, ti sto parlando proprio davanti alla copertina del disco, davanti a questo palazzo, a quella pianta…

Nel senso che sei davanti all’illustrazione?
No no, nel senso che è uno scorcio del mio quartiere, a Firenze. È andata così: mi stavano proponendo un sacco di idee ma nessuna di esse mi convinceva. Allora ho cominciato ad andare in giro per il mio quartiere e a fotografare con lo smartphone quello che vedevo, dei posti che mi piacevano, ecc. Poi sono andato a casa e utilizzando il programma che c’è in dotazione sul telefono, quello di grafica, ho iniziato ad intervenire in vario modo sulle immagini. Ne sono venute fuori una marea, che poi sono tutte quelle che trovi nel video di Nella giungla. In generale si tratta di un’intuizione che avevo avuto in precedenza, dell’apparato digitale che diventa creativo se non lo subisci; ho utilizzato uno smartphone per fare qualcosa di creativo e tutto questo l’ho fatto nel mio quartiere, cioè nella quotidianità più totale.

È un’immagine molto evocativa, in effetti…
In più la parola “Life” l’ho scritta in modo simile al logo dell’omonima rivista, proprio per dare l’idea della quotidianità, quella descritta attraverso le finestre di casa mia e che è trasportata nei testi. C’è come una constatazione di microcosmi: la vita che scorre, i rapporti tra le persone, però non c’è nessun tipo di volontà etica, filosofica. È semplicemente vivere quella cosa, in quel momento, mentre la vedi, farsi attraversare da essa.

Tra i brani che più mi hanno colpito c’è senza dubbio “Il gusto della via”, che è anche una di quelle musicalmente più “libere”. Ad un certo punto nel testo dici una cosa che mi ha fatto venire in mente quel verso dei “Quattro quartetti” di Eliot, quella che dice che “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”…
Questa citazione mi fa venire i brividi, non ci avevo fatto caso, mentre invece io stesso avevo fatto un richiamo ad Eliot in Vita: gli “uomini impagliati” di cui canto volevano essere un omaggio alla sua “The Hollow Men”. Comunque sì, direi che quel verso a cui ti riferisci c’entra con quello che dico nella canzone. È come se la realtà a volte fosse così dura, così contraddittoria, da metterci in imbarazzo e da toglierci quel “gusto della via”, che poi è la vita stessa, il gustarsi la vita, lo scoprirne il senso. A volte è come se questo gusto si smarrisse ma non, come Dante, in una selva oscura bensì nella banale realtà del quotidiano.

Parlando di “Vita”, mi pare stia un po’ all’altro estremo del disco: è una ballata classica, molto bella, molto immediata…
Sì, infatti la faremo uscire come prossimo singolo. Esula un po’ dai discorsi che abbiamo fatto, è una canzone molto ispirata, molto forte, quasi epica, in un certo qual modo ma allo stesso tempo fragile, per quello che dice. Ne ho fatte diverse versioni, le altre erano più pesanti per cui ho voluto darle un andamento più leggero, immediato, snellendo il testo e fornendole una maggiore epicità, che fa risaltare di più le parole. Direi che fa l’effetto di una canzone fuori dal coro, rispetto all’estetica del disco…

Molto bella anche “Quand’è che si ricomincia da capo”: che significato ha per te, ricominciare da capo?
È come un ritornello che frulla quotidianamente nelle orecchie. Viene da una storia vera, così come “In mezzo al buio”: sono entrambe la descrizione di un piccolo evento, non proprio tangibile, che mi è capitato. È esattamente come dice il testo: ero sull’autobus, con un animo non del tutto quieto, con la testa appoggiata al finestrino e sento questa frase come sussurrata, sai quelle cose che avverti sotto voce dentro di te ma con una chiarezza tale che sembra che ci sia lì uno di fianco che te la dice nell’orecchio? In quel momento mi è sembrato che tutti stessero pensando quella cosa lì, che tutti si stessero chiedendo: “Ma quand’è che si ricomincia da capo?”. Ricominciare da capo è una possibilità, che non vuol dire negare quello che hai vissuto ma è come se fosse una seconda rinascita, che può avvenire quasi quotidianamente. È bello pensare che da qualche parte esista un luogo in cui si possa ricominciare, anche se poi non avviene. È come un orizzonte che si spalanca, come vestirsi di bianco… è un brano oscuro, musicalmente parlando, ma allo stesso tempo anche denso di speranza… dice di essere consapevoli che è così, che la vita è questa qui ma che esistono magari delle vite parallele dove si può ricominciare… non ne abbiamo le prove ma del resto neanche Pasolini le aveva, quindi (risate. Il riferimento è al celebre scritto di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della sera del 14 novembre 1974, in cui sosteneva l’esistenza di una trama occulta dietro alle stragi e agli attentati di quegli anni, pur dicendo di non avere le prove per dimostrarlo NDA)…

Invece “Ok panico” mi sembra in qualche modo ispirata al songwriting di Paolo Benvegnù, che è piuttosto diverso dal tuo…
È un brano molto importante ed è anche l’unico che non era su “Disco pubblico”, è una nuova composizione. Paolo in realtà c’entra poco, diciamo che ci sono due omaggi neanche troppo velati: il primo è a David Sylvian, in particolare “The Ink and The Well”, che è un brano che all’epoca mi folgorò perché c’era dentro tutto quello che cercavo in fatto di musica, era anche molto jazzato, c’era il contrabbasso… mentre invece il secondo omaggio è a livello ritmico e c’entra con quello che sto ascoltando negli ultimi due anni, il Flamenco. La ritmica è tutta fatta con le mani e anche l’andamento è spagnoleggiante, gli accordi sono più o meno quelli lì. Credo che nei prossimi lavori approfondirò molto queste sonorità perché mi hanno davvero spostato il baricentro… e poi è un genere che ti fa pensare alle radici della musica, a qualcosa che è sempre esistito, qualcosa da cui partire.

Come lo porterai in giro questo disco, oggi che sembra tutto così incerto e che le regole cambiano da un giorno all’altro?
Abbiamo già fissato una prima parte del tour, che partirà il 12 novembre e che per ora andrà avanti per otto date, fino alla fine di dicembre. Poi ovviamente è tutto da vedere, già ieri eravamo in fibrillazione per il nuovo Dpcm ma sembra che al momento ce la potremo fare…

Giri da solo per scelta o per necessità?
Tutt’e due. In parte perché girare con una band al momento non è sostenibile da un punto di vista logistico. Ma poi anche perché il disco l’ho fatto da solo, e mi muovevo già da solo quando giravo con POE3 IS NOT DEAD. Non ti immaginare una cosa chitarra e voce, sarà tutto molto più dinamico, ci saranno vari aggeggi elettronici, l’harmonizer, cose così.