L E T T U R E


Articolo di Simone Santi

‹‹Parlare d’amore è sempre complicato. In poesia, credo sia la cosa più difficile, perché la poesia chiama alla nudità, alla verità, alla libertà.››

Le parole posate ed efficaci della prefazione scritta da Andrea Cardellini colgono nell’essenza il compito che il poeta Paolo D’Anna si è assegnato con la stesura e pubblicazione della silloge di cui vengo a trattare nel presente articolo, Tra la rosa e la spina, realizzata nel 2020.
Le parole sono importanti, e alcune lo sono in modo speciale. Ciò vale più particolarmente per chi con la parola, nelle sue molteplici espressioni, lavora da una vita, com’è in effetti il caso dell’autore di quest’opera. Autore e regista teatrale, scrittore e poeta, attore quasi per naturale approdo, Paolo D’Anna si è impegnato sin da giovanissimo in ambito sociale e culturale. Nato in Sicilia, da sempre vive a Calolziocorte, paese situato nelle valli protese tra le città di Lecco e di Bergamo. Dopo aver fondato con alcuni amici la rivista Proposta, ha iniziato la propria attività frequentando a Milano i laboratori teatrali di Giorgio Strehler, per poi avvicinarsi al teatro di Dario Fo e di Franca Rame. Ampia nel corso degli anni è stata la sua produzione di testi e di opere teatrali, non di meno la traduzione e l’adattamento per il teatro di opere letterarie. Ha curato la direzione artistica di importanti eventi, di rassegne musicali e letterarie; in campo sociale ha partecipato e collaborato a progetti per varie associazioni, tra cui Telethon e Medici Senza Frontiere. Una carriera costellata di progetti, di incontri e di collaborazioni – tra cui spiccano per notorietà i nomi di Katia Ricciarelli e di Alda Merini, e quell’incontro fatalmente mancato dal destino con Pier Paolo Pasolini, morto proprio appena prima dell’appuntamento che li avrebbe fatti conoscere di persona di lì a pochi giorni.  

In veste di scrittore, D’Anna è autore di opere sia in versi che in prosa: solo per citare alcuni dei titoli più recenti, ricordo il diario di viaggio in Marocco Lettere da Ketama (2011, Casa Editrice Periplo); una raccolta di versi in omaggio a Pierpaolo Pasolini, L’Odore della notte (2017, Edizioni Studio53); il romanzo Angelina (2018, Arti Grafiche Papini) e, sempre nel 2018, Il Muro di Alda, ispirato alla persona e all’arte di Alda Merini.
Da alcuni anni D’Anna attraversa l’Italia proponendo i propri spettacoli, che sono altrettanti tributi a grandi artisti come Pasolini, Alda Merini, Caravaggio; spettacoli e incontri promossi con riguardevole successo non solo nei teatri, ma anche nelle scuole e presso associazioni e circoli con l’intento di avvicinare anche i ragazzi e il pubblico più ampio alla cultura, raccontata con generosa sensibilità e restituita come un’esperienza coinvolgente, suscettibile di arrivare al cuore di tutti.

Dunque, quali prospettive assume, come tratto pertinente della propria autenticità poetica – e con quali effetti di resa e di stile – la scrittura di un autore che per percorso e per passione originaria è nel suo profondo un uomo di teatro? La risposta si rileva, sic et simpliciter, nel suo stesso procedimento poietico, per mezzo del quale l’elaborazione drammatica dei vissuti interiori diviene l’oggetto di una trasmutazione del sentimento affatto analoga a quella suscitata e inverata dall’azione tragica sul proscenio: quella che si offre nella sua verità alla lettura è essenzialmente la messa in scena, attraverso le dinamiche espressive della poesia, di un dialogo, o meglio di un monologo interiore recitato allo specchio – e riflesso sullo specchio bianco delle pagine.
È il sottotitolo, Itinerario poetico di un viaggio notturno, a profilare i contorni di quella zona immaginaria e allegoricamente figurata nel titolo – Tra la rosa e la spina: si tratta di un luogo al contempo artistico e affettivo, il “dove” da cui il poeta scrive per immortalare il sentimento di un amore che per la sua centralità si fa assoluto, e si mantiene nel tempo come il ricordo di un frammento indissolubile e indispensabile nella trama dell’esistenza.

Il sipario si apre, l’autore è già lì, davanti ai nostri occhi. L’azione ci è presentata in medias res. La lirica amorosa, imperniata su alcune parole chiave che tramano la tessitura di una narrazione per episodi che si impongono al ricordo per la loro urgenza interiore, si fonda de facto sullo statuto poetico della presenza/assenza (‹‹Non so se riuscirò / ad abituarmi a vivere / con la tua presenza/assenza››; e ancora, ‹‹mi arrendo / alla tua presenza/assenza››). Da un lato questo amore è presenza vivente nel ricordo e nel dolore nostalgico provato da chi ancora ama e si strugge per l’assenza della persona amata, e anche contro la ragione non smette di sperare nel suo ritorno (“se tutto ciò che resta di noi / non è che un’ombra / riflessa in uno specchio / su una porta aperta / a un’alba che fuggiva”). Dall’altro l’amore si adombra nella vacuità dell’assenza che avvolge di sconcerto la presenza della persona amata, per quei suoi silenzi indecifrabili, i pensieri nascosti, per le sue intenzioni profonde forse mai elicitate nella loro crudele verità, che gettano nell’insicurezza chi, con poche difese, ama e nell’amato ripone la propria felicità (‹‹Mi sono sempre chiesto / dove nascondevi / i tuoi segreti / li ho cercati per anni / come un ladro / spesso tra le pieghe / dei tuoi silenzi››).
Sospeso in questa condizione liminale, il poeta sembra rievocare per analogia e per identità di sentimento la figura icastica di Menelao, così come descritta dall’Eschilo tragico nel primo stasimon dell’AGAMENNONE, allorché il re spartano contempla luttuoso il vuoto lasciato nel palazzo dalla moglie Elena, rapita e condotta di là dal mare. L’assenza della sposa viene evocata dagli sguardi vacui delle belle statue armoniose, dalle quali Afrodite sembra essersi dipartita. L’assenza di Elena invece si manifesta nelle visioni del sogno e della fantasia illusa, che con fugace dolcezza restituiscono per un attimo alla vista l’immagine di lei che ‹‹già sfuma lontana, svelta / sfilando tra le dita, aleggia / e si perde sui sentieri del sogno››[1].
Allo stesso modo d’Anna, sulla nota dominante di una memorazione quasi ascetica che concatena, anche sintatticamente, i singoli componimenti in una unità di racconto, riesce a trattenere il sentimento di quell’amore che, come una corrente, lo ha così attraversato, e in qualche modo anche a preservarlo dalle tentazioni più distruttive nelle quali può spingere il dolore (‹‹Sul foglio bianco / invento storie / per ingannarti / per stupirti ancora / ti tengo nel labirinto / dei miei pensieri / ti tengo nel raggio / del mio sguardo››). E sembra riecheggiare i versi di Eschilo, quando scrive: ‹‹Vorrei tenerti tra le mani / come l’angelo della notte / tiene la tua anima tra le sue ali / nel sonno che avvolge i tuoi pensieri / nel sogno che ti porta lontano / oltre la soglia che non posso varcare››.

Questo amore, fin dai primi versi, sembra riflettersi nell’interiorità del poeta, offrendo luoghi e occasioni al venire a giorno di parti del sé che fino a quel momento erano state insondabili. La persona amata diventa quasi uno specchio in cui cercarsi e riconoscersi (“Io non so chi sono / ma tu sei me / ti vedo pura immagine / aria che alimenta la voce / la tua la mia”). Il poeta così tratteggia davanti ai nostri occhi, passandolo in rassegna con lo sguardo, un paesaggio interiore illuminato dagli effetti che l’amore uscita. Lo spirito è tutto compreso nella rievocazione del ricordo, quasi escludendo qualsiasi altra interferenza. Appunti di vita e di viaggio. Oggetti lasciati, riflessi di specchi e di memorie. Itinerari, percorsi o anche solo progettati, da solo, insieme. Immagini stagliate tra le vie e i tavolini di una città che non è casa nostra, o intraviste dal finestrino dell’auto alle prime luci del giorno, o trasognate, nella stanza da letto, dopo una notte trascorsa insieme. Volute di fumo, gocce di pioggia sui vetri, note di sottofondo. Partenze, attese, ritorni, sapendo, inevitabilmente, di appartenersi. Silenzi e lame di tempo, dove i sensi e l’anima si confondono, perché è tutto reale ciò che vive dentro.

Ma, come il teatro insegna, ogni passione rappresentata sulla scena diventa esemplare, si spoglia di ogni occasionalità per rivelarci nella sua nudità ciò che è universale ed eterno. Dal canto suo, la dimensione pubblica e sociale della poesia consente di instaurare una forma ulteriore di relazione con la presenza/assenza attraverso la rimemorazione incarnata dalle Muse (figlie di Mnemosine, e pertanto discendenti dirette della memoria), le quali costituiscono una forma di rielaborazione più elevata dei vissuti e dei sentimenti. A questo livello le circostanze e gli effetti più soggettivi e particolari vengono trasmutati attraverso i codici dell’esperienza estetica, e subiscono un passaggio dalla sfera individuale a quella collettiva: ciò fa sì che siano condivisibili da parte del lettore il quale, da semplice spettatore, diventa partecipatore dell’intera vicenda.
A queste condizioni, il ricordo provoca adesione, risonanza, partecipazione. Ed è così che D’Anna, rivitalizzando quella che è una delle funzioni originarie della poesia, attraverso il ricordo viene a celebrare le qualità e le virtù dell’amore, il cui splendore illumina la figura amata facendo riverberare su di essa le proprie stesse benedizioni.
In questo modo la poesia sembra giocare su un doppio registro, due piani apparentemente opposti. Da un lato attualizza e rinnova il dolore di una scomparsa che ha creato un vuoto nell’animo di chi ama. Dal lato opposto però si produce un rivolgimento dello statuto della memoria, così che il ricordo viene restituito ad un universo in cui l’assenza non è più vista come lacerazione personale, ma diviene presenza in un’altra dimensione dell’esistenza, come valore imperituro nell’immaginario simbolico e ideale della vita così come dell’arte. L’assente diviene presenza sul piano spirituale, il cui valore si compie non per ciò che ci ha tolto, ma per ciò che ci lascia.
Questo processo consente a D’Anna di avviarsi e di avviarci al superamento del dolore e ad una sua attribuzione di senso. L’elaborazione poetica del vissuto si propone come rito di passaggio, nel quale si situa una frattura e si manifesta il ricordo nella sua funzione cerimoniale. L’assenza viene resa indefinitamente presente e al tempo stesso collocata a distanza, riformulata e inscritta nella memoria. Il canto riavvicina il poeta al suo desiderio, che però ormai esiste soltanto attraverso l’esperienza più distaccata e mediata della rievocazione, e istituzionalizzata attraverso i canoni e le forme dell’espressione artistica. Si tratta di un processo catartico e in sé evolutivo, che aspira alla riconciliazione e alla chiarezza di sé.

Nel fare questo, egli canta, anche per noi, la rappresentazione del sentimento sublime dell’amore, il cui ricordo mantenuto tesse la trama della continuità della vita e permette ad ogni vita di sottrarsi agli stretti limiti dell’individualità presente.


[1] Eschilo, AGAMENNONE v. 415-419