I N T E R V I S T A
Articolo di Luca Franceschini
Cresciuto nella bergamasca, con tutto il suo carico di noia, aspirazioni e un orizzonte limitato che chi vi abita normalmente prova a lasciarsi alle spalle con eterne bevute nell’unico bar disponibile, Acaro ha percorso il suo personale itinerario sonoro partendo dal Punk, per approdare all’elettronica e sconfinare nel panorama Urban contemporaneo. Acaro vol.1, l’esordio realizzato e prodotto assieme a Giorgio Assi (Georgie Boy) arriva accompagnato da un fumetto che rilegge a modo suo le storie raccontate in queste otto canzoni e presenta un’ampia gamma di stili, che vanno dal cantautorato classico più o meno contaminato, alla sperimentazione, fino ai suoni più spinti al limite dell’EDM.
Il tutto raccontato con una buona dose di autoironia ma anche con tanta consapevolezza: una vita povera di occasioni, spesso lontana da quell’immagine di stardom che a volte ci si sogna di costruire, ma ciononostante pienamente coscienti della propria dignità e forza morale.
Ne abbiamo parlato col diretto interessato, raggiunto al telefono durante uno degli ormai innumerevoli tardo pomeriggio di zona rossa.
Mi racconti come è nato il progetto?
Era un periodo in cui avevo bisogno di scrivere, di dar voce ai miei pensieri, per cui ho aperto una pagina Facebook dove pubblicare le mie cose e l’ho chiamata Acaro, come l’acaro della polvere a cui sono allergico. Avevo bisogno di raccontare le mie debolezze e da qui anche la scelta del nome, perché questa allergia è stata la prima cosa che mi ha fatto stare male nella vita. Ci ho preso gusto, ho visto che mi piaceva, mi riconoscevo in quello che scrivevo; oltretutto arrivavo da anni in cui avevo suonato e cantato nelle band, tutto il periodo delle scuole superiori, per cui ho deciso che avrei potuto metterci sopra anche un po’ di musica, su queste cose che avevo scritto. Mi sono guardato in giro per vedere se ci fosse qualcuno e ho trovato Giorgio Assi, Georgie Boy, e assieme abbiamo scritto questi otto pezzi.
Giusto per capire: la pagina Facebook che hai creato era semplicemente un modo per raccogliere i tuoi pensieri, giusto?
Sì, oltretutto era privata, la usavo più che altro per una questione di comodità..
Fossi vissuto negli anni novanta avresti tenuto un diario…
Esatto, era una sorta di diario online!
Immagino che in precedenza facessi cose un po’ diverse rispetto a quelle che fai ora: come sei arrivato a sviluppare questo tuo stile così particolare?
Ho sempre ascoltato parecchi generi musicali, senza legarmi troppo all’uno o all’altro, musica sia italiana che straniera, senza troppe distinzioni, anche se adesso ascolto molta più roba italiana, visto che sono molto più legato ai testi. Alle superiori suonavo nelle classiche band Punk Rock, magari un po’ più singolari rispetto al solito perché i testi erano piuttosto ironici. Ad un certo punto sono approdato a questo gruppo che si chiamava Artide, con cui abbiamo suonato parecchio nella bergamasca. Si è trattato di un punto di passaggio perché abbiamo unito sonorità Rock e Crossover, a Synth e suoni elettronici importanti. Non ti saprei dire poi come ho raggiunto il suono che mi contraddistingue oggi: è un insieme di esperienze, di ascolti e c’entra molto anche l’impronta di Georgie Boy, abbiamo lavorato insieme dunque c’è tanto di mio ma anche tanto di suo. E ti posso dire che è il suono che cercavo, volevo che Acaro suonasse esattamente così. In quel momento, per quell’album, avevo in mente questi suoni e così sono usciti. Poi non è escluso che le cose cambino, ad esempio avrei voglia di far suonare il tutto più acustico, vedremo.
In che modo avete lavorato ai pezzi? Ultimamente in questo genere la produzione è divenuta quasi più importante della scrittura vera e propria…
Abbiamo scritto quasi tutto assieme, partendo da un riff che ci piaceva o anche solamente da un suono che ci intrigava. Se non ricordo male, sono arrivato da lui avendo in mano I ghepardi e Katane, tutto il resto lo abbiamo fatto dopo, in contemporanea, che è il metodo con cui mi trovo meglio: lui arrangiava con me a fianco che dicevo la mia, io intanto scrivevo il testo.
Quello che colpisce di “Make It Better” è che, prima ancora della bontà delle singole canzoni, è che è un disco molto d’impatto. Il filtro delle chitarre, il modo con cui si incastrano con le tastiere, gli effetti sulle voci, è tutto davvero molto bello. Come costruite il vostro suono?
A livello di scrittura funziona che uno del gruppo ha un’idea, che può essere un riff o una sezione di un brano, e la porta in sala prove, dove la sviluppiamo tutti assieme. Spesso succede anche che ci troviamo a provare una parte, a ripeterla, ad improvvisarci sopra, a sperimentare con gli effetti… non è che abbiamo chissà quali pedaliere però sappiamo quali suoni ci piacciono e andiamo in quella direzione lì, mettendo qualche pedalino sulla tastiera, qualche pedalino su chitarra e basso. Sappiamo dove andare a parare, per via degli ascolti che facciamo, e che cosa necessita la musica che stiamo portando avanti. Poi ci registriamo col telefono, ascoltiamo quello che abbiamo fatto e così, idea dopo idea, si costruisce il pezzo. Mi fa piacere quello che hai detto, delle chitarre e delle tastiere che si incontrano: per noi è una cosa importante, la parte melodica non manca mai nelle nostre canzoni ma non perché ce la dobbiamo infilare per forza, ci piace e cerchiamo di metterla sempre. La voce viene usata più sulla parte ritmica, piuttosto che su quella melodica, per cui la melodia la affidiamo a tastiera e chitarra.

La copertina ricorda molto quella di un fumetto e so che hai accompagnato un vero e proprio fumetto all’uscita del disco: mi spieghi com’è andata?
Sono appassionato di scrittura in generale, scrivere mi fa stare bene quindi l’ho presa inizialmente come una sfida: volevo provare a scrivere con un altro fine, per cui ho imparato a realizzare le sceneggiature per fumetti, dopodiché sono andato dal mio carissimo amico Margio, che fa il fumettista e gli ho proposto di realizzare un fumetto assieme, io l’avrei scritto e lui lo avrebbe disegnato. Più avanti è nata l’idea di scrivere una storia per ciascuna delle canzoni del disco: non si ricollega del tutto al testo però c’è un filo che le lega. E quindi ecco qui: è un fumetto con otto storie, all’inizio di ogni storia c’è un QR Code con cui tu scarichi la canzone e te l’ascolti mentre leggi la storia.
Quante tavole sono, in tutto?
Saranno una settantina, mi pare…
Un lavoro molto ambizioso, dunque!
Eh sì, ci abbiamo sudato parecchio, non è venuto male, per essere alle prime armi!
I primi due brani sono dedicati al Giappone, si muovono dentro questo immaginario però sviluppano idee e tematiche molto diverse, anche musicalmente non si assomigliano molto…
Katane l’ho proprio scritta in Giappone mentre Hikkikomori è venuta fuori molto dopo. In Katane immagino di trovare questa ragazza molto bella, la porto in una bettola di ramen e le racconto un po’ della mia vita. È la prima canzone che ho iniziato e finito come Acaro, avevo l’esigenza di raccontare un po’ di me, di quello che ero, di quello che sono, diciamo che la storia della ragazza è più un pretesto per parlare di me. Hikkikomori invece l’ho scritta dopo e pur riferendosi ad un fenomeno molto diffuso in Giappone, parla più che altro di come ero io in quel periodo, in Italia, con la difficoltà a trovare lavoro, ad occupare un posto nella società, a combattere la pigrizia… tutti temi che mi hanno sempre accompagnato, soprattutto da quando sono entrato nel mondo degli adulti. Trovo inoltre il modo di vivere degli Hikkikomori molto vicino al mio essere, ho cercato di raccontarlo con delicatezza, è un tema delicato e non essendo io parte di quel mondo, ho cercato di fare il possibile per rispettarlo. Tra l’altro, è una canzone a cui voglio tanto male quanto bene…
In che senso?
È stata in qualche modo profetica: dopo la sua uscita infatti sono diventato proprio l’Acaro di cui si parla nel pezzo, ho avuto un paio di mesi in cui proprio non riuscivo ad alzarmi dal divano. È stata un’esperienza forte, anche in negativo, però adesso che è passato un po’ di tempo e riesco a vederla con un certo distacco, è stato molto interessante, un po’ come se si fosse avverata la canzone, come se avessi prodotto quello che sarebbe successo. Poi ovviamente sono stato io che mi sono fatto condizionare da quello che cantavo ma è stata comunque un’esperienza metafisica, quasi…
E invece “I ghepardi”? Non è un animale che compare spesso nelle canzoni, no? E poi c’è questa base disturbante e un testo dove sembri giocare con un certo malessere generazionale, in parte simile a quello di cui mi raccontavi adesso. È un pezzo che mi incuriosisce, ecco.
Parla di me e del mio gruppo di amici, quello con cui sono cresciuto in paese e che adesso, dopo la nascita della canzone, si riconosce proprio come “I ghepardi”. Alla domenica avevamo l’usanza di trovarci al bar, subito dopo pranzo e di fare un aperitivo bello lungo che arrivasse fino a notte, e ci raccontavamo un po’ come erano andate le serate precedenti, nel caso non ci fossimo visti; se invece ci eravamo visti, ce le raccontavamo lo stesso, ripercorrendo tutte le nostre bravate. E proprio durante uno di questi momenti un nostro amico, evidentemente su di giri, ha iniziato a sostenere che sarebbe stato in grado di uccidere un ghepardo a mani nude…

No dai!
Ti giuro (ride NDA)! Noi abbiamo provato a dirglielo, che era un po’ una stronzata ma lui continuava, poi ad un certo punto fa: “Ma dai, quanto sarà lungo un ghepardo? Una trentina di centimetri?” (Risate NDA) Da lì quindi è nato il verso: “Io i ghepardi non li temo” e così, andando avanti, è uscita la canzone…
Che è diventata un po’ il simbolo, forse un po’ abusato ma sempre efficace, di un certo velleitarismo generazionale…
Sì certo, ho voluto proprio raccontare il mio paese e la sua atmosfera di noia, un qualcosa che in futuro mi piacerebbe fare molto di più. È un piccolo paese della bergamasca, ci si ritrova alla sera e quello che c’è da fare non è molto se non bere, fumare, parlare e aspettare che arrivi il giorno dopo. Si parla di noia, del vuoto, dell’assenza di stimoli però, nonostante siamo dei falliti, riusciamo a divertirci, come si dice nel ritornello: nonostante non abbiamo nulla se non l’asfalto, riusciamo lo stesso a godercelo.
“Mangio” è una delle mie preferite, una canzone più canonica, più Pop, anche più cantautorale in un certo senso…
Non ho ben chiaro il perché alcune canzoni suonino in un modo e altre in un altro. So solo che la mia necessità era quella di creare degli immaginari per raccontare certe emozioni, quindi mi sono tenuto un maggior range di suoni per poterli adattare a situazioni differenti. Capisco che possa un po’ confondere, perché non è un disco molto omogeneo però alla fine ho fatto quello che volevo…
Nel ritornello dici: “Questa sapidità non è da me”…
Anche questa è nata in Giappone, in quel periodo ero partito completamente da solo per fare un viaggio lì. C’è stata una giornata dove ho vissuto un turbine di emozioni così forte, ero così felice che a fine serata mi sono trovato in questo bar, con un cocktail in mano e mi sentivo totalmente distaccato da quello che ero prima. Per cui quando dico: “Tutta questa sapidità non è da me” significa che tutte queste emozioni non sono adatte a quell’acaro che vive in provincia di Bergamo e che fa sempre le stesse cose ogni giorno. Involontariamente quindi ricado di nuovo nella tristezza per sentirmi a casa, per essere di nuovo Acaro.
In questo senso dici che “La decadenza è un impegno, è responsabilità”?
Sì, perché ormai è diventato un impegno, quello di non essere uguale agli altri, di non essere una persona con un lavoro, una routine, un tipo sempre ordinato, che fa le cose giuste… e non è facile, vivere nel costante caos, per cui lo dico proprio, che per me è un impegno, esserlo e raccontarlo…
Anche perché c’è sempre e comunque un discorso di immagine costruita, di narrativa: non può mai essere del tutto spontaneo, un atteggiamento del genere.
Certo! Io ovviamente sono felice quando sono felice! Però non ho la necessità di sembrarlo, ecco. Il bello di questo progetto è che non voglio dimostrare nulla, racconto semplicemente delle esperienze che ho vissuto, che mi hanno segnato e a seconda di questo, scopro un lato diverso di me. Perché l’Acaro di “Mangio” non è certo lo stesso di “Sexting King” o di “Katane”…
E l’Acaro di “Condor”, invece?
Quello è un racconto di sesso in auto, quello fugace, di notte, dopo una serata, una cosa che in questo momento mi sembra lontano anni luce, tra l’altro (ride NDA). È semplicemente quello, un racconto di sesso, ho utilizzato l’immagine del condor ma l’idea era proprio di creare un immaginario notturno

Parlando di sesso, mi viene da chiederti anche di “Sexting King”, che chiude il disco: un brano senza dubbio autoironico e anche il tuo più “tamarro” dal punto di vista musicale.
È molto autoironica, certo. È nata così: stavamo scrivendo e ad un certo punto Ableton è esploso, non funzionava più nulla. Siamo rimasti per un po’ a guardarci poi Georgie Boy ha preso in mano un aggeggino, una sorta di giochino con vari tasti che funziona un po’ da Drum Machine. Ha fatto partire un paio di suoni e io mi sono messo a cantare “Baby, sono il King del sexting”, una frase che avevo già segnato sul telefono ma non ricordo più in che occasione. In dieci minuti è nato il pezzo, così, per un errore del computer.
In “Non ballo” invece riprendi il concetto del non voler entrare nella vita vera, però lo fai con una canzone dove dici “Non ballo”, dove base invita a fare tutt’altro…
L’ho scritta subito dopo aver perso l’ennesimo lavoro: sono una persona molto disordinata ma c’è anche che voglio fare il musicista, per cui normalmente, dopo aver chiesto due permessi per fare un concerto, mi lasciano a casa. La canzone è nata proprio quel giorno lì, vedendo mia madre che piangeva, perché non sapeva che futuro avrebbe aspettato suo figlio. Io non ballo, mi sento a disagio, sono proprio un pezzo di legno. Mentre scrivevo la canzone, mi sono immaginato i miei amici che ballano, mentre io sto seduto su una panchina a fumarmi una sigaretta, un po’ chiuso in me stesso. Poi parlo anche dei Musical, che a me danno fastidio, non riesco proprio a vederli. Il messaggio del testo è che non siamo in un Musical, siamo nella realtà, la realtà vera, che non ha niente di artefatto. Anche da qui dunque il mio dire “non ballo”.
Bella anche “Baby Goodbye”, un altro pezzo abbastanza tradizionale nella scrittura…
Racconta di un acaro che si innamora ma è consapevole che così perderebbe tutte le sue caratteristiche. Si dice dunque che non può permettersi di innamorarsi, altrimenti di che cosa parlerebbe, come farebbe a raccontare il suo malessere? Non può mica scrivere le canzoni come i Modà (risate)… e allora c’è questa scena in cui vede tutto a stelline ma poi dice: non posso innamorarmi, devo rimanere Acaro. Da qui la frase: “Ma che Acaro è questo?”.
Qui mi pare ci sia dentro l’eterna questione della creatività artistica, se nasca esclusivamente dal dolore, dalla sofferenza, oppure possa avere altri punti di partenza per essere stimolata.
È infatti su questo pensiero che ho cercato di scrivere questa canzone ed è una domanda che mi faccio tutt’ora, in effetti. Io credo che si debba essere tristi, per scrivere cose tristi, non posso scrivere cose che non provo. Credo comunque che se sei autentico, in un modo o nell’altro rimani, continui ad esistere come artista. Se ti limiti a scimmiottare qualcun altro non funziona, secondo me.
Per finire, il disco porta in copertina l’eloquente scritta “vol. 1”. Significa che ci sarà un “vol. 2”?
Sto scrivendo il prossimo fumetto ma spero che il vol. 2 di Acaro esca tra minimo cinque anni, perché magari nel frattempo saranno usciti altri progetti. Diciamo che la dicitura “vol. 2” voleva più che altro dire che uscirà senz’altro qualcosa, pur volendo lasciare il dubbio sul quando.
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