R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Esiste un legame profondo tra la musica dell’artista norvegese Sinikka Langeland, la tradizione mitologica dei paesi dell’estremo nord e il paesaggio assolutamente unico di quei luoghi. Così come un aquilone ha bisogno di aria per sospendersi nel vento, così il canto e lo strumento della Langeland ha bisogno di spazi, di cieli freddi e tersi dove la sua voce e la sua musica possano avere tutta l’eco necessario per farsi mito, per raccontare la Storia di un antico rapporto tra umanità e forze misteriose del cosmo. Lo strumento suonato dalla Langeland, il Kantele, appartiene alla famiglia delle cetre, cioè di strumenti a corda con cassa di risonanza. Un salterio baltico, quindi, di origine finlandese. Il suo suono cristallino, quasi glaciale, rimanda alle favole nordiche che narrano di regine delle nevi, di creature boschive che come spiriti protettori preservano il segreto arcano della Natura. Nonostante le composizioni di questo disco, Wolf Rune, siano siglate col nome della Langeland, attraverso di esse viene recuperato il Runesang, il canto tradizionale finlandese le cui rime sono state raccolte nel Kalevala, un’antologia voluminosa di poemi e canzoni assemblata nella prima metà dell’800 che viene considerata un vero e proprio poema epico a tutti gli effetti. Questi canti e queste poesie si sono trasmesse oralmente, com’è avvenuto per tutto l’epos europeo, dall’antica Grecia alla tradizione celtica. Come accade nei racconti del Mito, gli argomenti narrano dei rapporti all’interno degli esseri umani e in seconda misura tra gli Uomini e gli spiriti di Natura, siano essi vere e proprie divinità o creature ultraterrene abitatrici delle acque e delle foreste.

La Langeland ha una voce potente e dolce nello stesso tempo, che può a volte sussurrare o elevarsi verso toni altissimi, mantenendo un’intonazione perfetta, senza ombre né incertezze. Il Kantele è suonato magistralmente, con un approccio molto simile a quello di una chitarra. Molti punti in comune costituiscono un ponte ideale tra questa musica e la tradizione britannica e irlandese, incentrandosi su quelle caratteristiche melodiche ricche di struggimento che raccontano di saghe familiari, di celebrazioni rituali contadine, di amori lontani e impossibili. Così la parte strumentale si affaccia verso alcune suggestioni alla Nic Jones o alla John Renbourn del suo periodo più medievista. Certo, qui manca lo spirito alcoolico di John Barleycorn, del chicco d’orzo da cui si prepara la birra e il whiskey, oggetti simbolici di cameratismo e socializzazione che entrano quasi religiosamente nelle storie di vita dei britannici. Il canto dei racconti norvegesi e finnici ha una componente forse più spirituale, quasi mistica almeno così com’è espresso nella musica della Langeland.
Moose Rune è un’introduzione che utilizza un archetto a sfregare le corde del kantele, che invece normalmente vengono pizzicate. È così delineata l’atmosfera fondante dell’intero disco, si stacca il biglietto per entrare nel mondo arcaico e fantastico della tradizione nordica. Polsdance From Finnskogen è una danza in ¾ che approfittando delle naturali risonanze del kantele si trasforma in un balletto magico, un valzer fatato sulle note di cristallo delle corde pizzicate. Row My Ocean si fa molto più intima con una melodia che sembra raccogliersi in antiche liturgie e malinconie esistenziali. Poi assume una forma- canzone che la rende partecipe di un retaggio un po’ irlandese e un po’ medio-orientale, con la voce che va verso i toni alti e che sembra arrampicarsi sulle vette degli abeti, tanto mira ad essere più vicina al cielo. Kantele Prayer I è un intermezzo breve e solo strumentale che si rende simile alla sonorità dell’oud allacciando insoliti rapporti con la tradizione musicale orientale. The Eye Of The Blue Whale si serve di un accompagnamento di corde gravi su cui si realizza la struttura complessa del canto. Qui si avverte un certo allontanamento dalla tradizione per favorire una costruzione melodica più soggettiva, dove la Langeland mostra le sue doti di originale compositrice. L’accompagnamento sembra appartenere ad un’arpa celtica, tanto che la memoria mi avvicina alle storie tradizionali gaeliche così come le racconta Vincenzo Zitello, lo straordinario arpista italiano ex allievo di Alan Stivell.

When I Was The Forest è il brano più lungo di tutto il disco. Il titolo in inglese suggerisce il rimando arcaico dell’identificazione tra uomo e albero, motivo mitologico molto diffuso nella tradizione nordica e nei paesi dell’Est, peraltro presente anche nel mito greco ed occidentale col racconto di Apolle e Dafne e con le storie delle Amadriadi, creature semidivine abitatrici degli alberi. Kantele Prayer II è un ulteriore, brevissimo intermezzo che precede Winter Rune, brano molto delicato ed intimista che prova strumentalmente a raccontare l’inverno. Lo stato di sospensione della stagione, in cui tutto appare fermo in una dimensione di candida immobilità, viene descritto dalla Langeland alternando l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento. Il suo canto, solitario e triste, si alza pieno di volume poco prima dell’epilogo. La traccia migliore in assoluto è però quella che segue, Don’t Come To Me With Entire Truth. La breve e splendida melodia crea un ampio spazio di risonanza attorno a sé e la voce della Langeland, soprattutto nei toni più bassi, si tinteggia di riflessi che ricordano Nico ultima maniera, mentre il kantele diventa un po’ new age, alla Ackerman, per intenderci. Una piccola gemma da ascoltare a lungo e custodire tra i nostri ricordi migliori. The Girl In The Headlands è un delizioso bouquet di aromi primaverili. La tavolozza del kantele si moltiplica in una serie di colori pastello, dimostrando con tutta la sua poliedricità e capacità narrativa, di poter rendere addirittura superfluo il canto. I See Your Light si muove ancora solo strumentalmente ma la musica si è incupita, o forse si è solo piegata all’interno, più attenta alle motivazioni dello spirito che del cuore. Si chiude con Wolf Rune. Il canto inizia con un recitativo, un salmodiare, che si solleva solo verso la metà innescandosi in qualche battuta ritmica supportata dalle corde più basse dello strumento. L’ultimo brano di questo lavoro è quello meno melodico, meno accattivante ed è un peccato comunque veniale che non modifica il giudizio complessivo molto positivo dell’album. Sostanzialmente la ricerca spirituale di Sinikka Langeland tende all’unità dell’Essere, a quella dimensione primordiale caratterizzata dall’animismo in cui tutte le cose possiedono un’anima che sente, vede e pensa come noi. Da qui alla dimensione della metempsicosi e della metamorfosi il passo è breve e fatale. Gli echi di questo sguardo sull’assoluto, del resto, si possono evincere dall’epigrafe del mistico Meister Eckart riportata all’interno del booklet:

Il mio occhio e l’occhio di Dio
è un unico occhio,
una visione,
una conoscenza,
un solo amore.

Tracklist:
01. Moose Rune

02. Polsdance from Finnskogen
03. Row My Ocean
04. Kantele Prayer I
05. The Eye Of The Blue Whale
06. When I Was The Forest
07. Kantele Prayer II
08. Winter Rune
09. Don’t Come To Me With The Entire Truth
10. The Girl In The Headlands
11. I See Your Light
12. Wolf Rune