R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
La musica di Ben Howard possiede un misterioso magnetismo come tutte le cose un po’ sfuggenti, quelle che non si sanno ben definire e che pur intuiamo possedere ben più di un significato. Forse il motivo di tutto questo sta nel suo presunto difetto d’originalità che finisce per essere paradossalmente il suo punto di forza. Come il suo collega americano Ryley Walker, Howard è infatti abile nel celare il suo profilo dietro una rete di riferimenti che si sovrappongono e che però non nascondono l’esistenza di alcuni evidenti rimandi artistici. Le stelle della sua Orsa Maggiore si chiamano John Martyn, Ben Watt, Bon Iver e gran parte della tradizione folk britannica, se non altro per il timbro della voce impostato sui toni medi e con una vaga tendenza cantilenante, che spesso traduce una frigidità tutta britannica nel modo di comunicare le proprie emozioni. In questa sua ultima fatica, Collections from the Whiteout, Howard, a differenza dei lavori precedenti, introduce nella sua musica un make-up elettronico, certamente non disturbante ma sufficiente per far deviare un po’ l’attenzione dall’abitudine che ci aveva assuefatti nel percepirlo. Un folk singer al passo con i tempi, con un classico fondo malinconico velato da colori diversi, cangianti ad ogni cambio di brano. Avendo contattato un musicista-produttore come Aaron Dessner, Howard rigioca la carta dell’osmosi tra arte e vita fidandosi di sonorità più contemporanee e contando sul sostegno di collaboratori provenienti da esperienze diverse, tra i quali segnalo il neanche trentenne batterista Yussef Dayes proveniente dal jazz, il pianista Thomas Bartlett – aka Doveman – il chitarrista Blake MIlls, con alle spalle le partecipazioni discografiche con Pino Palladino e Bob Dylan.

Insomma, attraverso la scelta di un parterre di tutto rispetto, Howard si propone con un vestito nuovo mantenendo però intatte le sue intenzioni e il suo carattere espressivo. Una nota particolare meritano i suoi testi, spesso crudi per gli argomenti trattati, in provocatorio conflitto con la dolcezza della musica. Collections… esce con un duplice cd, nonostante la durata complessiva dell’intero lavoro sia di poco superiore ai sessanta minuti, contenendo il secondo dischetto solamente il remix di due brani, di cui il secondo veramente notevole, uno dei migliori pezzi dell’album. Si inizia con Follies fixture, un biglietto da visita un po’ sotto le aspettative dove una classica ballata strutturata su di una semplice melodia, invece di sostenersi con la sola chitarra – che per altro acquista più spazio verso la fine del brano – si adagia su una trama elettronica leggermente monotona. Molto meglio la seguente What a day, drum-machine in azione e lo spettro di John Martyn che segue le mosse. L’inizio ricorda certe intro pop degli Everything But The Girl e questo, per me, è da intendersi come un evidente complimento. Sviluppo melodico molto piacevole e orecchiabile, un brano più equilibrato del precedente con un bell’intervento di chitarra elettrica verso il finale, aspro quanto basta per creare un sano contrasto con il resto della struttura. Crowhurst’s Meeme racconta la tragica storia di Donald Crowhurt, imprenditore inglese e velista dilettante, che nel 1968 partecipò alla Golden Globe Race e che truccò i dati della sua navigazione per poter presumibilmente intascare il premio-regata. Fece credere di aver percorso un tragitto che non realizzò mai oltre un certo miglio e si presume si fosse in seguito suicidato gettandosi in mare. La storia è drammatica e prende il sopravvento sulla trama musicale che soffre un po’ di ripetitività, evidenziando come, a volte, un testo troppo impegnativo pare sottrarre pregnanza alla costruzione sonora. Questo è forse un vulnus che si ripete con lo stesso canovaccio in Finders keepers, altra storia nera, con una costruzione musicale veramente povera nonostante lo sforzo elettronico sullo sfondo. Per me il brano meno convincente dell’intera raccolta. Fortunatamente arriva Far out dove la musica riprende il suo scettro. Siamo sempre nell’ambito della ballata ma un buon lavoro ritmico offre credibile sostenibilità all’intero brano e la tastiera si muove in sottofondo con opportuna discrezione. Rookery s’incentra sull’accoppiata voce e chitarra e qui la tradizione folk britannica risale la corrente, facendo percepire l’impronta di Bert Jansch, a mio parere un’altra suggestione artistica da non sottovalutare.

You have your way ha più ambizioni che risoluzioni, sembra un lavoro riuscito a metà con il tappeto elettronico di fondo un po’ confuso, troppo preponderante. Quando arriva Sage that she was burning l’introduzione in distorsione elettronica confonde leggermente le idee all’ascoltatore ma il brano si mantiene interessante. Si tratta semplicemente di un pezzo folk reso rumoroso da un accompagnamento fin troppo ridondante. Sorry Kid racconta la vita della truffatrice russa Anna Sorokin, che si spacciò negli USA come finta ereditiera di un grande impero finanziario, finendo all’interno dei meccanismi di potere del sistema. Nonostante il testo impegnativo qui la musica si muove molto bene, con il canto di Howard armonizzato dal coro di sottofondo. Il brano procede vincente con una melodia accattivante ed un ritornello che colpisce al cuore. Un bell’incrocio tra la chitarra e le tastiere incornicia il tutto in un’aura di puro lirismo. Non è facile reggere questa qualità e infatti nel seguente Unfurling scende la concentrazione, anche se non a livelli critici. Però non è sufficiente a tener lontano un’ombra di noia. Metaphysical cantations si mantiene a livelli più che accettabili in un’atmosfera vagamente psichedelica. Make arrangiaments si stende tutta sull’elettronica e sulla voce irrobustita dal coro, con un incedere ipnotico che disegna una certa staticità confacente allo sviluppo di questa trance sonora. Si arriva così a The strange last flight of Richard Russell. Russell fu al centro di una strana, drammatica storia nel 2018 che a raccontarla quasi non ci si crede. Il protagonista di questa avventura rubò un aereo sulla pista dell’aeroporto di Seattle-Tacoma, fece qualche acrobazia sotto gli occhi increduli dei piloti dei due caccia alzatisi in volo per intercettarlo e poi scelse di schiantarsi in una foresta lontana dai centri abitati. Il brano viene raccontato in tono poetico, quasi distaccato e possiede una propria delicatezza, non turbata dall’onnipresente elettronica, qui rafforzata da interventi percussivi che aiutano l’interpretazione quasi fiabesca della storia. Buzzard chiude la sequenza ufficiale dei brani e qui mi gioco la reputazione se l’inizio chitarristico del brano non ricorda da vicino Fairy tale lullaby e, il brano di apertura di London Conversation, primo album di John Martyn targato 1968. Il secondo cd ha nella riproposizione di Sorry Kid probabilmente l’espressione più alta di tutto il disco, brano da playlist, scelto come chiusura definitiva di tutto il lavoro proprio, presumo, per la sua seducente bellezza. A dirla tutta preferisco la versione del primo cd in cui la voce vulnerabile di Howard sembra ricalcare quella di Ben Watt. Collections… è un disco a lenta carburazione, va assaporato poco alla volta. Ben Howard è un utopista generoso che osserva il mondo con l’atteggiamento di distacco che hanno i migliori – un occhio alla realtà, un altro al filtro del cuore.
Tracklist:
01. Follies Fixture
02. What A Day
03. Crowhurst’s Meme
04. Finders Keepers
05. Far Out
06. Rookery
07. You Have Your Way
08. Sage That She Was Burning
09. Sorry Kid
10. Unfurling
11. Metaphysical Cantations
12. Make Arrangements
13. The Strange Last Flight Of Richard Russell
14. Buzzard
15. What A Day (Edit)
16. Sorry Kid (Edit)
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