I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Vent’anni appena e un’attività musicale lunga quasi tutta la vita, tra lo studio del pianoforte e la composizione, un’arte iniziata sin da bambino e alquanto inusuale per un musicista di formazione classica, soprattutto in Italia. Eppure, l’abruzzese Davide Rasetti è già al secondo disco, il primo interamente composto da brani autografi, dopo che l’esordio Zelmira, del 2019, conteneva anche rivisitazioni di lavori altrui. Dall’esterno, concepito e realizzato in pieno lockdown, come lui stesso ha raccontato, potrebbe già essere definito il disco della maturità, se non fosse per la giovane età del suo autore. Eppure, musica classica, Jazz, elettronica e suggestioni etniche si mischiano in un insieme sorprendentemente fluido, dove l’ampia solarità degli spazi e la notevole attenzione alle melodie rendono fruibile questo disco anche ad un pubblico meno preparato, che non frequenta abitualmente la musica “colta” o più semplicemente strumentale. Ed è dunque anche per questo che All’esterno potrebbe giocare un inatteso ruolo pedagogico, in un paese come il nostro dove i consumatori non si distinguono certo per l’ecclettismo dei loro ascolti.
Abbiamo raggiunto Davide in Olanda, dove si trova attualmente per completare i suoi studi, e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su di lui e sulla sua ultima creatura.

Cominciamo dalla tua storia personale: sei giovanissimo e hai già composto due album, entrambi contenenti musica originale. Normalmente chi ha alle spalle studi classici si dedica soprattutto a suonare a spartito e ad eseguire brani altrui. Che cosa ti ha spinto verso la scrittura?
Ho iniziato a comporre all’età di 11 anni grazie all’incoraggiamento del mio maestro Toni Fidanza; da allora non mi sono più fermato ed ho iniziato ad approfondire lo studio della composizione, appunto. Il motore che mi ha spinto in questa direzione fu, ed è tutt’ora, il desiderio di poter suonare qualcosa che sia veramente parte integrante del mio essere.

All’esterno è un lavoro davvero maturo e consapevole. Mi spieghi bene come è nato e come hai messo insieme i vari brani?
È nato tutto come un piccolo gioco, per poi andarsi a trasformare in qualcosa di concreto e reale, che può descrivere a pieno la mia versatilità musicale. I brani dell’album sono stati concepiti e creati in modo tale da descrivere e trasmettere emozioni e sensazioni ben precise che però l’ascoltatore, ignaro del vero significato, non può avere la certezza di aver compreso.

Ho letto che lo hai composto durante il lockdown: immagino che il titolo esprima in qualche modo un desiderio di fuga e spazi aperti. È così? Anche la copertina è significativa: me ne parli? Che cosa rappresentano quelle due mani che si toccano (che mi ricordano un po’ il famoso particolare dell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina)? 
Per capire bene la genesi del progetto devo raccontarvi la mia quarantena. Durante il primo lockdown nel 2020, per compensare la distanza che separava me dalla mia ragazza, nonché danzatrice del progetto, Rebecca Rastelli, creavo piccole composizioni musicali sulle quali poi lei improvvisava dei passi; quindi creavamo dei piccoli video da condividere. Da questi piccoli giochi è nato il progetto All’esterno. È un grido di ribellione a ciò che ci ha afflitto e che purtroppo continua ad infierire sulla nostra libertà. Quindi, si, è un desiderio di fuga e spazi aperti. Le mani che si toccano (le nostre), racchiudono il tutto. Io e Rebecca, come tante altre persone, siamo stati separati forzatamente e quelle mani che si sfiorano rappresentano il bisogno di toccarsi ancora, di esserci ancora e soprattutto sono il simbolo di ciò che ci ha tenuto uniti nonostante le grandi difficoltà: l’amore.

Hai suonato tu stesso tutti gli strumenti: ce n’è qualcuno a cui ti senti più legato rispetto ad un altro? Mi ha colpito molto My Mix, dove il sax è autentico protagonista e fa delle cose veramente belle… già che ci sono, come mai il brano si chiama così?
Sì esatto, tutti gli strumenti che si sentono nel disco sono suonati da me, però devo ammettere che mi sento più legato al pianoforte, infatti mi definisco pianista; d’altra parte lo studio da 16 anni ormai ed ora mi trovo a Rotterdam a completare i miei studi classici presso la Codarts University of Arts. Il brano di cui mi hai chiesto invece si chiama My mix perchè racchiude un po’ tutti i generi che ho studiato e amato fino a questo punto della mia vita: partendo dal funky, per poi passare a delle influenze arabeggianti con un’eco del malinconico classic jazz.

Da quel che ho capito hai prodotto tu questo disco. Ti piace il lavoro del produttore? In che cosa, per quanto ti riguarda, differisce da quello del compositore?
Sì, il disco è stato prodotto da me, però sono stato affiancato nel lavoro da Davide Grotta, un grandissimo ingegnere del suono che ha lavorato su mix e master; oltretutto mi ha seguito nelle due anteprime live che ho fatto di All’esterno. Io penso che sia il compositore che il produttore abbiano funzioni simili. In fondo sono entrambi due creativi che spingono verso due strade più simili tra loro di quanto si possa pensare.

C’è un certo utilizzo dell’elettronica in queste canzoni, una caratteristica che nelle produzioni di questo tipo non è proprio usuale. Che rapporto hai coi suoni digitali?
Posso affermare che l’elettronica è stata la mia metamorfosi tra il mio vecchio lavoro Zelmira e All’esterno. Ho potuto ampliare il mio bagaglio musicale tramite l’ascolto di musica che fino a quel momento avevo un po’ tralasciato. Primo fra tutti l’album Tourist di St Germain. Molto importanti sono state anche le colonne sonore di Hans Zimmer, intrise di malinconico romanticismo condito da ventate di anticonformismo elettronico.

Mama contiene echi di musica latina mentre in Sahara si sente un certo influsso mediorientale. Questo dice molto della varietà del tuo spettro compositivo, credo.
L’idea infatti è stata proprio quella di creare un prodotto che avesse sì un certo collante che tenesse insieme il tutto (l’elettronica), ma che desse anche l’idea della mia versatilità e quindi della vasta gamma di musica che cerco di studiare e approfondire per essere un buon compositore e musicista.

Mi è piaciuta tantissimo la poesia di Aref Hamza con cui hai chiuso, è un autore che non conosco per niente. Mi spieghi come l’hai scelto e perché? Personalmente trovo che dia un tono molto più cupo ad un lavoro che invece in molti punti mi era apparso luminoso. Chiuderlo in questo modo  dà un po’ l’impressione che quell’aria aperta non la respireremo mai…
“È così che ho perso la speranza”, questo è il titolo della poesia di Aref Hamza che chiude il mio album. Ammetto che è molto cupa però l’intenzione non è di scoraggiare, ma di far riflette su un aspetto che con l’avvento del covid è diventato ancora più soffocante: l’umanità è sempre più cattiva e indifferente nei confronti del prossimo, la gente si sbrana ogni giorno per il nulla mentre altre persone muoiono per cercare di dare un futuro migliore ai propri figli, attraversando il mare con un gommone malconcio. La tragedia che si è ultimamente abbattuta sull’umanità ha reso tutti ancor più egoisti, convinti che l’Universo ruoti intorno al loro salottino patetico. Se iniziassimo a vivere la realtà come ci è servita ogni giorno senza cercare di sfuggire dal dolore altrui, amandoci e facendo qualcosa per chi è vicino a noi, Hamza non scriverebbe più di una madre che piange il figlio morto in mare.

Da ultimo, cosa succederà adesso? Pensi di portare questo disco dal vivo?
Assolutamente, ho intenzione di portare lo spettacolo All’esterno sui palchi italiani e magari anche fuori. Ricordo che questo progetto è uno spettacolo multidisciplinare che vede protagonisti musica (Davide Rasetti) e danza (Rebecca Rastelli) connessi nell’intento di creare un mondo nuovo dove poter amare e soffrire senza preoccuparsi di niente.