R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Curiosa e sorprendente l’opera prima della trentaseienne polistrumentista finlandese Linda Fredriksson. Partendo da semplici “tracce-canzoni” composte su una chitarra acustica e su una tastiera elettronica, la Fredriksson, con un vero e proprio salto acrobatico, trasforma tutto questo in qualcos’altro, cioè in una sequenza di brani di (im)puro jazz. Il passaggio si svolge attraverso l’impiego di sassofoni, sopratutto il baritono e il contralto ma non solo, sostenuto da alcuni musicisti che si occupano di dare sostanza alla struttura del suo suono. Sorprende il fatto che l’autrice di questo Juniper parrebbe, secondo ciò che lei stessa racconta, non essere stata influenzata tanto dalla musica jazz quanto da quella cantautoriale, particolarmente americana. Effettivamente, alle volte, s’intravedono linee melodiche che fanno pensare a qualcosa di simile, come in Lempilauluni, penultimo brano della raccolta. Qui l’atteggiamento casalingo low-fi viene sfacciatamente esibito nella sua semplicità anche con l’aggiunta di un canto “a bocca chiusa” della stessa compositrice. Questa condizione artigianale, spesso arricchita da suoni colti direttamente da ambienti esterni, persiste un po’ per tutto lo svolgersi dell’album, nonostante l’incisione in studio sia stata condotta con tutti i crismi tecnici del caso. È una musica istintiva, questa di Juniper ma non per questo meno raffinata rispetto ad altre composizioni di jazz contemporaneo. Minimale, se vogliamo, nella sua essenzialità ma non minimalista, anzi ricca da par suo di spunti originali, alle volte sorprendenti nella loro disarmante immediatezza. Caratterizzato da un’atmosfera che vive su tonalità introspettive ma senza estremismi, questo disco fa trasparire l’intenzione di un suono magro, disinvolto, senza troppi fronzoli, che punta primariamente ad una decisa volontà comunicativa. Fatico a trovare dei riferimenti stilistici al sax della Fredriksson che mi sembra piuttosto originale, nonostante abbia letto qui e là presunte similitudini con Eric Dolphy o Pharoah Sanders.

Il baritono, ma anche gli altri fiati, sono soffiati con adeguata convinzione e perizia, affrontando diversi passaggi sdrucciolevoli dove si transita da una linea melodica ben percepibile a vitalistici momenti di free ma c’è di buono che la Fredriksson non usa alcuna strategia formulaica. Ella s’approccia ai suoi sax con intenzione liberatoria, direi quasi con una certa provocazione ma nel contempo coinvolgendo per la chiarezza delle sue idee, la coerenza delle linee progettuali e la buona tecnica strumentale. I musicisti che l’accompagnano sono Tuomo Prättälä e Matti Bye al piano – quest’ultimo solo in un brano – più Minna Koivisto ai synth e alle tastiere, Olavi Louhivuori alla batteria e Mikael Saastamoinen al contrabbasso.

Neon Light (and the sky was trans) dà inizio al percorso musicale di questo Juniper. Sopra uno scroscio di pioggia percepito in sottofondo, si avverte qualche nota di tastiera dove l’archetto di Saastamoinen sfrigola sulle corde. Il sax esordisce con una melodia semplice, quasi una canzone senza testo punteggiata da qualche intervento di synth. Il “tom” della batteria irrompe con un ritmo tribale e cadenzato che mi ha ricordato il battere compulsivo di Maureen Tucker, l’insolita drummer dei Velvet Underground e in effetti questa batteria un po’ cupa insisterà anche nel brano successivo. Da qui in poi il pezzo s’arricchisce di una sovrapposizione di sax ed effetti elettronici con lo strumento a fiato che sbotta libero in una corsa assolutamente free fino al termine. Juniper s’annuncia coi ”tom” di batteria prima accennati, corroborati dal basso. Il sax baritono si fa ascoltare in un tema fluido prima di incontrare un tappeto sovrapposto di più fiati sovra incisi che oltrepassa in seconda battuta, cimentandosi poi in un’interessante divagazione improvvisativa. Il tema di fondo è in linea con gran parte del jazz americano contemporaneo e stupisce che la Fredriksson misconosca quasi di interessarsene a favore di Sufjan Stevens (!) o addirittura Neil Young (!!) cui ella stessa ammette d’ispirarsi… Nana – Tepalle è una dedica alla propria nonna – la cui immagine appare nell’omonimo video promozionale. Qui, com’era lecito aspettarsi, l’emozione del ricordo prende il sopravvento. Il contrabbasso batte come un cuore sentimentalmente coinvolto e il sax – contralto? – disegna una bella melodia che finisce per sovrapporsi ad una serie di fiati sovra incisi su cui il tema melodico riprende secondariamente quota. Un po’ di synth tra le quinte prima dell’improvvisazione, in un incremento di fragore sonoro molto drammatico che costituirà però l’unico momento di questo tipo nel prosieguo dell’album. Nel finale il tema viene ripreso dal piano di Matti Bye che lo scandisce nota per nota, con una timbrica di piano verticale “sordinato” – nelle intenzioni della Fredriksson forse un altro di quegli effetti casalinghi inseriti per creare un’aura sonora globale dall’aspetto familiare.

In Pinetree song oltre ai già collaudati rumori d’ambiente boschivo con l’aggiunta di qualche cinguettio d’uccelli, il sax melodizza su una chitarra acustica dal suono male in arnese, appositamente ricercato dall’autrice che ha utilizzato un vecchio strumento avuto in regalo da ragazzina. Basso e batteria intervengono ma molto discretamente, interpretando quell’economia di suoni voluto dalla Fredriksson, con una cadenza lenta contornata da effetti di synth sullo sfondo. Qui però interviene un bell’assolo di piano, molto moderno, questa volta di Prättälä, che fa alzare l’asticella del gradimento complessivo contribuendo a fare di questo brano, a mio sindacabile parere, il migliore dell’intera raccolta. Il titolo chilometrico della traccia che segue Transit in the Softest Forest, walking, sad, no more sad, leaving inizia con un sax tenore, questa volta, che spazia con una timbrica aerea alla Garbarek. Successivamente il testimone ripassa ancora al suono corposo del baritono che si distende su una trama percussiva eseguita in accordo col contrabbasso. La linea melodica è molto interessante, si sviluppa lentamente con sinuosità e con forma cantabile, quasi fosse un accenno di blues nel finale. Lempilauluni, come già accennato in precedenza, è cantato sottovoce, a labbra chiuse, e la Fredriksson ci ricorda che la costruzione di questo brano, nato sulle note della chitarra, sia stata concepita sotto forma di canzone. Un assolo di contrabbasso unito al piano prepara il terreno per l’intervento del sax che, esaurita la sua parte, si perde tra il canto, la chitarra e qualche rumore di stoviglie provenienti dalla cucina, come specifica la stessa autrice, luogo dei colloqui e dei momenti di riposo tra lei stessa e il proprio gruppo di musicisti. Clea è il momento del commiato. Un vigoroso pizzicato insistente del contrabbasso sorregge il sax, doppiato dal rhodes di Prattala. L’aria si fa rarefatta, l’assetto melodico non viene mai meno e diventa velatamente malinconico.

Questo album non è certo un semplice insieme di brani che possano sfiorire con ripetuti ascolti, anzi, dimostra inaspettate sfumature via via che l’orecchio si abitua alle piccole invenzioni che la musica rivela. La Fredriksson è sorprendente nell’abilità strumentale coi saxofoni e nell’estro con cui conduce assoli e composizioni. Il resto del gruppo fa la sua parte in modo più che onesto.

Tracklist:
01. Neon Light (and the Sky Was Trans)
02. Juniper
03. Nana – Tepalle
04. Pinetree Song
05. Transit in the Softest Forest, Walking, Sad, No More Sad, Leaving
06. Lempilauluni
07. Clea