R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

C’è un antico peccato originale che morde la coscienza della cultura europea, cioè quello di aver sottovalutato per tanto tempo l’arte e la filosofia provenienti dall’Oriente. Dal XIX° secolo, tuttavia, cominciò a diffondersi alle nostre latitudini ogni sorta di orientalismo, inizialmente solo figurativo, soprattutto attraverso quei pittori e quei mercanti che portavano in Europa le suggestioni medio-orientali, spesso lavorando più d’immaginazione che altro. Poi, con gli anni ’60, si diffuse quell’interesse un po’ d’accatto che consisteva nell’intreccio bizzarro tra religioni, superstizioni, yoga sutra e sufismi liofilizzati. L’inattesa postilla di tutto questo fu che per comprendere l’India, l’Islam, e tutto il medio oriente non sarebbe bastato seguire la moda del momento ma bisognava studiare, tanto e a lungo, i fondamenti di una mentalità e di una visione della vita spesso diametralmente opposti alla nostra. Di tutto quel periodo pervaso da incensi, profumi al patchouly e campane tibetane qualcosa di buono è rimasto. La musica, ad esempio, che parlando il linguaggio dell’Arte non ha bisogno di traduzioni né di complicate analisi sociologiche. Chi non ricorda il fascino di Ravi Shankar, le ipnotiche ondulazioni sonore di Terry Riley o gli esperimenti di La Monte Young? Il trio Osmosi, e cioè Fabio Marconi, Alberto Pederneschi e Ivo Barbieri, s’appella non solo alla simbiosi tra culture geograficamente distanti, ma anche al succitato fenomeno chimico-fisico per battezzare allo stesso modo la loro prima uscita discografica e anche per giustificare, secondo logica, la ragione di questo lavoro. Come una membrana semi-permeabile che seleziona il passaggio di alcune molecole rispetto ad altre, infatti,  questo trio agisce su alcune impressioni sonore di provenienza medio orientale, accolte e messe in atto diluendole in una soluzione dinamica composta in parte da elementi tipicamente occidentali di matrice rock-jazz e in parte provenienti da una tradizione più mediterranea. Nonostante questa formazione triadica sia alla prima esperienza discografica come gruppo, in realtà i singoli componenti hanno già alle spalle un discreto numero di collaborazioni e partecipazioni in ambito musicale.

Fabio Marconi, chitarra elettrica, ha sempre manifestato interesse per le tradizioni musicali di matrice etno-popolare, dall’influenza turca a quella balcanica e caucasica, fino ad ispirazioni klezmer e curde. Ha inciso un disco con Fakhraddin Gafarov, musicista nato in Azerbaijan che suona il “tar”, uno strumento cordofono di origine persiana – Uzunderè del 2017 è il nome di questo lavoro. Troviamo ancora Marconi con il Rhapsodija Trio in Un Mondo, a Pezzi del 2019, ed ha inoltre partecipato con la cantante milanese Camilla Barbarito all’uscita di Sentimento Popolare Vol.1 & 2 – rispettivamente del 2018 e del 2021. Ivo Barbieri è al basso, anch’egli può contare su alcune incisioni, comprese le collaborazioni insieme a Marconi con la Barbarito. Qualcosa d’altro di Barbieri lo si può trovare facilmente in streaming con il quartetto Zancle, in un’uscita del 2013 a fianco della cantante Serena Ferrara. Alberto Pederneschi è il batterista e il percussionista di Osmosi, anch’egli coinvolto nelle incisioni con la Barbarito e inoltre presente in streaming con Prima Luz del 2017 insieme al pianista Antonio Vivenzio. È anche autore di colonne sonore e musiche per documentari.

Devo dire che il lavoro svolto da Osmosi sorprende ben oltre le  aspettative. Il particolare tecnico che più si fa apprezzare è l’utilizzo di uno strumento come la chitarra elettrica che di regola non si immaginerebbe a suo agio in un contesto come questo, in transito continuo dalla tradizione turca a quella nordafricana attraversando la terra d’Albania. Una chitarra che è spesso “fretless”, cioè senza tasti e con l’aggiunta di applicazioni particolari, come il campo magnetico indotto dall’“ebow” che crea un particolare effetto di sustain. Una serie di invenzioni soniche che non puntano tanto alla mera imitazione di uno strumento acustico – questo sarebbe infatti un assoluto controsenso – ma alla creazione di prelibatezze timbriche che ben si adattano agli scopi di Osmosi. La musica si fa così attraversare da un senso di tensione interna, un surfing tra strappi e interventi ritmici che mantiene costantemente viva la nostra attenzione. Siamo insomma di fronte a uno di quei pochi casi in cui l’approccio critico cede volentieri il passo al piacere di lasciarsi andare all’ascolto.

Così incontriamo la breve traccia apripista, Incarnation, che si presenta con pochi secondi di basse frequenze e percussioni. Yaram Sizlar Agrir Basim è un’elaborazione strumentale di un brano tradizionale turco. Un brushing di batteria accompagna la chitarra fretless con tanto di ebow, offrendo un’emulazione che sta tra uno strumento a fiato ed uno a corde ma che possiede comunque un suono elettronico e vetroso, prima che il timbro muti in quello più riconoscibile di un arpeggio chitarristico dai toni morbidi. Cessa quindi lo struscio delle spazzole sulle pelli, sostituite da una batteria più percussiva, forse suonata direttamente con le mani nude. Soundscape I è costruito da voci circondate da silenzi e da echi notturni, fino ad un grido che scuote perentoriamente l’aria. Elif Dedim Be Dedim è un altro brano tradizionale turco che si muove nell’ambito più consono alla danza. Basso e percussioni ne scandiscono l’incedere e la chitarra suggestiva di Marconi conduce linearmente il tema iniziale per poi aggiungervi strada facendo un grappolo di note prolungate ed evocative. Percussioni e basso hanno modo di dire la loro attraverso assoli brevi e convincenti. Si rimane comunque nell’ambito modale, tipico della musica medio-orientale. Un soffuso scampanio e qualche rimbombo timpanico sembrano introdurre all’ambito più meditativo ed interiorizzato di Soundscape II.  

Ma il brano che segue, Kirmizi Paltolu Kiz (ragazza con un cappotto rosso) composto dal pianista turco Yigit Ozatalay, si dimostra invece una ballad jazz-rock nel vero senso del termine. Si abbandonano qui le abitudini orientaleggianti per entrare in un brodo timbrico e tonale tipicamente occidentale, dai toni moderati che si alzano progressivamente verso il trascinante gran finale. Chitarra magistrale, quasi blues a tratti, e gran lavoro della ritmica sottostante nell’organizzazione di un brano che sta tra Bill Frisell e John Abercrombie, con tanto di distorsione e wha-wha al seguito. Con Taksim, il quartiere più occidentale ed elegante di Istanbul, si ritorna in ambito modale con la chitarra che si appoggia ad una nota bordone per poi improvvisare come fosse uno oud. Da qui si passa ad Eklil del musicista tunisino Dhafer Youssef, forse la voce più impressionante che abbia mai ascoltato dal vivo in vita mia. Questo brano, comunque, non è cantato nemmeno nell’originale e proviene dall’album Malak editato dallo stesso Youssef nel 1999. Bisogna rilevare come la chitarra di Marconi traduca la traccia tematica che in Malak è suonata dall’oud con molta verosimiglianza, anche se a tratti affiora l’inciampo di qualche manierismo eccessivo. Besa Shqiptare (onore albanese), proviene dal repertorio tradizionale dell’Albania. Nonostante l’inizio quasi sottotono con un riff di basso in sordina su cui la batteria si sbizzarrisce in un variegato florilegio percussivo, la tensione complessiva del brano sale contemporaneamente alla presenza della chitarra quando essa diviene via via più evidente. Marconi predilige in questo frangente un suono aggressivo, distorto, alla Mc Laughlin del periodo Mahavishnu e forse anche più estremo, con qualche attimo di reminiscenze perfino hendrixiane. La musica diventa una danza divampante in tempi dispari, molto trascinante e dai toni quasi ossessivi. Ubiquity sembra riprendere l’atmosfera di Incarnation dirigendosi verso una dimensione eterotopica, indecifrabile, costituita da suoni e percussioni che sembrano non aver più alcuna direzione precisa. La musica si dissolve quindi in una nebbia caliginosa che nasconde i contorni delle cose, risucchiata da una vibrazione profonda terrestre, una “risonanza di Schumann” che  proviene dalle viscere del pianeta.

Osmosi lo si legga così, dunque, tra abitudini modali e imprinting rockkeggianti, tra suggestioni desertiche e frammentazioni urban-jazz. Un convincente mosaico policromo che cerca di raccontare la sintesi tra diverse culture, riuscendoci, per lo più, con molta eleganza.

Tracklist:
01. Incarnation
02. Yaram Sizlar Agrir Basim
03. Soundscape I
04. Elif Dedim Be Dedim
05. Soundscape II
06. Kirmizi Paltolu Kiz
07. Taksim
08. Eklil
09. Besa Shqiptare
10. Ubiquity