I N T E R V I S T A


Articolo di Arianna Guastini

È uscito venerdì 6 maggio 2022 il nuovo e sesto album di Willie Peyote (nome d’arte Guglielmo Bruno Torinese, classe 1985) dal titolo Pornostalgia che presenta 13 brani inediti. C’eravamo lasciati nel 2019 con Iodegradabile, di cui non è stato possibile nemmeno godersi il tour perché è scoppiata la pandemia Covid Sars 19.
Ma in questi anni Willie non è comunque stato fermo, ha collaborato con l’artista internazionale Shaggy (vincitore di 2 Grammy Awards), con cui ha lanciato il singolo Algoritmo, a cui ha fatto seguito la canzone La depressione non è un periodo dell’anno, un brano che racconta in maniera pungente e geniale la pandemia e il troppo parlare di tutti su argomenti poco conosciuti. L’abbiamo poi ritrovato con stupore nel 2021 a Sanremo con il brano Mai dire Mai, che ha conquistato il premio della critica Mia Martini.
Eccoci al presente, ho avuto possibilità di fare una piacevole chiacchierata con Willie per parlare del nuovo album.

Partiamo dal titolo dell’album Pornostalgia in cui appunto c’è stata una ricerca delle epoche passate e in cui «Porno» sta per un’estremizzazione di questa nostalgia. Giusto?
Sì per il valore di rassicurazione, ma anche un po’ di eccitazione che ci dà la nostra vita in certi momenti, quando non riusciamo a guardare avanti ci troviamo costretti a nasconderci nel passato e in qualche modo questa cosa ci eccita. È anche un po’ per quello che la chiamo «porno», perché l’eccitazione non è solo sessuale. Ovviamente si riferiva più che altro a come ci fa stare bene la nostalgia.

C’è stata anche una ricerca nostalgica dal punto di vista dei suoni (nell’album si sente un ritorno al rap del passato). Che cosa ti ha ispirato in particolare delle epoche precedenti? E dal tuo punto di vista senti che in questo momento ci sarebbe anche un bisogno di ritorno al passato nel sociale e nella vita in generale?
Nella vita sociale ci vorrebbe più lentezza sono d’accordo, ma soprattutto servirebbe a tutti prenderci un po’ di tempo per capire le cose prima di dire la nostra, per andare in profondità nei temi, prima di spingerci a ragionamenti e voli pindarici. Però nella scelta musicale in realtà io ho seguito solo il mio istinto, era un bisogno che avevo, quello di tornare un po’ indietro per tanti motivi, legati sia al mondo fuori di me, sia al mio percorso personale e artistico, ne sentivo la mancanza. Ho ascoltato molto Rap, mi piaceva di più e ho pensato che volessi ricimentarmi con quello, perché semplicemente mi sentivo più appagato a farlo che non a cercare la ballata col ritornellone che funziona in radio. Perché l’abbiamo provato in tanti, in tanti modi, in tante diverse declinazioni. Ma ‘sto giro qua avevo più voglia di stare bene Io, che non di seguire una delle regole che poi non so nemmeno se esistono. Ce le imponiamo un po’ da soli! No? Uno vede che una cosa funziona, e allora vuole farlo anche lui. In realtà io ho più bisogno di stare bene a fare musica perché è l’unico posto nel mondo in cui sto bene e quindi devo tornare per me e per restituire al pubblico un prodotto valido.

Nei nuovi brani infatti si sente una sorta di resoconto, un tirare le somme di questi anni anche attraverso le citazioni che li contraddistinguono: “Lo sai ho fatto un disco, poi un altro, anche il terzo e giù fino al quinto citando il maestro.” (citazione di Fabri Fibra “Non fare la puttana” – nel brano “I soldi non esistono” Feat Jack la Furia). Per fare questo resoconto ti sei chiuso anche tu in una bolla come in “Hikikomori”?
No, in realtà io ho solo cercato di ritrovare lo slancio che un po’ mi è venuto a mancare nei confronti della scrittura nel mio lavoro, anche dovuto al fatto che per due anni non ho potuto toccare con mano gli effetti di ciò che stavo facendo. Forse un po’ quello mi ha costretto ad andare a cercare dentro me stesso il motore. Mentre prima tutto si muoveva facendo tante cose, nel fermarmi ho dovuto ritrovare il mio motore interno per continuare ad andare avanti. Però cerco di non chiudermi mai nelle bolle, perché mi spaventa il concetto; anzi, proprio per quello, cerco di cambiare sempre, di non fare mai dei dischi uguali, perché voglio uscire dalla zona di comfort non appena qualcosa mi è riuscita molto bene. Quindi se una roba ha funzionato non la farò sicuramente una seconda volta. Perché per quanto forse – proprio a livello di business – non è la cosa più intelligente del mondo da fare, lo trovo poco divertente e poco stimolante sia per me che per il pubblico. Vorrei che ogni volta che qualcuno mettesse il mio disco sapesse di non sapere cosa aspettarsi. Io voglio che abbia la curiosità di dire “vediamo a questo giro dove mi porta”.

Insomma cerchi sempre di muovere un passo in avanti?
Si, magari un passo di lato, o magari un passo indietro, che in realtà è un passo avanti. Questo disco poteva chiamarsi “Ritorno al futuro” per certi versi. Tornare indietro come approccio alle tracce, ma comunque con suoni più nuovi, anche con dei musicisti diversi.

In questo album sono presenti diverse collaborazioni come con Aimone dei Fast Animal and Slow Kids, nel brano “Robespierre, Samuel in “Diventare Grandi” e Jack la Furia dei Club Dogo in “I soldi non esistono”. Entrambi quest’ultimi sono stati d’ispirazione per la formazione musicale di Guglielmo. A proposito di Samuel Romano, hai collaborato nell’ultimo album dei Subsonica “8” (2018) nel brano “L’incubo”. Fai anche riferimento a Battiato e dici che tu non hai la cura…
No, io non ce l’ho no (ride). E non pretendo di essere vissuto come un artista che deve fare quello che ha fatto Battiato o quello che hanno fatto i grandi del passato. Un po’ perché le cose e le condizioni sono cambiane e un po’ perché non mi sento all’altezza del compito. Quindi di Battiato ce n’è uno e va bene così.

In “All you can Hit” parli di troppa offerta di musica, come se fosse diventato più facile fare gli artisti. Credi che sia derivato dall’uso dei social o dall’ignoranza? Forse non abbiamo più una cultura musicale di riferimento?
La cultura si forma nel tempo, tu non puoi pretendere che i giovani abbiano una cultura se non gli proponi mai un “pattern” diverso da qualcosa di nuovo ogni giorno. Negli anni passati la musica dovevi andarla a cercare, non te la lanciavano gratis e questo le dava un valore tuo personale, mentre ora siamo bombardati. Secondo me è il meccanismo dei social, più posti, più i tuoi post avranno un riscontro, perché l’algoritmo premia chi crea continuamente contenuti nuovi. L’idea è avere sempre e solo qualcosa di nuovo da proporre, non tanto il valore di quello che proponi, ma il fatto che nel momento in cui hai proposto una cosa devi già pensare a quella successiva. Se questo diventa il meccanismo di produzione di qualunque cosa, esattamente come nel “all you can eat”, in cui tu hai a disposizione tutti i piatti che vuoi, è evidente che per produrre ci sarà meno lavoro, perché se ne devono produrre tanti in poco tempo e questo vale per tutto, diventando una catena di montaggio, le cose rischiano di perdere valore. Si può secondo me trovare una quadra, un modo per avere sì, una proposta costante di musica, ma cercare di proporre qualcosa che abbia un gusto un po’ più vero.

Perché i brani che ci propongono oggigiorno sembrano tutti un po’ uguali?
Perché se una roba funziona la rifaccio! È il modello di business in cui viviamo oggi. Cioè, se una roba funziona la riproduco, mentre secondo me una volta c’era più tempo per provare e forse anche più voglia di rischiare. Oggi proprio perché devi azzeccare ogni mossa che fai, non hai neanche la possibilità di accollarti un rischio d’impresa. Non è solo colpa degli artisti, però non è solo colpa dell’industria e non è solo colpa del pubblico. Siamo tutti ugualmente colpevoli perché ci siamo tutti lasciati trascinare in questo, anche io come ascoltatore. Per primo mi rendo conto che ascolto la musica in modo diverso da come sono andato ad ascoltarmi le cose vecchie. Mi sono rimesso a confronto con ciò che mi piaceva prima perché avevo bisogno di tornare a ricordare cosa era per me la musica prima di passare il venerdì sera ad ascoltare le nuove uscite e a dare trenta secondi di tempo al pezzo per piacermi o meno, perché poi siamo tutti così. Il primo giudizio te lo fai in pochissimo, il meccanismo è così, perché è talmente facile arrivare alle cose che necessariamente gli dai meno tempo per piacerti, perché ce n’è un’altra immediatamente dopo. Se escono dieci dischi in un giorno, io vorrei avere il tempo di ascoltare tutti e dieci bene, neanche facendo selezione perché ho sempre paura di perdermi qualcosa. Più è l’offerta, più ho il dubbio: “e se mi perdo qualcosa?” Tante informazioni, ma hai meno informazioni in realtà.

In “Fare schifo” c’è una critica verso il dover assolutamente mostrare la parte migliore di noi e spingerci a invece a nascondere noi stessi per come siamo; come pensi che si ripercuota questo atteggiamento nella società di oggi?
Ci sentiamo tutti un po’ stufi di questa cosa, ma altrettanto costretti a mostrare il meglio di noi, perché vediamo gli altri mostrare il meglio di loro e quindi ci sentiremmo gli unici sfigati in confronto a loro. Ci incatena un meccanismo che non ci piace, perché in realtà non c’è nessuno che mi dica che questo gli piaccia. Non c’è mai una persona che dica “a me piace”, mai, non ne conosco o non le frequento.  Però non mi piace vivere la vita costretto a mostrare solo il meglio di me, non credo che nessuno sia veramente sereno a fare così, né a dover spettacolarizzare anche momenti brutti. Però, quando tutto, anche quello di negativo che ti succede, devi comunque renderlo uno spettacolo…. beh cazzo a me spaventa! Io non so se avrei la forza di farlo fino in fondo e non ho la forza di farlo neanche un po’. Credo solo che ci si costringa a stare bene anche quando avremmo diritto di prenderci un attimo di pausa e sentirci fuori luogo, sbagliati, essere incazzati anche senza motivo. Non dovremmo avere paura dei sentimenti negativi. Si ha troppa paura dell’infelicità, della tristezza. Si ha paura del dolore. Sono colori che fanno parte della vita e nasconderli non ci renderà persone più complete, ma il contrario.

Questo è un po’ quello che succedeva in tv, ora ogni singolo individuo si sente quasi un divo?
Brava. Una volta dicevamo “ah le ragazze vogliono fare le veline e i ragazzi vogliono fare i calciatori” per dire che non avevano grandi obiettivi nella vita, però c’era un percorso da fare. Oggi tu potenzialmente ti fai fare due foto fatte bene, apri un Only Fans, maschi e femmine non sto facendo distinzioni di genere, vale per ambo i sessi. E se sei potenzialmente un “content creator” perché fai i playback dei dialoghi del film da solo a casa e potenzialmente hai milioni di follower. Il fatto è che questo ci dà la sensazione che tutti possiamo fare tutto, in realtà è una balla! E ti mette soprattutto la pressione che se non ce la fai sei proprio tu che sei uno stronzo, perché ce la fanno tutti! E questo meccanismo del “tutto funziona e se non ce la fai è perché è colpa tua” ha fatto sì che nel nord Europa ci siano più suicidi che in altre parti del mondo.

Pensi che i trentenni di oggi siano stati svantaggiati rispetto ai giovani d’oggi e ai giovani delle epoche passate?
In realtà penso che noi la viviamo così, ma che facciamo proprio l’errore più grande perché siamo quelli più avvantaggiati fra tutti, nella misura in cui abbiamo vissuto a metà fra un mondo che non era totalmente analogico e un mondo totalmente digitale. Siamo la generazione di mezzo. Siamo nel lasso di età migliore perché abbastanza grandi ma ancora giovani e con l’energia per fare le cose. Quindi dovremmo assumerci la nostra responsabilità e prenderci lo spazio che meritiamo. La nostra generazione è proprio quella che può fare delle proposte reali, anche a livello di partecipazione politica, a livello di classe dirigente, per certi versi. Solo che noi siamo troppo impegnati, perché ci sentiamo diversi sia da prima che da dopo. Un po’ disillusi, un po’ come se ci passassero tutti davanti. Perché oggi non si fa altro che parlare dei giovani, ma è giusto, del resto ci sono sempre stati i giovani “Enfants Prodiges”. Dovremmo tornare a renderci conto che abbiamo i mezzi per essere la generazione che può cambiare qualcosa, perché conosciamo com’erano le cose prima e siamo abbastanza dentro i meccanismi di oggi, non siamo Boomer! Secondo me dovremmo capire e avere più fiducia nei nostri mezzi e nelle nostre possibilità. Il mondo non ci mette tanto in condizione, è vero, il mondo del lavoro sicuramente non aiuta, però non dobbiamo pensare di dover essere tutti su TIK TOK a quarant’anni per riuscire a farcela, ma neanche metterci a guardare i cantieri. Noi viviamo in mezzo a quella roba lì. Ed è proprio nel mezzo in cui viviamo, che dobbiamo giocarcela e dare valore; per quello io cerco di parlare un linguaggio che non è né quello dei più giovani né quello dei miei predecessori. Io parlo la mia lingua perché so che la mia lingua è potenzialmente comprensibile a tutti e due.

Dopo l’avvenimento dei Cinque Stelle in passato, trovi che al momento ci sia un calo di interesse sulla politica?
Sì, c’è un disinteresse che comunque è iniziato trent’anni fa. È evidente che il fallimento del progetto dei Cinque Stelle, che erano sembrati portare un vento di cambiamento e poi in realtà si sono schiantati contro l’establishment e il fatto che alla fine questo mondo non lo cambi mai davvero, sicuramente ha tolto ulteriore slancio. Arriverà qualcun altro, con una nuova ricetta più o meno populista, ma comunque in quel viaggio lì, perché non ci si stacca da quei concetti, non si scende mai in profondità, l’unica cosa che fa presa è la pancia e la rabbia. Quindi arriverà qualcuno magari di più arrabbiato dei cinque Stelle… per quello ho paura della deriva un po’ a destra delle democrazie, anche se quello che è successo in Francia fa pensare: perché è vero che ha vinto Macron, ma l’unica alternativa a Macron sono i fasci. E non hanno vinto solo perché, appunto ci sono ancora gli anticorpi che dicono: “piuttosto che votare quella gente lì voto anche Macron che mi sta sulle palle!” Però a forzare la gente a tapparsi il naso prima o poi ci sarà qualcuno che decide di lasciar perdere e l’unica alternativa, al momento, sono quelli che appunto giocano sulla rabbia. Secondo me servirebbe che qualcuno si prendesse anche la responsabilità di questa cosa e provasse a comunicare non parlando solo alla pancia ma anche senza far finta che la pancia non esista. Perché se la gente è incazzata dei motivi ci sono, è per quello che io sono sempre molto incazzato perché penso che nascondere la rabbia non sia il modo giusto, il punto è come incanali la rabbia, come vai a cercarne le radici, non è mai una rabbia a sé stante, se la rabbia c’è, c’è anche un motivo.

Terminiamo l’intervista con un giochino sulle epoche passate. Con chi avresti voluto collaborare negli anni settanta?
I Rolling Stones.

Negli anni ottanta?
Bowie.

Negli anni novanta?
Sono troppi negli anni novanta (ride), Rage Against the Machine.

Photo © Chiara Mirelli