R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Forse sarebbe meglio chiarire subito un aspetto fondamentale, beninteso senza alcuna vis polemica. Daniel Lanois, musicista canadese, produttore, compositore e abile demiurgo sonoro non è un pianista vero e proprio, per sua stessa ammissione. Ha realizzato questo disco Player, Piano lavorando sui suoni di due pianoforti, uno Steinway modello “O”, una sorta di mezza coda più grande dei normali pianoforti dello stesso tipo e uno Heintzman verticale. I due pianoforti, ciascuno con timbriche completamente differenti, sono stati “preparati”, o meglio modificati nella sonorità, sia utilizzando una microfonazione posizionata in modo strategico per lenire le frequenze più brillanti, sia utilizzando feltrini accessori da aggiungere a quelli già in dotazione ai martelletti, con l’obiettivo di ottenere una prestazione più morbida all’ascolto ma anche un particolare viraggio, almeno nelle intenzioni, verso un’atmosfera un po’ vintage. Poi Lanois ha fatto due scelte che un pianista non farebbe mai, cioè quella di registrare le parti delle due mani separate tra loro e di operare tagli e cuciture tra i suoni, in sede di missaggio, in modo da ottenere – sono parole sue tratte da un’intervista di Brad Wheeler presente sul sito The Globe and Mail del settembre dell’anno in corso – “accordi che non potrei sentirmi incline a suonare in una performance naturale”. Un commento elegantemente sincero per far intendere che il pianoforte gli è servito come sorgente d’ispirazione poetico-sonora, più che come strumento fine a sé stesso. Del resto Lanois vanta una grande esperienza sia come autore – ha pubblicato una dozzina di album prima di quest’ultima uscita, senza contare i numerosi EP, singoli e compartecipazioni varie – sia come attento e raffinato produttore – ricordiamo a proposito gli album editati con U2, Dylan, Neil Young, Emmylou Harris, ecc… Questo continuo lavoro, autoriale, coautoriale e di produzione, gli ha fatto acquisire una sorta di equilibrata sapienza musicale a posteriori, tale per cui l’Autore si trova ad operare con le note senza commettere errori di rilievo, come lui stesso racconta. “Non voglio che il riverbero del mio Do# vada a sbattere con quello di un Do naturale”, e quest’affermazione dimostra il desiderio di mantenere sotto controllo tutto ciò che potrebbe apparire oltranzismo armonico espressivo o peggio, segnale di superficiale incompetenza.
Questo Player, Piano regala l’impressione di essere un po’ l’apocatastasi di Lanois, un ritorno a casa quasi per tirare le fila delle numerose esperienze musicali attraversate in tutta la sua carriera. A 71 anni d’età è lecito guardarsi dentro con una naturale accondiscendenza, soprattutto valutando a volo d’uccello, senza narcisismi, tutti gli obiettivi raggiunti e le sperimentazioni in vari campi che Lanois stesso si è prefissato in quarant’anni circa di attività artistica. E questo disco, infatti, racconta molto dell’intimità del suo autore, rimandando alle pregresse esperienze con Brian Eno ma anche ad almeno un paio di incisioni da titolare come Belladonna (2006) e Goodbye to Language (2016) con lo spirito delle quali mi sembra di cogliere le maggiori affinità. Viene suggerita una diversa modalità di avvicinamento verso sé stessi, un modo di abbandonarsi alle proprie visioni interiori, come si trattasse di intraprendere un viaggio sentimentale che profuma di ricordi personali e che tuttavia, grazie all’intrinseco potere della musica, finisce per essere condivisibile da chiunque si disponga all’ascolto.

 

Non trovo nemmeno corretto – anzi, è riduttivo – servirsi dell’appellativo ambient per descrivere questo lavoro, che invece si racconta come un aforisma della riflessione, una serie di haiku, ciascuno dei quali è un bozzetto acquarellato che narra la dimensione del Tempo che scorre. La melodia la fa da padrone, gli effetti elettronici sono molto misurati ed utilizzati con quel gusto personale che ci aspettiamo da un alchimista del suono come Lanois, mentre vi sono inserimenti di altri strumenti che in parte sono catturati da dischi di altri autori e in parte sono dovuti alla collaborazione del co-produttore Wayne Lorenz e all’intervento occasionale di altri due musicisti, Daryl Johnson al basso e di Christopher Thorn alla batteria.

Il battesimo dell’album inizia con una dedica al fratello Bob morto lo scorso anno. My All è un brano semplice nella struttura, più o meno come appaiono quasi tutti gli altri che compongono la selezione. È un’evocazione elegiaca in tempo di ¾ dal sapore fortemente nostalgico ma densa di pathos, un’immagine tremolante che tende a tener lontano ogni sentimentalismo mentre sembra muoversi in un clima apparentemente giocoso. Come una melodia sospesa in quello spazio infinito tra l’infanzia e l’età adulta, dove si raccolgono, di solito, i ricordi migliori. Lighthouse è un moderato reggae che si allunga senza fretta, appeso nel sole stordente di un primo pomeriggio giamaicano in cui pianoforte, tastiere ed elettronica s’incrociano nella loro essenzialità, sincronizzandosi in un gioco sovrapposto tra il livello di realtà e quello dell’immaginazione. In Inverness la linea melodica e quella dei bassi del pianoforte si relazionano in modo armonicamente perfetto ma l’impressione è che siano stati operati dei tagli e delle ricuciture ad hoc, proprio sulla linea melodica impostata dallo stesso piano, come del resto Lanois medesimo ha rivelato. Le soluzioni armoniche sono intriganti, tutt’altro che banali, ma la musica trasmette un certo disagio, una sensazione malinconica dalle tinteggiature cupe. Parade vede il significativo intervento del basso elettrico di Johnson ma è poco più di un frammento, un messaggio in bottiglia lasciato andare alla deriva. Tuttavia non perde un grammo di suggestione con quelle due linee melodiche reiterate fatte da note di piano, appunti di basso ed effetti elettronici. Twilight è forse l’elemento più ambient dell’album, un po’ prevedibile, con delle leggere percussioni elettroniche che sostengono una struttura musicale in pieno clima new age, tutto sommato un po’ datato. Puebla risente di un’ispirazione classicheggiante, quasi un notturno in tonalità maggiore con una modulazione che ad un certo punto la fa salire di un semitono, donandole una maggior parvenza di modernità. Il verbo melodico si mantiene comunque rarefatto e decisamente lirico.

Eau è un gospel vagamente innodico, molto cantabile. Caratterizzato dalla sovrapposizione tra il piano e la tastiera che simula un organo, il brano che ne consegue è un po’ stucchevole, certamente non indimenticabile. Zsa Zsa cerca soluzioni melodiche molto semplici ma appare incerto, confuso e insieme al brano precedente costituisce una coppia di pezzi piuttosto debole. Clinch recupera un po’ di terreno rispetto alle prove appena ascoltate. Compare Thorn alla batteria per un intervento molto lineare, forse fin troppo ma comunque la traccia in questione non s’impegna in ricerche melodiche elaborate, preferendo reiterare una sequenza di poche note sullo sfondo di un’elettronica piena di echi e riverberi e per questo riesce ad evocare un paesaggio interiore di antica immobilità, quasi una meditazione zen. Sweet Imagination recupera il ¾ che avevamo già sperimentato nel brano di apertura ma anche in questo caso il pezzo sembra più un abbozzo che altro, data la sua breve durata che si svolge – e questo è uno stigma comune in tutto l’album – in estrema semplicità, puntando più sull’allineamento a uno stato d’animo generalizzato che non sulla sensazione specifica promossa dal brano in sé. Wild Child introduce un campionamento di violoncello che apporta tonalità scure a controbilanciare le note più primaverili e chiare del piano. Cascade è – quasi – un puro pezzo di piano solo, molto bello, forse la cosa migliore di questo intero lavoro. Lanois si stacca completamente dall’ombra di una certo eccesso di leggerezza che sembrava far capolino da qualche brano in qua. Nei suoi quasi quattro minuti di percorso si racchiude gran parte del senso di Player, Piano, dove l’autore si avvicina identificandosi maggiormente a quella figura pianistica evocata nel titolo dell’album. Grande sintesi e suggestione – si sentono gli stantuffi del pedale del sustain che sono un po’ i respiri meccanici dello strumento – e si avverte la solitaria, scarna eccellenza di una scrittura introversa che mira al cuore delle cose, all’essenza dell’emozione. In una sola parola, bellissimo. Sunday Asylum ha il fascino del silenzio di un chiostro monastico, un’impronta di serenità interiore che riverbera nella profondità senza confine dell’anima.

Non aspettatevi un vero e proprio lavoro di piano-solo perché questo album non lo è. Non dovrebbe nemmeno, a rigor di logica, essere ascoltato brano per brano come tassonomicamente ho scelto di presentarvelo. È l’ascolto nella sua totalità che favorisce la comprensione di un mondo all’interno del mondo, cioè di quella realtà essenziale che tutti portiamo interiormente, al di là delle distorsioni rappresentate dalla quotidianità. Come suggeriva Lacan, esiste un approccio al reale che procede oltre la realtà apparente e questo disco di Lanois potrebbe essere il giusto tramite per averne consapevolezza.

Tracklist:
01. My All (2:24)
02. Lighthouse (3:09)
03. Inverness (2:50)
04. Parade (1:26)
05. Twilight (3:25)
06. Puebla (2:05)
07. Eau (2:24)
08. Zsa Zsa (2:55)
09. Clinch (2:58)
10. Sweet Imagination (1:37)
11. Wild Child (2:20)
12. Cascade (3:41)
13. Sunday Asylum (3:02)

Photo:
01 © Laura Cole, 02 © Marthe A. Vannebo